
PAOLO NENCINI
Unitelma Sapienza. Università degli Studi di Roma
La tornata elettorale presidenziale che si è tenuta il 2 giugno in Messico ha suscitato un notevole interesse e non solo per il fatto che per la prima volta i competitori con più probabilità di successo erano due donne; a suscitare interesse infatti vi sono stati anche i programmi che le due candidate proponevano su una serie di questioni con forti implicazioni internazionali. Tra questi vi è quello della sicurezza incentrato sul traffico di stupefacenti causa di un alto grado di violenza e di instabilità sociale e politica, ma gravido anche di problemi di difficile soluzione per le relazioni internazionali del paese. In campagna elettorale la Presidenta appena eletta Claudia Sheinbaum ha dichiarato di volere proseguire la politica conciliante del suo predecessore López Obrador riassunta nello slogan “abrazos, no balazos” (abbracci, non proiettili).
Per tentare di comprendere quale siano le reali possibilità della Presidenta di ridurre il devastante impatto del traffico di stupefacenti sulla società messicana è sicuramente utile la lettura di The Dope. The Real History of the Mexican Drug Trade (W.W. Norton & Company, 2021) per la penna assai efficace dello storico Benjamin T. Smith, che ricostruisce lo sviluppo e le attuali caratteristiche del traffico di stupefacenti tra il Messico e il suo ingombrante vicino al di là del Rio Bravo, gli Stati Uniti d’America, ad un tempo insaziabile consumatore voluttuario di ogni tipo di sostanza psicotropa e intransigente proibizionista.
Il lettore viene condotto con grande maestria attraverso un intrico di avvenimenti che hanno inizio nei primi due decenni del Novecento quando le piccole città di confine, Tijuana, Mexicali, Ciudad Juàrez, diventano le città del vizio dove gli americani possono ottenere liberamente ciò che in patria è assai rischioso cercare, a partire dagli alcolici: “The U.S.A’s puritanical laws only succeeded in pushing the vice industry few miles south.” (p.65). Oltre agli alcolici a disposizione del consumatore americano c’era anche la marijuana, che per i messicani altro non era che uno degli innumerevoli ingredienti di una elaborata farmacopea popolare, e l’oppio la cui produzione e consumo erano circoscritti alla comunità cinese che li aveva introdotti negli ultimi decenni del secolo precedente. Comincia così una complicata interazione tra i due governi, con quello americano inflessibilmente determinato a piegare la controparte messicana ad una politica di eradicazione del traffico di stupefacenti esercitando una sempre più intrusiva ingerenza negli affari interni del paese. Ne fu un esempio emblematico la sorte del tentativo del governo messicano di fronteggiare il problema della dipendenza da oppio e derivati che stava prendendo piede negli anni trenta con una iniziativa precorritrice dell’attuale politica di riduzione del danno. Su proposta di un medico assai in anticipo sui tempi (Leopoldo Salazar Viniegra), vennero aperti ambulatori dove i soggetti dipendenti da oppiacei potevano ricevere gratuitamente iniezioni di morfina: “Such a program reduced the amount of addicts had to pay for narcotics, allowed them to hold down regular jobs, and lessened the attraction of crime.”, scrive Smith (p.104). Sostenuto coraggiosamente dal rappresentante messicano presso la Società delle Nazioni, questo programma incontrò la preconcetta ostilità dell’onnipotente capo dell’antinarcotici americana Henry Anslinger, “a shrewd bureaucrat and a master propagandist” con “passing interest in the actual facts” (p.108). Poiché il fabbisogno messicano di morfina era coperto principalmente dagli Stati Uniti che esportavano il narcotico solo per “legittimi usi medici”, per Anslinger, che era l’unico a decidere, fu gioco facile stabilire che il trattamento dei dipendenti da oppiacei non era un uso legittimo. Di fronte al pericolo di un embargo che avrebbe privato gli ospedali di un farmaco così indispensabile, il governo messicano non ebbe altra scelta che abbandonare il programma.
