LA CADUTA DEL MULTILATERALISMO INDEBOLISCE GLI STATI E LA DEMOCRAZIA

di Luigi Troiani

Scrivono Yascha Mounk e Roberto Stefan Foa in Foreign Affairs nel numero maggio-giugno 2018, significativamente riassunto in copertina con il titolo: Is Democracy Dying? A Global Report.

Un impressionante numero di cittadini ha iniziato ad attribuire meno importanza al fatto di vivere in democrazia, mentre 2/3 degli americani sopra i 65 dice che è assolutamente importante per essi vivere in una democrazia, per esempio, meno di 1/3 di quelli con meno di 35 afferma la stessa cosa. Una crescente minoranza è persino aperta ad alternative autoritarie: dal 1995 al 2017, la parte di francesi, tedeschi, italiani che si dice favorevole a un regime militare è più che triplicata.

Alla questione ci si può accostare partendo dalla risposta all’interrogativo se lo sviluppo economico e maggiori forme di equità sociale ed economica siano favoriti o ostacolati dalla dotazione di istituzioni politiche di tipo liberal democratico.

Si risponderà che democrazie non funzionanti sotto il profilo della formazione e redistribuzione della ricchezza, favoriscono inevitabilmente la formazione di regimi politici di minore intensità democratica, e che è probabilmente vero anche il contrario, come si è visto nel caso della caduta dei regimi comunisti in occidente.

Per quanto qui di interesse, quando crolla il tasso di democrazia interna, tra i risultati appare che il regime che patisce quella caduta diminuisca anche il suo tasso di vocazione al multilateralismo, influenzando il sistema internazionale in detta direzione.

Nel numero che Civiltà del Lavoro dedica al dibattito sulla democrazia nella primavera 1995, è scritto:

Quando istituzioni democratiche si accompagnano a un basso standard di benessere, si documenta una tendenza al ripiegamento o alla scomparsa degli stessi moduli di democrazia politica [ … ].

La non univocità del rapporto tra democrazia e sviluppo, ha generato in materia dottrine controverse. In particolare è stato rilevato che il legame tra sviluppo e democrazia è caratteristico dell’esperienza  europea e nordamericana, manca di valore universale né è in grado di esprimere le aspirazioni di popoli di altre culture e civilizzazioni.

Eppure senza i tavoli multilaterali, gli stati non sono in grado di risolvere le crisi, per cui la disattivazione o il depotenziamento delle istituzioni del multilateralismo danneggiano tout court il funzionamento del sistema internazionale.

Si guardi, di seguito, all’elenco di note situazioni, nelle quali risulta evidente l’impossibilità degli stati (e del sistema internazionale da essi generato) ad autotutelarsi, per aver scelto di non percorrere il metodo di lavoro multilaterale.

In un’Europa incapace di tirare le conclusioni dal fatto che nel 2050 esprimerà soltanto 1 abitante della Terra su 13 rispetto a 150 anni prima quando era europeo ¼ degli abitanti del pianeta, basta l’ondata di poche decine di migliaia di arrivi incontrollati di immigrati e rifugiati da Medio Oriente, Africa e Asia centrale per cambiare l’agenda politica di diversi paesi membri dell’Ue  e presto delle stesse istituzioni comuni. La questione immigrati e rifugiati produce fratture nei rapporti politici interni a paesi membri e tra paesi membri, mentre la Commissione Europea non riesce a incidere sulla crisi apertasi nelle istituzioni a causa della sua cattiva gestione dei rifugiati. 

I britannici optano per abbandonare l’Ue, con il referendum del 24 giugno 2016, anche per non far parte del meccanismo di ricollocazione previsto dalla Commissione Europea.

Sul lato orientale, Russia e Turchia impongono limiti espliciti all’esercizio di sovranità di stati rappresentati alle Nazioni Unite su territori riconosciuti da trattati internazionali: è il caso dell’Ucraina e della Georgia per la Russia, dell’Iraq, della Siria e dei territori curdi per la Turchia.

Sempre in Europa, l’incapacità di governare in modo efficace la crisi finanziaria del dopo 2008, con la marginalizzazione della Grecia, gli attentati a principi come la libertà di opinione e l’autonomia

della magistratura in Ungheria e Polonia, l’indisciplina finanziaria e fiscale di diversi stati tra i quali l’Italia, l’incapacità della Commissione di imporre il rispetto dei trattati su diverse materie comprese l’abolizione delle frontiere interne e la gestione comune delle quote di immigrati e rifugiati, mettono a repentaglio le conquiste che la regione europea ha guadagnato in più di sette decenni di istituzioni comuni. Nella campagna per evitare l’uscita del Regno Unito dall’Ue, l’allora primo ministro David Cameron avrebbe evocato il rischio di nuove guerre europee.

Da un lato la forza degli stati che hanno costruito l’Unione; dall’altra i nazionalismi e i populismi che ne progettano la distruzione.  I nazionalismi europei hanno trovato occasione di esprimersi attraverso guerre prima in territori post iugoslavi, poi in territori post-sovietici.

Tra i risultati, dopo le morti e le distruzioni, nel primo caso si è dato vita a stati come il Kosovo e le due entità Repubblica Srpska e Federazione di Bosnia ed Erzegovina. Nel secondo le situazioni dei

vari Nagorno-Karabakh, Donbass, Crimea, sono venute ad aggiungersi ad altre situazioni europee pre-esistenti, come quella di Cipro Nord, riguardanti l’esercizio di sovranità non pienamente consolidate.

