MARIO MAURO
La guerra russo-ucraina ha caratteristiche peculiari rispetto agli altri conflitti in corso. Putin vuole “nuovamente” Yalta, chiede cioè di recuperare lo spazio di influenza che l’Unione Sovietica deteneva dopo gli accordi che hanno definito gli equilibri all’indomani della Seconda guerra mondiale. Per ottenere questo ha bisogno dell’Ucraina. Il politologo Bresinzsky – consigliere di molti presidenti americani – era solito dire: “senza l’l’Ucraina la Federazione Russa è una importante potenza ma asiatica, con l’Ucraina torna ad essere un player globale”. L’Ucraina ha dovizia di materie prime ma non è solo un ricco bottino. Conta soprattutto la sua posizione strategica.
Cina ed India ed altri paesi pur dubbiosi sulla legittimità della aggressione russa spalleggiano Mosca perché puntano ad una nuova Yalta, cioè ad un accordo che riconosca il loro ruolo e determini nuovi equilibri capaci di collocare due paesi che non sono solo grandi economie ma anche potenze militari e realtà demografiche straordinarie.
La Santa Sede da tempo per bocca di Papa Francesco parla di “terza guerra mondiale a pezzi”, consapevole del fatto che la lotta tra potenze occidentali radunate nelle alleanze NATO ed AUKUS e gli altri grandi del mondo è destinata a produrre situazioni difficilmente gestibili su scala globale. L’Ucraina e il suo martirio sono oggi il crocevia di queste contraddizioni ancor più di quanto non lo sia stato ieri il dramma della Siria.
La pace in questo senso non può essere semplicemente la media degli interessi in gioco, ma l’affermazione di un principio onnicomprensivo venendo meno il quale anche per uno solo viene meno per tutti. La comunità internazionale quindi non deve negoziare beni indisponibili come i territori ucraini ma negoziare con i russi e gli altri protagonisti dello scenario globale le condizioni di una nuova stabilità dicendo con chiarezza a Mosca che se pensa di ottenerle con la forza avrà di fronte un muro ma riconoscendo che il 2023 non può più dipendere da uno schema geopolitico ormai consunto e che necessita di profonde riforme come quella delle Nazioni Unite, del WTO, di una economia gestita nel segno del dollaro. Con lo scopo di contenere lo scontro tra autarchie e democrazie.
E del resto anche la stessa Unione Europea è fuori dallo schema di Yalta e rappresenta il più clamoroso dei superamenti di quello schema se pensiamo che mette insieme in un progetto politico comune – caso unico al mondo – potenze vincitrici e potenze sconfitte.
Dal 6 al 9 giugno 2024 i cittadini europei saranno chiamati ad eleggere i propri rappresentanti presso il Parlamento europeo. Le elezioni, che avvengono ogni 5 anni, si preannunciano come le più decisive della storia recente dell’Unione europea per una serie di fattori differenti. L’ultima legislatura ha dato un nuovo “ruolo” all’Unione, rendendola più vicina alle dinamiche quotidiane di quanto sia mai stata. Pandemia prima e guerra in Ucraina poi hanno reso ciò che accade a Bruxelles e Strasburgo oggetto di discussione di tutti i giorni, nei media così come a livello istituzionale.
Le vicende del quinquennio 2019-2024 sono sin dall’inizio apparse molto complicate. Dopo i risultati delle urne, il candidato alla Presidenza della Commissione europea del PPE Manfred Weber non ottenne i voti necessari ad essere eletto; al suo posto, venne scelta Ursula Von der Leyen – anch’essa PPE –, anche se con la maggioranza parlamentare più bassa dal 1999 (appena il 51%). Un ruolo di primo piano fu dato a Frans Timmermans, Vice-Presidente della Commissione e nominato Commissario europea per il clima e del Green Deal.