Da allora gli Stati Uniti hanno dettato l’agenda della politica antidroga messicana, senza tuttavia cavarne il classico ragno dal buco se si considera che già nel 1947 le piantagioni nell’area montuosa della Sierra Madre Occidentale assicuravano il 90% del mercato americano di droghe illegali dando origine ad una vera e propria industria che nei successivi ottant’anni avrebbe fornito eroina, marijuana e cocaina a seconda delle richieste del mercato (p. 115-116). Se ciò era un problema per gli Stati Uniti, lo era molto di meno per il Messico. Si ritiene infatti che nell’immediato dopoguerra il contrabbando di stupefacenti rappresentasse il 15% dell’esportazioni messicane, fornendo entrate in valuta che un funzionario dell’ambasciata americana riconosceva come indispensabili per la stabilità finanziaria del paese (p.154). Inoltre un ingegnoso meccanismo di tassazione “alternativa” a livello statale permetteva di indirizzare parte dei profitti verso investimenti sociali. Esso consisteva nel garantire a determinati narcotrafficanti un certo grado di protezione dall’intervento federale in cambio di elargizioni che non andavano (o non andavano solo) a beneficio di politici e funzionari locali, ma erano (anche) utilizzati per opere pubbliche. A titolo di esempio, Smith mostra quanto avvenuto nello stato di Sinaloa che da un deficit statale di 11 milioni di pesos nel 1944 era passato ad un attivo di 1.3 milioni nel 1947, pur avendo portato a termine la costruzione di numerose opere pubbliche, facendo confessare ad un funzionario: “Do you think that all those new buildings were built with tomatoes? No, my friend, they are made of pure opium.” (p.147). Comprensibilmente, era un sistema vulnerabile ad ogni sorta di abusi e infatti lo stesso stato di Sinaloa fu testimone, o meglio dire vittima, dell’inevitabile evoluzione di un tale sistema verso la partecipazione diretta delle autorità politiche e di polizia alla gestione del traffico dando forma e sostanza al racket della protezione. Un racket che negli anni sessanta, narra Smith, organizzava ma anche disciplinava il traffico di droga imponendo ai trafficanti di risolvere le loro dispute al di fuori dello stato con la conseguente riduzione della violenza, nel mentre una certa quota dei profitti continuava a finanziare interventi sociali e opere pubbliche. Una situazione dove anche i poliziotti si arricchivano e che non poteva che espandersi oltre il confine con gli Stati Uniti, cosa che non deve sorprendere perché “The incorruptible US law enforcement officer was a powerful myth”, ma era pur sempre un mito (pp. 251-256).
È a fronte di questo stato di cose certamente insoddisfacente per gli americani che agli inizi degli anni settanta Nixon dichiarò la guerra alla droga il cui obiettivo primario fu il traffico transfrontaliero di stupefacenti come dimostrato dal fatto che al Messico andò metà dell’intero budget americano per la lotta alla droga condotta fuori dai confini nazionali. Non solo denaro ma anche uomini sul campo, con gli agenti della Drug Enforcement Agency americana che andarono ad affiancare la polizia federale messicana (Federal Judicial Police: FJP) chiamata a sostituire quella statale, ritenuta non più affidabile, nel contrasto al traffico. Il risultato fu che il racket della protezione passò nelle mani della polizia federale, mentre il flusso di stupefacenti verso nord continuava: “Between 1976 and 1985, the Mexican drug trade effectively became a politically approved, federal-level business.”, scrive Smith (p.287). Vi era tuttavia una netta differenza rispetto alla vecchia gestione locale e statale del contrabbando, basato sulla distribuzione dei profitti e sulla nonviolenza. Ora la violenza era esercitata con inaudita brutalità dalla polizia federale stessa, con la connivenza o la diretta partecipazione degli agenti americani. Smith dedica parecchie pagine a descrivere come la tortura fosse praticata nelle forme più efferate e come l’assassinio indiscriminato fosse esteso anche ai familiari del trafficante inviso. Il programma di eradicazione delle colture di papavero da oppio e di cannabis, ora condotto con l’uso dei diserbanti -la famosa Operazione Condor-, non fu da meno, tanto da essere ribattezzato dagli agenti della DEA “the atrocities”: “The soldiers of Operation Condor shot up villages, ransacked houses, and stolen valuables. They raped women, beat children, and tortured and killed certainly hundreds and possibly thousands of Mexican farmers.” (p.287). Il periodo indicato inizia con la presidenza di José Lopez Portillo, intellettuale e professore universitario, che era, nelle parole dello storico inglese, “preening and arrogant” e “incompetent in his own way” e che portò la corruzione nell’apparato statale a vertici ineguagliati (pp.304-305). Durante la presidenza di Lopez Portillo l’apparato di contrasto al traffico di stupefacenti passò armi e bagagli sotto la direzione operativa di personaggi compromessi che, in quanto originari delle regioni di confine, furono subito chiamati i “barbari del nord”. La descrizione delle “imprese” di queste autentiche volpi a guardia del pollaio lascia stupefatti: capaci di accentrare a livello federale il racket della protezione e di esercitarlo con brutalità, spostarono sempre di più la loro attività dalla produzione locale di stupefacenti alla gestione del trasporto attraverso il Messico della cocaina prodotta in Sud America. Scelta sagace, poiché li sottraeva alla necessità di un controllo sistematico del territorio e al rischio della sorveglianza americana sulle piantagioni, permettendo loro di concentrare le forze dove erano ben presenti: porti, aeroporti e zone di confine (p.318). L’interazione tra trafficanti messicani e produttori dei paesi del Sud America implicava il trasferimento di grosse somme di valuta da un paese all’altro e perciò “Bankers now became as central to the narcotics businness as chemists, agronomists, or lawyers.” (p.338): inutile dirlo, un ruolo cruciale era svolto da quelle americane.