Da ultimo, la proditoria invasione russa dell’Ucraina nel 2022, con i catastrofici effetti umanitari e politici che ha generato, fa di nuovo chiedere se fosse stato fatto tutto il possibile sul piano multilaterale, negli otto anni intercorsi dalla crisi nel Donbass del 2014, per affrontare il complesso delle aggressive azioni russe al confine occidentale con l’Ucraina e non solo. Il fatto che per risolvere il cruento conflitto del 2022 la diplomazia internazionale si sia affaticata a ricercare lo stato in grado di intermediare tra i contendenti, senza ipotizzare subito una conferenza internazionale di pacificazione sotto egida Nazioni Unite, conferma su quale rischiosa deriva la politica internazionale abbia accettato di collocarsi, in particolare nello scenario europeo.

Intanto l’Africa produce a getto continuo conflitti e ricomposizione di conflitti. Il processo sottolinea la crisi della forma stato ereditata dai colonizzatori e accresce l’elenco dei casi di controllo tribale e clanico di territori e popolazioni. In alternativa sono i ceti militari, come in Egitto, Eritrea, Congo, Mali, a prendere il potere mettendo in crisi il modello novecentesco di stato e bloccandone l’evoluzione verso la pienezza di istituzioni democratiche.

In America Latina, uno stato tradizionalmente forte e dall’apparato piuttosto robusto come il Brasile, ha vacillato sotto i colpi di corruzioni e impeachment, sommando crisi politica a crisi economica, con conseguenze disastrose sulla gestibilità dello stato. Come risultato, un nazional populista ha assunto, nel 2019, la carica massima dello stato. Si troverà, con la cattiva gestione della pandemia Covid-19, a rappresentare, secondo il voto del Senato ad ottobre 2021, la causa maggiore dell’elevato numero di vittime brasiliane. Nel frattempo, il Brasile si ritrova spaccato in due, come mostrano il risultato elettorale di fine ottobre 2022, che riporta al potere Luiz Inácio Lula da Silva con il 50,9% dei voti, e l’invasione di palazzi delle istituzioni di Brasilia da parte di partigiani di Bolsonaro nel gennaio successivo.

In un altro grande paese latinoamericano, il Venezuela dove lo stato ha anch’esso grandi tradizioni, dotate nella recente stagione politica del forte richiamo al bolivarismo, l’apparato pubblico si ritrova fragilizzato, le istituzioni si frammentano nello scontro tra fazioni. Così lo stato contribuisce a mandare alla malora l’economia e a impoverire la popolazione, invece di essere strumento di emancipazione, giustizia e sviluppo. Nonostante il disconoscimento del risultato elettorale del

2018 da parte di gran parte degli stati americani, nel gennaio 2019, il nazional populista Nicolás Maduro conferma la sua presidenza, salvo doversela vedere con il duro confronto istituzionale interno.

In Asia la tradizione del dispotismo assume nuove forme che, tutte, toccano la forma stato: dalla democrazia limitata dagli apparati castrensi in Thailandia e la sua negazione in Birmania, al regime di partito unico in Nord Corea, Mongolia, Laos, Cambogia, Cina.

Lo stato viene occupato da caste di partito, familiari, economiche, militari, che si riproducono per partenogenesi e fuori dalle linee istituzionali, facendo perdere allo stato il rispetto delle regole

formali e dell’imparzialità che lo rendono tollerabile. Il mantra del parallelismo tra economia liberista e sistema politico liberale, dato per acquisito da Adam Smith ad Amartya Sen («L’espansione della libertà è vista, in quest’approccio,  come il fine primario e il principale mezzo dello sviluppo»), subisce la storica negazione dal redditizio abbinamento di autoritarismo o dispotismo politico e liberismo economico, in paesi come Cina, Singapore, Malesia, Vietnam.

Qualcosa del genere accade anche in Russia, riaffermando la storica natura bicefala asiatico-europea dell’ingombrante entità che occupa da poco più di un millennio il confine orientale dell’Europa. Non casualmente Russia e Cina cementano progressivamente, negli anni dieci del nuovo secolo, l’alleanza di fatto.

Come uno dei prodotti delle manovre annuali congiunte che le due marine realizzano dal 2012, nel 2017 la marina cinese si è presentata a maggio 2015 in Mediterraneo svolgendo manovre militari con la marina russa, che ha contraccambiato con manovre a due nel mar Cinese meridionale nel settembre 2016. Nel dicembre 2019 la collaborazione è risultata allargata all’Iran, attraverso le manovre tripartite chiamate “Cintura di sicurezza marittima”, ribadite nel febbraio 2021 nell’oceano Indiano settentrionale. Nel corso dell’aggressione russa all’Ucraina, Pechino non prenderà posizione pubblica contro le azioni di Mosca, pur non fornendo a questa armi e denunciando i rischi dell’uso della forza.

I ripetuti attentati e assassinii individuali e di gruppo realizzati dal terrorismo di radice islamista in paesi a maggioranza di religione islamica e in paesi chiave del cosiddetto occidente, incidono sui conflitti di potere tra fazioni e gruppi di diverso orientamento politico, costringendo gli stati in paesi come Siria Iraq e Yemen al contrasto manu militari, e in paesi come quelli membri dell’Ue a cercare di non soccombere alle ondate di risentimento e rabbia delle opinioni pubbliche.

La sicurezza dei cittadini è alla radice della stessa ragion d’essere degli stati. Se i loro governi si mostrano incapaci di garantirla, spingono i cittadini a cercare in forze politiche cosiddette populiste, che dello stato hanno concezione diversa, la soluzione all’esigenza di sopravvivenza. Queste forze, che si autodefiniscono sovraniste e nazionaliste, non potranno che fornire risposte ancor meno efficaci al terrore, in quanto ideologicamente contrarie ai meccanismi multinazionali di anticipazione e difesa, gli unici potenzialmente in grado di contrastarlo.

(da La diplomazia dell’arroganza, L’Ornitorinco ed.)