LA POLITICA COME “PARTECIPAZIONE” (DEMOCRATICA)

La politica come scienza filosofico-sociologica, parte nona

Un approfondimento a proposito di democrazia: si può già qui anticipare un fatto che demitizza il carattere cosiddetto “partecipativo” della stessa e che, alla fin fine, si spiega con la suddetta asimmetria potestativa di fondo. Ciò che, infatti, pare distinguere la democrazia dalle altre forme di governo, in realtà a queste la uniforma: in tutte si può, cioè, uniformemente notare, pur secondo diverse modalità e gradazioni, che chi esercita il potere – per quanto nella democrazia distribuito e allargato pluralisticamente – lo fa sulla grande massa che, sistematicamente, della politica (e, quindi, del governo) non si interessa se non, appunto, nei momenti di “eccezione” istituzionale (le elezioni) e, ancor più, in quelli storici di crisi e di rottura e comunque sempre nei limiti dettati dai propri e prevalenti interessi privati. Anche in democrazia, per riepilogare, la partecipazione (elettorale) è periodica – e mai in ogni caso al 100% – e rimane sostanzialmente estranea, nella vita quotidiana della gente comune, alla effettiva gestione del “palazzo”, salvo appunto i momenti di crisi (economica, istituzionale, ecc.).

Allora, l’asimmetria tra i “pochi” (rappresentanti dei “molti”) e questi (“i più”, la moltitudine, la “massa”) trova conferma quale premessa della partecipazione politica in senso stretto e istituzionale (elettorale) e “civile” (cioè, attraverso i gruppi di pressione e di interesse, i partiti, i sindacati, i movimenti, i referendum popolari e così via).

Non a caso, i tentativi di instaurare vere e proprie forme di “democrazia diretta”, di “democrazia di massa”, di “democrazia popolare”, di “democrazia assembleare”, di “democrazia radicale” in genere si risolvono di fatto in regimi che sono agli antipodi della democrazia (meglio definibile, oggi, liberal-democrazia), cioè “totalistici”, “totalitari” tout court.

Si può, in conclusione, sostenere che non solo nei regimi tradizionali ma negli stessi assetti liberal-democratici la gente comune – “i molti”, “i più”, la “moltitudine” della città antica, il popolo minuto del Comune medioevale, le “masse” contemporanee – rimane, però, di fatto estranea alla vita politica.

Va qui fatta una precisazione terminologica: quando si parla di estraneità dell’uomo comune dalla politica non si intende dire che egli non sia dentro la (società) politica, ma solo che la politica come gestione del potere (da parte dei “professionisti” della politica stessa) rimane ed è sentita lontana dalla sua esperienza quotidiana, ciò che si verifica anche nell’esempio riportato, che è quello della forma di governo democratico, sicché ad accorciare le distanze (fra vita pubblica/politica e vita privata) non è sufficiente la periodica chiamata alle urne. Tanto più vale l’osservazione per le altre forme di governo. Affermazioni, dunque, che non sono in contrasto con la concezione della democrazia quale forma di governo tipica dell’uomo contemporaneo, giustificata (“legittimata”) dalla sovranità popolare.

Per quanto fin qui rilevato, un altro carattere distintivo della forza politica – quindi, del “potere” per antonomasia– è la sua “effettività”, cioè la sua capacità di farsi concretamente valere nel senso che, quando viene meno l’effettività, viene meno il potere tout court. Nei confronti del “potere” si istituisce contestualmente uno stato di subordinazione di chi al potere è soggetto e, in questo senso, ne diventa in qualche modo oggetto (ciò che caratterizza la forma repubblicano-democratica è che l’oggetto del potere non perde mai, però, la sua soggettività di cittadino titolare dei diritti, non si riduce cioè a suddito).

L’asimmetria del potere (politico) è, dunque, presente in qualunque modello potestativo, anche e perciò in quello democratico e, quindi, con riferimento alla contemporaneità, il potere si definisce anche qui per due caratteri congiunti: in quanto “potere del popolo” (che non esclude, come detto, il potere “sul popolo”) e in quanto “potere della legge” e “sotto la legge” (che, a sua volta, trova la propria fonte più immediata nel popolo, attraverso i suoi rappresentanti e quella più profonda nelle leggi generali – che affondano nella consuetudine e nel costume – e nella legge fondamentale votata dal popolo attraverso i suoi rappresentanti nell’Assemblea Costituente).

Procediamo con l’illustrazione dei caratteri generali della politica e del potere politico. Questo si fa valere, qualunque sia il modello specifico in cui si configura, attraverso la decisione di chi detiene il potere stesso – sia l’uno, siano i pochi, siano i molti, rappresentati, però, dai pochi.

La decisione è sempre presa nella forma della legge, sia questa nuda espressione della volontà monocratica o addirittura arbitraria (“dispotica”) dell’uno – solitario o assistito dai pochi – sia dei pochi, sia dei molti – rappresentati dai pochi. Ed è una decisione che sempre incide sui “molti”, i “più”, che a questa decisione obbediscono, (e)seguendo comportamenti voluti da chi comanda e in qualche modo fatti propri, bon gré mal gré, di buon grado o di mal grado, da chi, appunto, obbedisce. La decisione influisce, determinandoli, sui comportamenti del “soggetto/oggetto” obbediente, il quale, perciò, mette in atto azioni originariamente non volute da lui ma da colui/coloro che, influenzandone i comportamenti, decidono per/su lui stesso.

Per concludere su questo tema della “decisione” (politica): questa ci rimanda al primo carattere distintivo e specifico – ossia la natura – della politica, mostrandoci, cioè, che essa ha la sua fonte nella volontà, sia pur volontà razionale, ma che quello politico è anzitutto un atto di volontà. Alla volontà, infatti, rimanda il comando tipico della politica, alla volontà rimanda la legge (anch’essa razionale, la recta ratio): volontà imperativa, volontà normativa. Ma, perciò stesso, questa volontà non va intesa in senso volontaristico (Giovenale, Satire, 6, 1, 223: hoc volo, sic iubeo, stat pro ratione voluntas), a esclusione, cioè, dell’essenziale componente razionale (e, quindi, di quel principio di legittimazione dell’obbligazione politica più volte richiamato), ma va intesa – tale volontarietà – nel senso kantiano della ragione pratica.

La razionalità politica non va confusa con la razionalità della “politica”, se per questa si intenda in senso stretto la razionalità dell’uomo politico (il governante, il “professionista della politica”), cioè quella razionalità (strumentale) che si propone specificamente la scelta dei mezzi adatti ai fini, al fine della politica (anche questa è, naturalmente, razionalità, ma di per sé non inclusiva di tutta la razionalità politica: e quando abusivamente se ne ponga come affatto inclusiva, si può parlare in particolare di ragione politica “tecnocratica”). Più profondamente e fondamentalmente, per razionalità politica si intende quella immanente all’azione politica in sé e per sé (quindi, del soggetto – attivo e passivo – di questa azione) Perciò essa, appannaggio di tutti, rimanda alla razionalità comune o dell’uomo comune. Razionalità “pratica”, per concludere e riassumere il concetto su questo punto, che si qualifica per la sua essenza strutturale di comando-obbedienza.


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