CRESCENTE ESTRANEITÀ

Non sfugge certamente a nessuno il diffondersi ovunque di una rabbia incontrollata e ingestibile che, quando non trova giustificati obiettivi, si scaglia contro chi ha il destino o la sfortuna di trovarsi a portata di mano.

Non sempre, naturalmente, lo sfogarsi rabbioso giunge sino alla soppressione di una incolpevole vittima.

Non può non colpire però come, oltre all’effetto “a onda” che facilmente riscontriamo nei supermercati come nel traffico urbano, la tendenza alla diffusione di una rabbia cieca e implacabile tenda a trovare la sua peggiore espressione in due ambiti ben individuabili.

Il primo è naturalmente quello costituito dalla dimensione famigliare e dal rapporto maschio – femmina.

Non suoni giustificativo l’uso dell’avverbio “naturalmente”. Serve solo a ricordare, purtroppo, come la sfera famigliare abbia da sempre costituito il teatro delle violenze e dei soprusi da parte del cosiddetto capofamiglia.

E, del resto, sino al 1975 nella civilissima e cattolicissima Italia l’uccisione della consorte considerata fedifraga godeva di rilevanti sconti di pena e, comunque, di giustificazioni diffuse.

Più recente, e forse ancora più preoccupante, è la crescita, apparentemente incomprensibile, di comportamenti giovanili in contrasti e scontri dalle motivazioni incomprensibili o comunque irrilevanti.

Ciò che rende questi comportamenti ancora più preoccupanti è la diffusa tendenza a documentarli e a diffonderli orgogliosamente dopo.

Si esprime così non soltanto una giustificazione dei fatti, ma addirittura la loro valorizzazione.

Colpisce (negativamente, si intende) la paradossale vicinanza tra l’italiano orgoglioso di punire la sua donna, sostenuto da un “codice” che lo autorizzava se non addirittura lo imponeva, e un giovane che dovrebbe essere ben lontano da quel mondo ma continua ad agire nella stessa maniera.

Prima di cercar di trovare qualche spiegazione a tutto questo, si impongono alcune riflessioni.

Appare assolutamente illusorio sperare e credere di poter invertire la tendenza nel, pur giustificatissimo, aumento delle pene carcerarie in seguito a regolare processo.

Non stiamo parlando di lontani popoli che in luoghi esotici esprimono violenti rituali in base a culture a noi incomprensibili.

I diciottenni che si accoltellano davanti a un bar o gli adolescenti che si sfidano in pericolosi concorsi di violenza vivono tra noi. Stanno nella porta accanto, se non nella nostra.

Così pure i distinti signori (descritti nelle interviste dei vari TG come “tanto brave persone”) che ammazzano moglie e figli, non sono straniti e disperati homeless alla ricerca di qualsia sfogo alla loro frustrazione sociale.

Persone, tutte, che mentre commettono quel che commettono sanno benissimo non soltanto di uccidere un altro ma, paradossalmente, di uccidere anche se stessi.

Si può davvero pensare che la sospensione delle attenuanti in sede giudiziaria o, addirittura, l’aggravamento di pena possa condizionare un ventenne che mentre ne accoltella un altro sta comunque colpendo e condizionando tutta la propria vita futura?

Una maggior promessa severità avrebbe forse trattenuto il barista che infligge decine di coltellate alla sua compagna e al figlio che porta in corpo?

Avrebbe fermato le due gang che si affrontano coltelli in pugno di fronte al solito bar o avrebbe dissuaso gli aggressori di una giovane donna che poi postano le loro immagini sui mezzi di comunicazione di cui dispongono?

Altrettanto illusoria, per quanto sempre giustificatissima e necessaria, appare l’idea di affrontare la questione attraverso un processo di educazione di massa che diffonda la condanna di ogni forma di violenza.

Ciò tanto più in un momento in cui l’ondata di rabbia e insoddisfazione si manifesta anche nelle coppie di genitori che aggrediscono il docente colpevole di una nota (o addirittura di un rimando!) ai danni del proprio adorato figliolo.

Per non parlare delle aggressioni ai danni dei sanitari e perfino agli autisti degli autobus o ai controllori sui treni.

Violenze e rabbie “irrazionali”, prive di una finalità (economica o meno) a vantaggio dell’aggressore.

Ben diverse, e forse persino peggiori, di quelle commesse dal rapinatore o dal gangster di turno che comunque tende a proteggersi ed è mosso da un fine, per quanto inaccettabile.

Ora, posto che non siamo diventati adesso “più cattivi” occorre forse accettare l’idea che l’insofferenza e la rabbia nei confronti del mondo esterno e di quelle che al singolo appaiono come ingiustizie, sono atteggiamenti e condizioni dell’animo che caratterizzano da sempre la specie umana distinguendola, con ciò in peggio, dalle altre specie animali che vivono sul pianeta che chiamiamo Terra.

Quel che sta avvenendo, e non solo in Italia, in questo momento è piuttosto la crisi delle strutture di contenimento ed indirizzo di tali stati d’animo.