Molte risorse sono state allora stanziate per permettere all’Europa di raggiungere gli obiettivi climatici firmati con l’Accordo di Parigi del 2015. Tuttavia, i due shock esogeni che, per dimensioni ed impatto, non si vedevano nel Vecchio Continente dalla Seconda Guerra Mondiale (Covid-19 e guerra), hanno drenato risorse e richiesto interventi straordinari che, talvolta, sono stati contradditori rispetto agli obiettivi di neutralità climatica (es: riattivazione centrali a carbone in Germania).
Le posizioni tra Popolari e Socialisti, i due grandi gruppi sui quali si regge la maggioranza Von der Leyen, si sono via via distanziate fino ad arrivare ad un vero e proprio scontro sulle tematiche ambientali; ciò è accaduto nel febbraio e nel luglio 2023, quando il PPE ha votato contro le proposte della Commissione per un Piano Industriale del Green Deal e sul Ripristino della Natura.
Le vicende in seno alle istituzioni europee, accompagnate da quelle dei singoli stati, ci permettono di ipotizzare con un buon grado di certezza quali saranno gli equilibri del quinquennio 2024-2029. Sia per ragioni di puro calcolo matematico che politico, la nuova maggioranza comprenderà il gruppo dei Conservatori e Riformisti (ECR) cui fa riferimento Fratelli d’Italia. Ciò è vero anzitutto perché le proiezioni indicano che i seggi di PPE, S&D e Renew non saranno sufficienti a garantire la maggioranza – dal momento che tutti i tre gruppi citati sono dati in leggero calo rispetto al 2019 – e che la riforma da poco approvata aumenta il numero dei parlamentari dagli attuali 705 a 720.
C’è però da fare anche una considerazione di carattere politico. Gli ultimi mesi sono stati caratterizzati dall’avvicinamento tra PPE ed ECR, dovuto in particolar modo all’exploit del partito di Giorgia Meloni in Italia ed al fatto che qui la maggioranza di governo sia formata proprio da FdI e Forza Italia (oltre alla Lega). Va inoltre considerato che il meccanismo decisionale europeo prevede una doppia maggioranza, quella parlamentare ma anche quella in seno al Consiglio europeo, l’organo che riunisce i capi di stato e di governo dei paesi membri. Qui, sempre secondo proiezioni attuali – dunque con un margine di errore – ECR dovrebbe poter contare su circa un quarto delle “teste”, mentre i popolari su un sesto. Si comprende perciò meglio la necessità di avere posizioni quanto più allineate per i due gruppi all’interno del Parlamento, per evitare l’immobilismo legislativo.
Inoltre, per poter portare avanti il proprio programma di governo Giorgia Meloni ha compreso che non può più fare a meno dell’Europa e che entrare in maggioranza significherebbe poter incidere in misura smisuratamente maggiore sull’indirizzo politico e legislativo che prenderà Bruxelles nei prossimi cinque anni. La distanza che si sta formando tra S&D e PPE è quella in cui ECR si vuole inserire.
A questo avvicinamento hanno contribuito sicuramente anche le posizioni ultra-ambientaliste portate avanti da Timmermans, che hanno portato ad uno scivolamento verso destra del gruppo guidato da Manfred Weber. A ciò va aggiunta l’instabilità oramai sempre più cronica della sponda sud del Mediterraneo che ha avuto come riflesso l’aumento della pressione migratoria nei confronti di paesi quali Spagna, Italia e Grecia, tema molto caro alle destre europee ma tutt’ora irrisolto.
La probabilità dunque di avere una maggioranza inedita dopo le prossime elezioni europee è alta, anche se diverse cose possono ancora cambiare avendo da qui a giugno diversi appuntamenti elettorali nazionali – Polonia, Baviera e Olanda solo per citarne alcuni – che avranno un certo peso nel definire i futuri equilibri. Di certo vi è il fatto che le decisioni prese a Bruxelles avranno un impatto sempre maggiore nelle dinamiche nazionali e che si va verso una Europa che, per poter competere con le altre grandi potenze globali, avrà necessità raggiungere un sempre maggiore grado di unità.
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