DEMOCRAZIA FUTURA: TRE ARTICOLI SULLA CRISI GLOBALE

Democrazia futura propone questo mese ai lettori de Ilmondonuovo.club tre articoli in qualche modo legati alla crisi politica che scuote non solo il nostro Paese ma più in generale l’Europa e il mondo.

Giampiero Gramaglia nel suo pezzo “L’Europa è gregaria e impotente” osserva con il solito distacco, ma questa volta con una punta di rammarico pur separando sempre i fatti dalle opinioni, le ragioni per le quali “nella guerra fra Israele e Hamas l’Europa non tocca palla e nemmeno ci prova”. “La guerra tra Israele e Hamas, da un lato, e, più in generale, la crisi in Medio Oriente confermano, se mai ce ne fosse bisogno, che l’Unione europea politica non c’è: è un dato di fatto, un assioma a partire dal dato di fatto arcinoto che, in politica estera, i 27 devono decidere all’unanimità e non possono decidere a maggioranza. E, quindi, basta che un polacco o un ungherese alzi la mano per obiettare e tutto si arena” – conclude l’ex direttore dell’Ansa.

Il Presidente Movimento Europeo Italia Pier Virgilio Dastoli presenta una riflessione sul tema “Difesa europea e cantiere della pace: perché abbiamo bisogno di una Helsinki-2 e di una nuova Carta di Parigi” presentando alcune proposte “Per aprire il cantiere della pace europea”.
Per Dastoli l’autonomia strategica dell’Unione europea “deve seguire la via di un multilateralismo globale che metta al centro le sfide del mondo di oggi senza perseguire il tragico obiettivo di sostituire ad una somma di nazionalismi statali l’isolazionismo continentale del nazionalismo europeo”.

Di qui la proposta di una ” una Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione (e aggiungiamo sulla pace) in Europa (Helsinki-II) nella prospettiva di una nuova Carta di Parigi” secondo l’auspicio formulato da Sergio Mattarella. 

Infine in un post scriptum Dastoli denuncia il triplo ‘fiasco‘ dell’incontro di Granada. 

E’ stata innanzitutto un “fiasco” la terza riunione della Comunità Politica Europea, immaginata inizialmente da Emmanuel Macron come succedaneo dell’Unione allargata, che non ha prodotto nessun risultato consistente ad eccezione della tradizionale foto […] Nulla di fatto anche relativamente al “tema dell’allargamento … perché dall’Andalusia, pronubo l’ineffabile Charles Michel, doveva essere lanciato informalmente il messaggio storico “si parte!” nel senso che i ventisette avrebbero dovuto sottoscrivere l’impegno a prendere (per quei Paesi per ora solo candidati come l’Ucraina e la Moldova) o riprendere (per quei Paesi i cui negoziati di adesione erano già iniziati) in mano i dossier dell’esame delle riforme interne e delle politiche di aiuto all’ingresso nell’Unione europea”… L’ultimo “fiasco”, che ha fatto tornare a Roma – come si dice – Giorgia Meloni con le pive nel sacco poiché si è  dovuta accontentare di una intesa con l’irrilevante primo ministro britannico Rishi Sunak, è quello delle politiche migratorie in cui gli ipotetici accordi raggiunti fra gli ambasciatori sono stati bloccati non solo dai sovranisti di Visegrad ma anche da Olaf Scholz con cui la Presidente del Consiglio italiano aveva sbandierato mentendo un accordo storico e anche da Emmanuel Macron che non è andato al là dei sorrisi diplomatici di circostanza delle passeggiate romane”.

Lo storico Giulio Ferlazzo Ciano in un lungo pezzo Armenia, nazione sofferente tra incudine e martello affronta “Il conflitto dimenticato nel Nagorno-Karabakh riporta all’attualità la pulizia etnica. Storia di una crisi che non sembra ancora finita. Alle origini della contesa: i diritti storici dell’Armenia sulle sue regioni orientali.

