di Luigi Troiani
Coerentemente con le enunciazioni dell’immediato dopoguerra, Washington – negli anni ’50 del Novecento – sostenne lo sforzo di alcuni stati dell’Europa occidentale verso più intensi livelli di cooperazione regionale, anche contrastando resistenze nazionaliste che nella vita politica europea venivano a fasi alterne manifestandosi. La questione coinvolgeva, in particolare, la Francia e due suoi significativi schieramenti politici: i comunisti all’estrema sinistra, e i gollisti alla destra moderata.
La virulenza di quelle posizioni francesi si era manifestata in occasione dell’utilizzo dei fondi messi a disposizione da Erp, il Piano di ripresa europea detto anche piano Marshall. Se ne sarebbe avuta maggiore evidenza nella prima metà dei ’50, con il rifiuto di Ced, la Comunità Europea di Difesa fortemente voluta da Jean Monnet, i cui trattati istitutivi non sarebbero mai entrati in vigore per la rinuncia del parlamento transalpino a votarne l’approvazione.
Il trattato istitutivo della Comunità Europea di Difesa era stato firmato a Parigi il 26 maggio 1952. Il 30 agosto 1954, l’Assemblée francese metteva il voto di ratifica fuori dall’agenda parlamentare.
Lo statunitense Herald Tribune rilevò, il giorno dopo: «Come previsto, la coalizione di estremisti, inclusi comunisti e degaullisti, si è confermata troppo forte per i moderati che formavano il nucleo dell’appoggio alla Ced.» Il quotidiano aveva scritto, il 2 luglio, delle forti pressioni esercitate sulla Francia dal cancelliere democristiano tedesco:
«Il cancelliere Konrad Adenauer, con le più forti parole mai pubblicamente indirizzate alla Francia, ha chiesto oggi che l’Assemblea nazionale francese ratifichi il trattato sull’esercito europeo nella sua attuale forma e ha avvertito che il collasso del piano Ced condurrebbe alla rinascita del militarismo tedesco.»
Due anni dopo, la crisi di Suez avrebbe segnato il definitivo tramonto dell’Europa come potenza in rinascita, causa l’incapacità a trovare l’intesa per costituirsi in soggetto politico rilevante.
Il 26 luglio 1956 il presidente egiziano Gamal Abdel-Nasser nazionalizza il canale di Suez. La diplomazia britannica (è britannico l’azionista di maggioranza di Suez Canal Co) chiede agli alleati il boicottaggio economico dell’Egitto. Francia e membri del Commonwealth aderiscono, ma non gli Stati Uniti. Londra pretendeva da Washington la sospensione degli aiuti economici all’Egitto e la revisione della politica commerciale che impediva al surplus di cotone americano di scendere in concorrenza con quello egiziano.
Il 29 ottobre gli israeliani, che si sentono minacciati dal blocco degli stretti di Tiran, in accordo con Regno Unito e Francia attaccano dal Sinai l’Egitto di Nasser. Due giorni dopo Francia e Regno Unito, con il lancio di paracadutisti, avviano l’operazione congiunta su Port-Said e Port-Fouad, all’ingresso mediterraneo del canale, al fine di prenderne possesso. In cento ore le truppe israeliane (che hanno concordato l’attacco con l’Inghilterra) sono sulle sponde del canale di Suez.
Stati Uniti e Urss di comune accordo operano per il cessate il fuoco, che Washington, con evidenza, impone a Francia e Gran Bretagna. Sul terreno, le Nazioni Unite utilizzano per la prima volta i caschi blu, “inventati” dal primo ministro canadese Lester B. Pearson che, per questo, riceverà nel 1957 il premio Nobel per la pace. Esaurita la crisi, la Gran Bretagna si ritira dal Mediterraneo, da allora pattugliato dalla VI flotta statunitense.
Francia e Gran Bretagna dismetteranno le pretese di neocolonialismo e si allineeranno – più il Regno Unito che la Francia – sulle disposizioni di Washington per la risoluzione della crisi. L’abbandono britannico del Mediterraneo e l’affidamento alla VI flotta del pattugliamento di sicurezza del mare, possono essere visti come il passaggio di consegne tra vecchia e nuova potenza globale, ma quel che conta è che britannici e francesi non riusciranno più a costituirsi neppure in potenze regionali. In concomitanza, gli Stati Uniti andranno progressivamente ad una politica estera che privilegia gli aspetti sistemici, eliminando dalle priorità le questioni a carattere locale. Si creano pertanto – tipico il caso dei paesi del nord Africa e del Mediterraneo – sacche di disordine effettivo o potenziale che le potenze europee non saranno più in grado di contribuire a regolare, e che gli Stati Uniti non saranno interessati a regolare oltre un certo limite.
