MASSIMO TROISI

LA NATURALEZZA DELL’ESSERE SINCERO

Mi chiedo spesso come si faccia ad esser sinceri nelle nostre professioni artistiche che, per vezzo o vizio, sono portate alla sovrastruttura, all’innamoramento facile, alla pretesa di credere che quello che piaccia a noi piaccia anche alla gente.

Ho visto un film documentario che fa riflettere su quello stato di grazia che è la schiettezza espressiva, la buona fede artistica, la naturale eleganza della trasparenza emotiva.

Mario Martone nel film documentario “Laggiù qualcuno mi ama” definisce il cinema di Massimo Troisi ora acceso, ora stanco, pieno di densi significati e vuoti.

L’arte di Troisi commuove per questa qualità sfuggente, per sincerità, per colto candore.

Massimo è nato senza scuola, o meglio è stato allievo della migliore ed unica accademia possibile: quella di un repertorio frammentario e composito fatto di ringhiere sotto le quali sventolavano bandiere rosse e s’accendevano partite di pallone, dove oratori e teatri off erano luoghi vicini tra le case popolari.

Da questo miscuglio di sentimenti e pensieri l’entrata in scena di Troisi nel film è inaspettata, come quella di Pulcinella, in cui la totale libertà di battute, riflessioni, malinconie e poesia diventano un pensiero politico ed esistenziale.

Troisi entra in scena correndo, come si corre nei film della nouvelle vague. Lui, giovane, incurante della critica altezzosa, si presenta così com’è, con la voce franta, incrinata dalle timidezze, dal dubbio e dallo spleen.

Carmelo Bene diceva di non esser stato pagato per avere rapporti con i critici e che al contrario loro erano pagati per avere rapporti con lui. Amo questa espressione!

Massimo Troisi, per ragioni diverse, ricorda questo ribaltamento di logica. Lui ha portato in scena sempre lo stesso personaggio intento a fare un lungo ed ininterrotto discorso sull’amore. In ogni film si domanda come sia possibile raggiungerlo, tenerlo stretto a sé, inseguirlo e conoscerlo senza farlo sfuggire come non si vuol far sfuggire la nostra vita.

I suoi film sono scritti con Anna Pavignano, ragazza torinese conosciuta ed innamorata tra femminismo e politica quando i due artisti erano ragazzi. Dopo maschi attori come Sordi, Tognazzi e Gassman entra in scena Troisi Massimo, la grande novità di un primo attore che è bello ma come solo un uomo fragile sa esserlo, che si innamora ed insegue donne reali e forti, emancipate, fiere.

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di solidarietà per “quel ragazzo che doveva operarsi al cuore a New York…” Sono commoventi le sue frasi nette, scritte con la biro sulle pagine di agende degli anni ’70, quelle che raccontano in piccoli lampi le trasfusioni, il dentro ed il fuori, il cuore che ha un chiodo e che vuole tornare nuovo.

Come nota Goffredo Fofi, con quel cuore un po’ speciale Massimo arriva in scena, a dare una svolta ai grandi con forme di teatro quasi adolescente, fanciullesco, difendendosi da solo in tribunale dall’accusa di vilipendio alla religione. Arriva con il disincanto di chi sfiducia il proprio ruolo attoriale perché ripone fiducia solo nella propria poetica rinunciando anche al Festival di Sanremo perché non ha consegnato il testo del proprio intervento.

Massimo arriva dallo stesso tessuto sociale in cui creano spettacoli nuovi, pur in forme diverse, poeti come Enzo Moscato ed Annibale Rucello, in cui Antonio Neirviller sperimenta l’avanguardia da nomade, avventuroso e faticoso artista.

Trosi non racconta però la sconfitta ma la delicatezza. Lui comincia il suo miracolo con riguardo, da quelle pochissime, solo tre cose gli sono riuscite nella vita perché non vuole perdere pure quelle…

incontro alla vita”. L’audio è di una seduta psicanalitica tra amiche e ce lo fa immaginare mentre si racconta toccandosi il sopracciglio, sempre un po’ a disagio. La sua gestualità è stata un codice linguistico ed espressivo racchiusa in una carrellata di gesti che lo definiscono.

Massimo che riteneva di essere uno al di sotto delle proprie possibilità; Massimo che – come amico del cuore – si capiva e s’amava con Pino Daniele; Massimo che, pur con talento e comicità quasi opposte, si unisce al Benigni ancora nevrile, ipereccitabile e contadino in “Non ci resta che piangere”.

Troisi non è stato sempre compreso dalla critica. Ha rifuggito la napoletanità facile e rumorosa, e come ha notato Ettore Scola, da talento sovranazionale, non ha portato addosso mai l’allegria partenopea. Ha indossato un abito di scena lunare proprio di chi crede che gli altri, tutti, siano più intelligenti e colti e sciolti di lui.

C’è una scena in cui Mastroianni e Troisi, in “Che ora è” di Scola, film girato allo scadere degli anni ’80, camminano con scarpe nuove di zecca donate da un padre ad un figlio troppo diverso da lui. C’è un dettaglio in quelle calzature. È il laccio slacciato di Massimo. Un dettaglio straordinario che ricorda come il restare sé stessi sempre sia l’unica possibile forma di dialogo con il mondo. La più sincera.

Il particolare più insignificante che rende indispensabile la naturalezza dell’essere sincero.

Nell’ultima scena girata da Troisi come regista, Francesca Neri si allontana in abito da sposa dalla festa prima di entrare in un bar. Nelle ultime sequenze, Massimo e Francesca fissano le nozze. Lui non trova il coraggio di presentarsi in chiesa e la lascia in abito da sposa sull’altare. Le fa avere un biglietto con cui le dà un appuntamento. Francesca-Cecilia attraversa la città vestita da sposa ed entra in un bar sotto lo sguardo dei presenti. Massimo è seduto ad un tavolino. Stai bene vestita da sposa balbetta lui… prima di chiederle cosa farà stasera… lo fa con la sua pigrizia memorabile.

Un finale che lascia la sua poesia a tutti noi spettatori che di poesia ne abbiamo estremo bisogno, proprio come farà il Postino, l’uomo che, prima di partire, ci ha consegnato una lettera in cui rivela un segreto: “la poesia non è di chi la scrive, è di chi gli serve…” A tutti noi, oggi, Massimo ricorda questo mistero necessario: la naturalezza dell’essere sincero.


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