“in mancanza di documentate efferatezze in questo scorcio di 2023, la prudenza consigli agli armeni di abbandonare il Nagorno-Karabakh prima che sia troppo tardi. Il risultato al momento è una vera e propria pulizia etnica, ma estremamente raffinata, dato che nessuna organizzazione internazionale potrebbe accusare l’Azerbaigian di aver provocato volutamente l’esodo degli armeni. E così siamo all’epilogo, in attesa che si compia il destino di questa regione martoriata, fissato per il primo giorno del prossimo anno, e in attesa che si compia anche il destino dell’Armenia, minacciata da un nuovo attacco militare azero volto ad annettere il corridoio di Zangezur. Di fronte a simili prospettive non possiamo fare altro che aspettare che l’incudine e il martello finiscano il loro lavoro, osservandoli nella più totale impotenza. Forse è proprio vero: povera Armenia, così lontana da dio e così vicina alla Russia e alla Turchia”.  

Completa il quadro infine un quarto e ultimo contributo di Salvatore Sechi  Sraffa e l’ossessione trotzkista del Grande Terrore”. Si tratta di un corposo saggio in cui lo storico sardo spiega – come recita l’occhiello – “Perché né il PCd’I né l’Urss non fecero nulla per liberarlo dal carcere”.

La storiografia più recente conferma le ipotesi sostenute sin dagli anni Sessanta da Leonardo Paggi circa “La rottura mai ricomposta di Gramsci con Togliatti e il gruppo dirigente del PCd’I” rottura che spinse lo stesso Gramsci – ormai imputato di parteggiare per Trotzky – a conferire il mandato “a Piero Sraffa e a Tatiana Schucht di non destinare a Palmiro Togliatti i manoscritti redatti durante i suoi dieci anni di detenzione nelle prigioni di Stato”.

“L’esclusione di Palmiro Togliatti e del partito si può dire sia stata l’ultima manifestazione di volontà di Gramsci. Lettere e Quaderni dal carcere, assurti dopo la sua morte nell’aprile del 1937 a lascito ereditario, costituirono – precisa Sechi – l’unico patrimonio di cui godette il poverissimo studente sardo diventato segretario generale del Partito Comunista d’Italia […]. 

Analogamente – osserva lo storico contemporaneista – sono rimasti soffusi in penombra o assenti il ruolo e l’autorità politica, a parte il nome, di Gramsci, cioè la presa d’atto della sua ininfluenza. Intendo dire che l’‘affaire Gramsci-Togliatti’ fotografa soprattutto la deriva verso quella sindrome ossessiva del complottismo e della stessa criminalità cospiratoria subita dal Comintern negli anni del Grande Terrore”.

Il saggio ripercorre minuziosamente alcune vicende come “L’inchiesta del Comintern su Ercoli-Togliatti” propiziata dal ramo russo della famiglia Gramsci dopo la morte del pensatore sardo contenente la nota impietosa di una funzionaria bulgara su “Le accuse di Gramsci contro Togliatti” dietro al quale sin dal suo arresto nel 1926 il leader sardo avrebbe visto “la mano di un traditore”. 

Da qui quella che Sechi definisce “L’inarrestabile processo di separazione di Gramsci dai suoi compagni comunisti” che spiegherebbe non solo perché questi ultimi non fecero nulla per liberarlo dal carcere come del resto non fece nulla Stalin nonostante le pressioni della famiglia”, ma anche perché – dopo la grave crisi del capitalismo del 1929 –

“Dal fondo di un carcere Gramsci riesce a cogliere l’epocale cambiamento che sta avvenendo. C’è un ruolo nuovo dello Stato che da Washington a Mosca investe il vecchio mercato e modifica le forme della politica. Gramsci – a parere di Sechi – coglie molto bene che occorre fare i conti con l’americanismo e con la virata verso il totalitarismo delle repliche alla crisi innescata dalla caduta dei titoli azionari nella Borsa degli Stati Uniti.
Esso non coincide per nulla con le coercizioni e le violenze del neo-bonapartismo dominante nel paese del “socialismo reale” né con i meccanismi e le procedure del dominio ad opera del nuovo padronato. Ha, invece, a che fare con l’assunzione da parte dello Stato, negli Stati Uniti d’America come nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, di funzioni collettive, totalizzanti in sostituzione di quelle che fino ad allora erano state iniziative private in un mercato lasciato a sé stesso”. 


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