ROBERTO BENIGNI CONDANNATO DA UN CAPOLAVORO

Rubino Romeo Salmonì, l’ultimo ebreo romano sopravvissuto ad Aushwitz, che ispirò a Roberto Benigni La vita è bella, ci fa tornare alla memoria il grande film di Roberto. Salmonì, che aveva 23 anni quando fu deportato nel campo di sterminio, dopo la terribile trafila di Via Tasso, del campo di raccolta dei deportatati di Fossoli gestito dai fascisti repubblichini, servi dei nazisti, dopo quasi 70 anni, fino alla sua morte  ancora andava in giro per le scuole a tenere viva la memoria di quell’orrore. La cosa che colpì Roberto fu il racconto dei bambini che Rubino aveva incontrato nel campo dell’orrore e che in fila per tre, stringendo al petto i loro poveri giocattoli, si avviavano allegri, come in un gioco, verso la camera a gas. Prima di morire, Rubino aveva scritto un libro che aveva intitolato Ho ucciso Hitler, perché – diceva – “ho sconfitto il mostro nazista con la mia voglia di vivere che è stata più forte della sua voglia di distruggere”.

Roberto Benigni, fra i tanti racconti dei sopravvissuti che costituiscono una immensa e straordinaria letteratura, fu certamente colpito dal racconto di quei bambini che andavano alla morte giocando che faceva Salmonì e il risultato fu lo straordinario film in cui il papà fa credere al figlioletto di essere dentro un grande gioco per preservarlo dall’orrore. Ricordo quando vidi per la prima volta La vita è bella (dico la prima volta perché è uno dei film che ho visto di più, insieme a Ladri di biciclette, Tempi moderni, Fifa e arena e La grande guerra ).

Mi aveva invitato Roberto a una proiezione privata e lo vidi in anteprima, prima della trionfale uscita nelle sale. Furono due ore di grande emozione, durante le quali ridemmo come poche volte ci era capitato, ci emozionammo, ci indignammo e piangemmo. Sì, confesso che quella volta Roberto che mi aveva fatto tanto ridere mi fece piangere molto. “Vincerai l’Oscar” dissi a Roberto e lui: “Lo so che mi vuoi bene, però non esagerare… l’Oscar addirittura!” Io l’avevo detto senza riflettere perché in quel momento volevo augurargli la cosa più bella che si possa augurare a un cineasta: la sfilata nel red carpet, il presentatore che urla il suo nome e lui che sale sul palco a ritirare l’ambita statuetta senza volto. E poi le dichiarazioni studiate e imparate a memoria: dedico questo riconoscimento a mia moglie ai miei figli ai miei genitori al produttore e via di seguito. Si potrebbe scrivere un libro corposo, e forse qualcuno lo ha fatto veramente, con le dichiarazioni dei vincitori, più o meno originali. Quando gli augurai l’Oscar Roberto non ci pensava proprio che quel trionfo sarebbe veramente arrivato nella sua vita. E quando l’Oscar arrivò Roberto si distinse anche nei festeggiamenti e nelle dichiarazioni. Quando la Loren si mise a urlare il suo nome, Roberto saltò sulle poltrone, quasi sulle teste degli spettatori e poi fece la più sorprendente e poetica delle dediche: “dedico questa gioia ai miei genitori che mi hanno fatto il grande dono della povertà”.

“Parlami seriamente del film” mi disse Roberto “e lascia stare l’Oscar”. Mi ricordo che gli citai Chaplin e in particolare The Kid soprattutto perché il suo Guido mi ricordava il grande Vagabondo che cerca di nascondere il bambino che gli è stato affidato alle autorità che vogliono portarlo nell’orribile orfanotrofio, un vero e proprio lager, che il piccolo Charlie aveva sperimentato a quattro anni quando la sua mamma era stata ricoverata in manicomio. La vita è bella, come The Kid, è tutto un alternarsi di emozioni forti, comiche e drammatiche. Nel film di Benigni ci sono momenti comici da storia della comicità, come la lezione sulla razza ariana,  battute straordinarie come quella con cui Guido risponde al figlio che gli ha chiesto perché in un negozio è vietato l’ingresso agli ebrei. “Perché si vede che gli ebrei gli sono antipatici” risponde “a te chi ti sta antipatico? I Cartaginesi? E allora nel tuo negozio ci scrivi vietato l’ingresso ai Cartaginesi” .

Roberto nei suoi film racconta gli archetipi della comicità. Non mi sembra che sia stata fatta mai una lettura della sua opera in questa chiave. Johnny Stecchino si basa sull’equivoco del doppio che funziona dall’epoca di Plauto (Sosia) e che arriva fino a lui passando attraverso Goldoni (I gemelli veneziani) e Alberto Sordi (Il Marchese del Grillo, il Marchese e il carbonaio, il suo doppio). Il mostro è basato sulla paura del diverso, della degenerazione estrema della natura umana, su cui tanto cinema si è espresso, a cominciare da Murder di Pabst.

La vita è bella discende dalla lezione chapliniana in cui il dramma si maschera con il riso, una fusione che qui diventa totale e perfetta soprattutto nei momenti più drammatici, quando il papà traduce le parole minacciose e severe del guardiano nazista come il regolamento del gioco che stanno per intraprendere, fino a quando il piccolo Giosuè, dalla feritoia di uno sgabuzzino dalla feritoia di uno sgabuzzino, vede il suo papà portato alla morte, che cerca fino all’ultimo di farlo ridere.

Il film di Roberto Benigni, uno dei massimi capolavori del cinema italiano, è stato ispirato dalla memoria di Rubino Romeo Salmonì e rimarrà nella storia degli anni e dei secoli a venire a testimoniare l’orrore che gli uomini hanno saputo provocare su altri uomini ma che non ha saputo vincere sulla capacità degli uomini di vivere nonostante tutto. E’ questo l’assunto del film (come pure quello del libro di Salmonì) che si svela fin dal titolo, che è mutuato da una frase di Trosky che sta aspettando i killer di Stalin e che, vedendo la moglie in giardino che sta curando le rose, scrive: “nonostante tutto, la vita è bella”.

La vita è bella ha dato a Roberto le più grandi soddisfazioni ma sembra lo abbia condannato ad un confronto con un’opera impareggiabile.

E soprattutto sembra che La vita è bella lo abbia come paralizzato, quasi trasformato ad un ruolo di attore (come nel Geppetto del Pinocchio di Garrone) e ad un ruolo di grande sapiente che ci racconta la grande letteratura.

Il Destino di tutti i grandi comici che, di solito, da vecchi non fanno più ridere. Fa eccezione Totò che, a me personalmente ma non solo, fa ridere più da vecchio.


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