LAVORO, ALLARME GRANDI DIMISSIONI VOLONTARIE DI GIOVANI NOMADI GLOBALI

La fuga post pandemica dal posto di lavoro rappresenta la vera sfida per le aziende che vogliono cambiare ed attrezzarsi in tempo utile per attrarre talenti e trattenere i propri dipendenti.

SALVO CARBONARO

Calo demografico

Negli ultimi 5 anni la popolazione italiana in età di lavoro (16-64 anni) è diminuita di 753 mila unità a causa del patologico declino demografico tanto da portare negli ultimi 25 anni la media d’età da 38 a 44 anni.

Di conseguenza anche gli occupati sotto i 35 anni sono diminuiti di oltre 3,5 milioni e gli over 45 sono aumentati di 4,2 milioni con gravi e prevedibili conseguenze sul mantenimento dell’attuale delicato livello di welfare sociale come sanità, previdenza ed assistenza non proprio in buona salute!

Formazione disallineata

Il calo delle nascite, l’invecchiamento della popolazione e la mancata corrispondenza tra titoli di studio, formazione e competenze richieste dal mondo del lavoro contemporaneo sono diventati forti elementi di disvalore della competitività di alcuni nostri settori industriali nei confronti delle imprese dei paesi tecnologicamente più avanzati stante che da tempo non riescono a coprire le posizioni vacanti di personale qualificato mancando, ad oggi, 800 mila potenziali occupabili su 2 mln di richieste con preoccupante rischio per la continuità del business per tante aziende.

Ciò significa che si continua a sprecare risorse del Paese investite in istruzione e formazione non collegate ad attività di placement ed alle richieste del mercato anche per la scarsa comunicazione e programmazione di recruiting tra mondo del lavoro, università ed agenzie del lavoro, senza valutare gli investimenti per formazione universitaria persi per quel 30% circa di laureati, la cosiddetta “lost generation” che lascia il nostro Paese per l’estero.

Great resignation (grandi dimissioni volontarie)

Ora, a complicare tali condizioni di disagio per le imprese che vogliono assumere si sta aggiungendo il cosiddetto recente fenomeno, post pandemico, delle cosiddette grandi dimissioni volontarie o abbandono del posto di lavoro caratterizzato dal progressivo aumento del numero delle persone che lasciano volontariamente il posto di lavoro o per cambiarlo (1,6 mln circa nell’ultimo anno di cui buona parte dovuta alla scadenza dei contratti a tempo determinato) o per altri svariati motivi e talvolta senza avere un piano B alternativo.

Un vero e proprio inedito paradosso che sta modificando il classico concetto del lavoro sacrale di un tempo per la compresenza di nuovi valori generati sicuramente dalla forte spinta tecnologica e digitale come, per esempio, tempi di prestazione, luoghi, flessibilità, welfare e trasparente valorizzazione del merito e delle competenze.

I nuovi mantra del lavoro futuro

La pandemia ha fatto emergere, quindi, una nuova coscienza culturale del lavoro che reclama una forte attenzione ai temi di responsabilità sociale delle imprese, un nuovo modo di produrre e una gestione sostenibile delle aspettative del personale oltre che delle esigenze dei clienti e stakeholders.

Temi, questi, rispetto ai quali anche le parti istitutive di rappresentanza categoriale dei lavoratori si sono fatti trovare distratti o impreparati nel riconoscerne l’urgenza e a farsene carico per nome e conto delle quattro diverse generazioni per età e formazione di occupati ormai pienamente consapevoli del ruolo del lavoro futuro quale strumento principe di autorealizzazione e di benessere maggiormente in equilibrio con le esigenze di vita privata e benessere personale.

Altri elementi non secondari in discussione sono la flessibilità degli orari di lavoro, la settimana corta a parità di retribuzione, la contrattualizzazione del lavoro in remoto grazie alle nuove tecnologie digitale, le tutele della genitorialità, il maggiore sostegno alle politiche di welfare e politiche attive del lavoro, della formazione continua oltre che un maggiore ascolto da parte delle aziende.

Più generazioni sul posto di lavoro

Eccoli che sono arrivati con la pandemia i nuovi smartworkers portando un’ondata di nuovi paradigma nella sfera occupazionale come l’utilizzo del lavoro in remoto da soluzione emergenziale a strumento permanente di valorizzazione del tempo che favorisce una migliore articolazione e conciliazione vita-lavoro, la partecipazione femminile al lavoro e minore segregazione professionale nel posto di lavoro facendo attenzione a non declassificarlo a semplice strumento di welfare aziendale perdendo la valenza contrattuale di vero e proprio nuovo modello organizzativo del lavoro.

I fautori dell’attuale spinta al cambiamento verso forme di managerialità più fluide e modelli di lavoro improntate sulla misurazione dei risultati e meno sulla presenza fisica dei collaboratori sono in particolare i millennials e la generazione Z, cresciute a pane, PC ed internet

I millennials hanno ereditato una condizione di lavoro instabile e precario tale per cui non ritenendo di dover svolgere lavori sottopagati si sono messi alla ricerca di condizioni di lavoro più appaganti in Italia o all’estero mentre altri ancora tentano la libera professione.

