Vienna, 8 dicembre 1881. E’ la prima replica dopo il debutto trionfale al Ringtheater. La sala, scintillante nella sua nuovissima illuminazione a gas, è gremita di un pubblico elegante e curioso. Sta per iniziare lo spettacolo.
Da una lampada difettosa parte una fiammella che si attacca al sipario. E’ un attimo: i velluti prendono fuoco e il teatro diventa una trappola fatale. Muoiono in quattrocento; enorme è l’impressione che va a confermare una voce in giro da anni sul potere occulto di…
Gli estremi della vicenda. Eccoli: in programma quella sera al Ringtheater c’è “I Racconti di Hoffmann” di Jacques Offenbach, morto l’anno prima in fama di iettatore, e, come sa bene chi frequenta il mondo dello spettacolo, queste reputazioni partono da esili voci per diventare un tragico coro.
Insomma, la morte di quei poveri spettatori venne attribuita senz’altro al malefico potere iettatorio del povero Hoffmann, ben vivo (il potere) anche dopo la di lui dipartita.
C’è una nostra vecchia conoscenza, un suo contemporaneo, che teneva per buona questa voce. Si tratta di Gioacchino Rossini, il quale, un po’ per burla, ma più probabilmente credendoci in pieno, da italiano superstizioso, compose e dedicò a Offenbach il “Petit Caprice style Offenbach”, un pezzo per pianoforte in cui la diteggiatura indica chiaramente che molti passaggi devono essere eseguiti con l’indice e il mignolo alternati o insieme: insomma, facendo le corna.
Il nostro protagonista (la cui immagine che vediamo qui in effetti non è molto rassicurante) nasce Jakob Levy Eberst, figlio di un cantore della sinagoga di Colonia che è anche rilegatore, editore, traduttore e insegnante di musica. Per difendersi dal diffuso antisemitismo del periodo, papà cambia il suo cognome in Offenbach (così si chiama il suo paesello di origine) e questo cognome passa anche a Jakob, che nel frattempo è diventato Jacques.
Il giovane Offenbach studia al Conservatorio di Parigi e arriva presto al livello di grande virtuoso di violoncello. Suona con Liszt, Rubinstein, Mendelssohn. Diventa talmente bravo da potersi permettere di ripetere con il suo strumento, notoriamente non agilissimo, gli stregoneschi virtuosismi di Paganini.
Poi passa alla direzione d’orchestra, ma non è contento.
Finalmente capisce cosa vuole, prende in affitto un piccolo teatro che chiama Bouffes Parisiens, dove comincia; poi si sposta in altri teatri più grandi dove continua per trent’anni la sua folgorante carriera di autore di operette. Più di cento: spiritosissime, brillanti, satiriche e pungenti verso la società di Parigi, molte delle quali famosissime all’epoca. E lo sono ancora: “La bella Elena”, “La Vie Parisienne”, “Orfeo all’Inferno” che lo rendono popolare e ricco.
Inutile ricordare che l’orecchiabile, geniale, immortale, Can Can viene proprio da lì.
Parigi è diventata la sua città e la Francia la sua patria di elezione. Eppure, durante la guerra franco tedesca del 1870 si trova accusato proprio dai suoi concittadini di essere una spia di Bismarck, tanto che, a scanso di guai, per il periodo bellico se ne va in Spagna. Ma poi torna, i parigini dimenticano e lui riconquista in un attimo la stessa favolosa popolarità di prima.
Muore, al colmo della fama, la notte del 4 ottobre 1880. L’indomani il suo amico del cuore, l’attore Leonce, passa a casa sua per informarsi sulla sua salute. Gli dicono che il Maestro è morto serenamente senza accorgersene. “Chissà come ci rimarrà – pare che abbia esclamato Leonce – quando se ne accorgerà”. Sciocchezze fine ottocento, ma in carattere con il personaggio ed evidentemente anche con i suoi amici.
Si dice che quel simpaticone di Wagner nutrisse per Offenbach una viva antipatia basata su alcuni per lui insuperabili stereotipi: essere Offenbach tedesco naturalizzato francese, quindi un traditore; essere Offenbach ebreo, quindi un individuo inferiore; essere Offenbach una persona spiritosa, quindi l’opposto di lui stesso; essere Offenbach capace di sfornare melodie irresistibili che tutta l’Europa fischiettava, il contrario dei suoi pesanti polpettoni.
Questo sovraccarico di bile deve averlo spinto a dichiarare, dopo l’incendio del teatro: “Gli sta ben, se lo sono meritato! Così imparano ad andare a vedere un’opera di Offenbach!”
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