Gli effetti della decolonizzazione degli anni ’60 accentueranno ulteriormente la divaricazione degli interessi strategici europei e americani, rendendo strutturale il distacco delle declinanti potenze europee non tanto dalle responsabilità quanto dalla capacità obiettiva di corrispondervi. Nel frattempo, nonostante taluni rigurgiti di nazionalismo come l’uscita francese dalle strutture militari della Nato nel 1966 per la precisa volontà del presidente de Gaulle di marcare la distanza rispetto alla linea statunitense nell’alleanza, il rapporto atlantico andrà a consolidarsi ulteriormente, di fronte ai ripetuti attentati sovietici alle libertà dei paesi europei alleati, con la leadership statunitense, nell’alleanza multilaterale, sempre più evidente.
Le aggressioni sovietiche in Europa, nel migliore stile della tradizione dello zarismo grande russo, marcheranno ogni decennio di quel dopoguerra. Nella Germania Orientale nel giugno 1953, a Berlino, Lipsia, Merseburgo, Rostock, Halle, Dresda, Jena, Bitterfeld, per sedare scioperi e manifestazioni. In Ungheria, nel novembre 1956 e in Cecoslovacchia nell’agosto 1968, contro le cosiddette vie nazionali al socialismo. In Polonia, nel dicembre 1970, nelle città del litorale baltico, in appoggio alle azioni armate delle autorità locali contro gli operai che manifestano per l’aumento dei prezzi del cibo. In Polonia nel dicembre 1981, con stato d’assedio e corte marziale contro gli operai di Solidarnośc in sciopero.
Mentre prosegue l’evoluzione statunitense verso il ruolo di potenza globale, l’Europa ripiega su se stessa e su qualche interesse regionale, legato soprattutto alle evoluzioni delle ex colonie e ai bisogni di energia e materie prime per le sue industrie.
Le istituzioni delle Comunità europee, nel frattempo arrivate a tre con la nascita, nel 1957, della Comunità Economica e di quella per l’Energia Atomica, fanno avanzare il progetto di integrazione interstatuale regionale, allargandosi ai paesi europei che manifestano la volontà di accettare l’acquis comunitario e aderire, associando al tempo stesso paesi mediterranei che rispondano a determinate condizioni.
I singoli paesi europei dell’est e dell’ovest recitano il loro spartito nel confronto simmetrico strutturato dal bipolarismo: Nato e Patto di Varsavia, Cee e Comecon, area del dollaro e area del rublo, socialismo realizzato e società liberale. Giocano dall’interno dei rispettivi blocchi e in quanto blocco, dentro le maglie delle alleanze euro-statunitense ed euro-sovietica.
Nel contempo Stati Uniti e Urss allargano la rispettiva sfera di influenza in Africa, Asia e America Latina, nelle zone lasciate libere dal ripiegamento europeo post coloniale.
Con gli anni ’70 iniziano a cambiare diverse cose.
La presidenza Nixon, anche per l’influenza specifica del segretario di stato Henry Kissinger, tirando importanti lezioni dalla vicenda vietnamita e dal bisogno strategico di regolare con Mosca le questioni della sicurezza nucleare, tende a misconoscere la rilevanza dell’Europa come soggetto autonomo di politica internazionale.
Vi è profondo scetticismo sui processi di integrazione in corso nel vecchio continente, Celebre la frase di Kissinger, da segretario di stato, in risposta a chi gli chiedeva dell’Europa: “L’Europa? Quale sarebbe il suo numero di telefono?”. C. Fred Bergsten avrebbe scritto in Foreign Affairs nel marzo 1999 (America and Europe: Clash of Titans):
«Parafrasando Henry Kissinger, gli Stati Uniti ancora non sanno chi chiamare in Europa quando mordono nuove crisi. Il fallimento dell’Europa ad affrontare in modo efficace i problemi esteri nel suo stesso cortile, in particolare in Bosnia e adesso in Kosovo, ha stimolato mancanza di rispetto e anche il ridicolo riguardo alla prospettiva di un reale partenariato.»
Vi è anche la consapevolezza che la politica estera statunitense, oltre al confronto con l’Urss, è concentrata sulla nuova sfida nel Pacifico, che inizia a coinvolgere anche lo sviluppo statunitense in stati come California, Texas, Washington, e accordi con le emergenti potenze asiatiche.
Nel complesso, inizia a sfuggire a buona parte del gruppo dirigente statunitense ciò che sta accadendo in Europa: il formarsi di una nuova élite con ambizioni in campo non più solo economico ma politico. È un processo che coinvolge anche la Repubblica Federale Tedesca, che muove i primi timidi passi verso la ripresa di ruolo politico internazionale.
In Europa e negli Usa, verso la fine degli anni ’70 iniziano ad emergere ceti dirigenti e leader politici che non hanno condiviso direttamente le vicende dell’alleanza antinazista e antifascista, né hanno coscienza diretta del legame transatlantico che ha ispirato le generazioni politiche precedenti.
Non potrà esserci un nuovo John Kennedy che nel 1963, di fronte al muro non solo si dichiara berlinese, ovvero europeo, ma riconosce all’Europa la primazia dei cosiddetti “valori americani”.