La generazione Z dei nati attorno al 2.000, non aspettandosi nulla o poco dal mondo del lavoro ed all’insegna della filosofia YOLO (you only live once-si vive solo una volta) che assegna alla sfera privata lo stesso valore di quella lavorativa, inteso come progetto di vita e non solo di guadagno, o si licenziano o rimangono al lavoro senza eccessivo entusiasmo e coinvolgimento ( fenomeno quit quitting) mentre per i più tenaci che non mollano è presto valutare quale sarà il loro impatto sul mondo del lavoro futuro.

Per il mondo imprenditoriale si tratta quindi di prenderne atto e di iniziare a rivedere l’attuale modello dell’organizzazione del lavoro predisponendo iniziative efficaci e durature per migliorare la employability aziendale adattandola di più ai bisogni ed alle attese di ben quattro diverse generazioni di capitale umano, ossia di nuove leve di occupati o occupabili che non intendono farsi ingabbiare nel posto di lavoro così come i loro nonni e genitori.

In particolare, le generazioni in questione hanno valori, saperi, ambizione ed interessi diversi e, cosa importante, sono portatori di una nuova cultura del rischio non più connessa alla paura della perdita del posto di lavoro specie se come impegno professionale viene ritenuto eccessivo rispetto ad un equilibrio casa-lavoro e ad una soddisfacente qualità della vita privata.

Superare l’attuale modello del lavoro

Sul fronte, invece, degli occupati o di coloro in cerca del lavoro sarà utile sensibilizzarli, laddove necessario, sulla necessità di avere un maggior senso del sacrificio e capacità di attesa specie quando si percepisce che la propria formazione, risultando non attuale, richiede processi di reskilling ed upskilling per aumentare le proprie competenze, la propria occupabilità ed avere effettivi miglioramenti ed avanzamenti di carriera in un quadro di ragionevole realizzabilità del proprio progetto professionale e di vita..

Baby boomer, Generazione X, Millennials e Generazione Z tutti insieme in piena crisi pandemica, per uscire dalla perdurante staticità del turnover del mercato del lavoro italiano che per decenni ha, purtroppo, generato condizione occulte di disciplinamento verso retribuzioni sempre più basse e di precarizzazione delle regole d’ingaggio dei lavoratori se è vero, come è vero, che i salari medi in Italia sono più bassi del 30% rispetto a quelli dei paesi europei più industrializzati per non parlare del mercato USA.

Ciò ha creato una finta e pericolosa competitività del nostro sistema produttivo poggiata, purtroppo, su bassi salari anziché su innovazione, tecnologia e benessere aziendale e dalla quale occorre uscirne quanto prima rilanciando armoniche relazioni industriali in una logica di win-win con tutti i soggetti e gli attori che a vario titolo fanno parte e possono incidere sul sistema produttivo del nostro Paese e sull’evoluzione dell’attuale normativa dei contratti di lavoro delle varie categoria di lavoratori.

Conclusioni

Per arrivare a soluzioni di miglioramento delle attuali condizioni di lavoro, specie per le categorie più precarie, occorre comprendere le ragioni del disincanto giovanile per dare efficaci risposte in termini di riprogettazione del modello di lavoro attuale laddove, in particolare, la vita lavorativa del dipendente risulterebbe scandita quotidianamente da ripetitivi e stancanti trasferimenti casa-lavoro con la conseguente nevrosi di dover vivere la “velocizzazione del tempo” che obbliga a considerare la produttività e la competitività come unici generatori simbolici di tutti i valori dell’esistenza e ciò in contrasto con la filosofia emergente di sostenibilità sociale delle imprese che postula anche una migliore qualità della vita ed un maggiore equilibrio con la natura ed il territorio.

Diversamente il protrarsi di questa nuova forma di protesta, originata per la prima volta in termini così massivi da scelte e responsabilità individuali di dimissioni volontarie, potrebbe evolvere in malessere socio-economico emergenziale e disobbedienza collettiva di più complicata risoluzione in termini di rischio sociale, competitivo e di costi per il clima di silenziosa conflittualità che imporrebbe alle aziende di retribuire dipendenti insoddisfatti ed in crisi d’identità.

Ottimisticamente occorre confidare in una positiva e duratura risoluzione delle criticità che il mondo del lavoro sta vivendo e nel fatto che tante aziende italiane ed estere già stanno sperimentando nuovi processi di HR alternativi per valorizzare il merito, le competenze, i sistemi di premialità e la flessibilità organizzativa passando dalla cultura manageriale ancora, purtroppo, operante del controllo in presenza dei propri collaboratori a quella della fiducia in remoto misurata in base ai risultati ed alle performance aziendali.


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