Inevitabilmente anche i servizi segreti federali vollero entrare nell’affare richiedendo la loro parte di torta ai militari, ai membri della PJF, alle forze di polizia statali e a quelle locali. Ciò scatenò sanguinosi conflitti che si estesero a tutto il paese, ma che furono particolarmente cruenti nello stato di Guadalajara (pp.339-341). Una tale frammentazione del racket di protezione tra le varie forze di polizia in conflitto tra loro non poteva che portare al prevalere del potere dei trafficanti: “Increased drug profits and declining state power put the narcos in control. And they -not the cops or the secret service agents- now took over running the country’s drug protection rackets.” (p. 365). I tassati divennero così gli esattori: un radicale rovesciamento di ottant’anni di politica della droga. A questo punto furono i cartelli della droga ad assumere membri delle forze armate o di polizia, con il caso particolare del Cartello del Golfo che reclutò membri delle forze speciali, che divennero i tristemente famosi Zeta.
È importante notare che l’attività dei cartelli non si limitò più al traffico degli stupefacenti, che per altro si rivolse anche al mercato interno fino ad allora tacitamente escluso, ma si estese all’estorsione generalizzata di ogni tipo di attività commerciale, produttiva e professionale, fino a taglieggiare addirittura gli immigrati clandestini che tentavano di entrare negli Stati Uniti. Fu in questa situazione che nel 2006 salì alla presidenza del Messico Felipe Calderon che come missione scelse la guerra alla droga, ovviamente con il sostegno incondizionato degli Stati Uniti, tangibilmente, considerato che l’aiuto ammontò ad un miliardo di dollari in armi e tecnologia, oltre ai soliti uomini della DEA sul campo. Lungi dal porre un freno alla violenza, la incrementò vertiginosamente tenuto conto che anche i cartelli avevano aggiornato il loro equipaggiamento, in ciò facilitati dalla sciagurata, lo si può ben dire, decisione del presidente George W. Bush di togliere il divieto di vendita ai civili delle armi d’assalto semiautomatiche: il risultato fu un fiume di queste armi che traversò la frontiera in senso contrario agli stupefacenti. A titolo d’esempio dell’incremento della violenza, basti citare quanto avvenne in una delle città di confine, Ciudad Juarez: nel 2007 si contarono 272 omicidi, nel 2008 1580, nel 2010 3798, con un tasso di omicidi di 272 per 100.000 abitanti. Si pensi che in Italia tale tasso è di 0,5.
Nel frattempo il traffico di stupefacenti continuava, assecondando le mutevoli esigenze del mercato nord-americano. La crisi finanziaria del 2008 aveva ridotto drasticamente il consumo di cocaina senza recuperare più i massimi degli anni precedenti; analogamente l’allentamento dei vincoli legali sulla cannabis ne aveva ridotto ai minimi termini il contrabbando (con buona dose di ironia Smith nota che “The weed trade […] was one of the first industries to embrace Trump’s call for America First” (p403). In compenso tornò ad aumentare il traffico di eroina, accompagnato ora dal fentanyl, l’oppiaceo sintetico così facile da produrre in laboratori di fortuna inaccessibili alla sorveglianza aerea e satellitare che aveva reso vulnerabili le piantagioni di papavero da oppio.
Fallita tragicamente la guerra alla droga del presidente Calderon, il suo successore Pena Nieto e poi, dopo di lui, Lopez Abrador hanno cercato un approccio più moderato all’insegna dello slogan “abrazos, no balazos” (abbracci, non proiettili), dove la lotta ai cartelli è stata perseguita tentando di disarticolarli con la caccia mirata ai loro capi. I risultati di questa strategia sono stati limitati se non addirittura controproducenti, aumentando la lotta interna ai cartelli e le conseguenti violenze sulla intera popolazione. Inoltre la resilienza dei trafficanti alle iniziative di contrasto condotte con l’uso di sempre più sofisticate tecnologie è stata tale che i prezzi delle droghe al mercato illegale nordamericano non sono sostanzialmente mutati. La conclusione di Smith è amara. “As long as narcotics remain illegal, incentive to produce and smuggle them will outweigh any economic alternatives. A handful of authorities on both sides of the border will always take a bribe. And whether the Americans choose to focus on the air, the Eastern Seaboard, or the desert frontier, traffickers will always find a way through. A century and counting; the Mexican drug trade shows no sign of slowing.” (p.408).
Saprà la Presidenta Claudia Sheinbaum smentire questa pessimistica previsione? Lo scetticismo è d’obbligo tenuto conto che la campagna elettorale che l’ha vista vincitrice è stata funestata da centinaia di omicidi, ma a suo favore giocano il realismo dei suoi obiettivi che consistono nel ridurre il tasso nazionale di omicidi da 23,3 per centomila residenti a 19,4 nel 2027 e il credito di una riduzione del 50% degli omicidi a Città del Messico nel periodo nel quale è stata sindaco. La speranza è che risultati più consolidati nella lotta al traffico di stupefacenti li ottenga dal proposito di continuare la politica sociale di Lopez Abrador che ha sottratto cinque milioni di messicani dallo stato di povertà. Come ha dichiarato lei stessa in una intervista alla BBC, è tempo di costruire su queste realizzazioni: “It means more rights, a welfare state, education, health, access to housing, and that a living wage is a right, not a privilege. That is the difference between neoliberalism and our model, which we call Mexican Humanism.” È questa l’unica guerra alla droga che merita di essere combattuta.
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