Ricordiamolo quel significativo episodio. Dopo che nell’agosto 1961 Berlino è stata sfregiata dal Mauer, e successivamente dai pattugliamenti dei micidiali Vopos, dediti ad impedire ai berlinesi dell’est di passare dall’altra parte, l’ex capitale è divisa in due. Il 26 giugno Kennedy parla alla folla adorante dal balcone della Rudolph Wilde Platz, mettendo in onda una delle pagine più intense della sua breve presidenza. Non è tanto il martellante filo conduttore “Ich bin ein Berliner”. Il refrain sarebbe risuonato sulla bocca di molti leader nei decenni successivi. La sua è retorica insieme istintiva e colta: l’“orazione” per la libertà contro il comunismo si ancora alla classicità, al pensiero romano (a sua volta greco-romano) che aveva generato l’impero repubblicano dove il potere di controllo e indirizzo restava nelle mani del senato custode della legge, consapevole delle lezioni di Bruto e Catone.
«Duemila anni fa il più grande orgoglio era dire civis Romanus sum (sono cittadino romano). Oggi… il più grande orgoglio è dire Ich bin ein Berliner. La libertà è indivisibile e quando un solo uomo è reso schiavo, nessuno è libero. Ogni uomo libero, ovunque viva, è cittadino di Berlino. E dunque, come uomo libero, sono orgoglioso di dire Ich bin ein Berliner.»
Negli Usa, la nuova leva politica che sale dagli stati del sud e dell’ovest difetta, diversamente dalla precedente del New England e dell’est atlantico, della frequentazione “spirituale” dell’Europa e inizia a non comprenderne le originalità nel sociale e nell’economico, che vengono anzi lette come “perversioni” della politica.
Fenomeni come la dottrina sociale della chiesa che transita nei governi e nei parlamenti attraverso i partiti Democratico cristiani e Popolari o i sindacati di ispirazione cristiana, il riformismo socialista che si esprime attraverso sindacati e partiti ispirati alla socialdemocrazia e al socialismo democratico, sono estranei agli Stati Uniti. Scuole di pensiero di forte rilevanza che generano, per dare qualche esempio, il modello renano di economia che rimette in piedi la Germania del dopoguerra, nel Regno Unito la grande riforma laburista e il welfare state ispirato da Beveridge, in Italia le riforme del centro-sinistra che assistono il boom economico, sono irripetibili nel tessuto socio-economico statunitense.
In Europa la caduta dei regimi autoritari nel sud, i successivi ampliamenti della Comunità, la creazione del mercato singolo interno, danno il via alla stagione feconda del progresso economico-sociale sotto tutela comunitaria degli anni ’80 e ’90, e mettono le istituzioni e i paesi membri nella felice prospettiva, anche politica, dell’Unione economica e monetaria. La fortunata stagione europea viene pilotata dalla sintonia con la quale due leader, profondamente diversi per cultura politica e formazione, convergono sul destino europeo. Il presidente francese, il socialista François Mitterrand (presidente dal maggio 1981 al maggio 1995) e il cancelliere tedesco, il democristiano Helmut Kohl (cancelliere dall’ottobre 1982 al settembre 1998), insieme al presidente della Commissione Europea, il cattolico e socialista Jacques Delors (presidente dal gennaio 1985 al gennaio 1995), regalano agli europei una feconda irripetibile stagione di creatività istituzionale, e visione verso il futuro.
Negli Stati Uniti si apre un dibattito, anche aspro, sulla convenienza americana a questi progressi nel vecchio continente. Taluni temono che l’Unione possa trasformarsi in concorrente troppo forte, in termini commerciali e politici, all’interno del campo occidentale.
Nel G7, nell’Ocse, al Fondo Monetario Internazionale, europei e statunitensi sono alleati che dialogano, ma sempre più spesso tra le due parti si aprono conflittualità commerciali e baruffe monetarie che comprovano come, a parte il fronte comune verso la potenza sovietica dove la leadership strategica statunitense è indiscussa, si manifestino divergenze di interessi economico-commerciali e visioni di politica interna e internazionale sempre meno coincidenti.
Nel decennio successivo, nel citato saggio del 1999, C. Fred Bergsten, arriverà a conclusioni piuttosto definitive.
«Le relazioni economiche tra America ed Europa stanno avvicinandosi alla paralisi, proprio quando una scoraggiante agenda politica e l’avvento del pieno bipolarismo richiederebbe nuove iniziative di cooperazione. […] L’Europa può comprensibilmente ritenere che gli Stati Uniti siano rivolti verso l’interno, così come gli Americani possono rivolgere la stessa critica agli europei. Gli Stati Uniti soffrono di schizofrenia sul fronte internazionale. Da un lato pretendono che l’Europa affermi una responsabilità internazionale maggiore e “condivida il peso della leadership”, dall’altro la loro scoperta preferenza è cercare di mantenere il dominio americano, anche mentre chiedono agli altri di pagare la fattura, sfruttando le diversità nazionali dentro l’Europa ogni volta che si renda possibile.»
(da La diplomazia dell’arroganza, L’Ornitorinco ed.)