Alle forme con cui si manifesta ed esprime la paranoia collettiva ha dedicato dei libri importanti Luigi Zoja, di cui segnalo qui il recente e bellissimo “Narrare l’Italia”.

In queste povere righe possiamo soltanto cercar di ragionare sulla crisi delle strutture di contenimento e sulla crescente estraneità dell’individuo rispetto al contesto sociale e alle sue inevitabili norme.

Tutti gli esseri umani soffrono, è inevitabile, del “dolore di vivere”. Si scaricano qui tanti fattori, tra loro assai diversi.

Si va dalla insoddisfazione per il ruolo sociale o i risultati ottenuti alla consapevolezza dei limiti personali che non si vorrebbe avere e delle conseguenze che essi hanno nei rapporti con gli altri.

Le timidezze si mescolano alle disillusioni, le fregature subite nella vita si incrociano con la consapevolezza degli errori compiuti. E così via.

Del resto, senza il dolore di vivere non vi sarebbero stati i grandi e piccoli cambiamenti che hanno costellato la storia della specie umana e non sempre positivamente.

Senza qualcuno su cui scaricare le delusioni non vi sarebbe stato l’antisemitismo e senza “colpevoli” Hitler, nel carcere di Vienna, non avrebbe scritto (insieme a Rudolph Hess) quel “Mein Kampf” che adesso viene ristampato in milioni di copie in tutto il mondo musulmano.

Ma senza la ribellione all’ingiustizia dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo Karl Marx non avrebbe scritto “Il Capitale” e, insieme ad Engels, il “Manifesto del Partito Comunista”.

E, forse, nemmeno Francesco d’Assisi avrebbe iniziato la sua Missione spogliandosi (come ci racconta Giotto) dei ricchi abiti paterni.

Insomma, senza quello che qui chiamiamo il dolore di vivere non ci sarebbe stata la Storia e nemmeno noi.

La questione è, oggi, la crisi e l’indebolimento delle strutture di contenimento e di indirizzo della insoddisfazione umana.

Primeggia, per ruolo e storia, la Religione che, in tutte le sue forme ed espressioni, ha trasferito su un piano extra – fisico gran parte delle aspettative dei credenti.

Essa ha dato un senso e una direzione alle vite di miliardi di persone costruendo in ogni caso delle regole di azione e comportamento che, pur spesso sconfitte nel mondo materiale, trovavano successivamente giustificazione e premio.

La stessa funzione, per calar di livello, è stata svolta dalle Istituzioni come dalle strutture politiche e culturali.

Partiti, Sindacati e Associazioni hanno (almeno dal Settecento in poi) raccolto ed elaborato gli elementi di sconforto e ribellione presenti nella società per indirizzarli verso una prospettiva ritenuta migliore.

Le stesse differenze fra le valutazioni e le prospettive sono risultate preziose.

Negli anni ’50 e ’60 il Movimento Sociale e il Partito Comunista hanno svolto, contrapposti fra loro ma insieme, un prezioso lavoro a favore della giovanissima democrazia italiana.

Hanno portato a riconoscersi in essa milioni di italiani che guardavano in ben altre direzioni e si preparavano ad agire anche violentemente.

Che fossero quelli del “Ritorneremo!” graffiato sui muri di Salò o inneggiassero alla Guardia Rossa e al compagno Stalin poco importa, almeno dal punto di vista storico.

Nella stessa direzione hanno operato tutte le forme di rappresentanza e contrattualistica nate dal mondo del lavoro. Le Confederazioni Sindacali, come i Consigli di Fabbrica, hanno trasferito, talvolta anche con scontri duri, le insofferenze e le contraddizioni legate alla dialettica tra lavoratori e datori di lavoro su un piano formale che è la condizione per poter tentare di trovare soluzione equilibrate nel senso del bene comune.

Naturalmente, non tutto è andato bene e in tutti i casi una parte delle istanze è rimasta insoddisfatta o è stata costretta a mediare con altre opzioni.

Ciò che però oggi avviene in Italia è assai più grave.

Gli organi di rappresentanza (Partiti, Sindacati, Associazioni che siano) non dispongono più di una finalità da proporre e far condividere.

Hanno rinunciato a una prospettiva finalistica (giusta o sbagliata che potesse apparire) e con questo hanno smesso di svolgere la loro funzione democratica nell’interesse comune.

Così cresce l’estraneità collettiva alla politica e, di conseguenza, allo Stato.

Ma soprattutto così l’insoddisfazione tipica della specie umana si trasforma in rabbia individualizzata che si esprime nelle forme peggiori.

Molti anni fa, mentre cresceva l’ondata della contestazione giovanile, le due forze politiche che avrebbero potuto e dovuto raccoglierla e gestirla democraticamente decisero di non farlo.

Il PCI definì “oggettivamente fascisti” i movimenti studenteschi e l’MSI operò attivamente per punire i militanti di destra che vi partecipavano.

Passammo così dalla prima occupazione in cui io sedevo accanto al segretario del FUAN agli scontri successivi e al terrorismo sia rosso che nero.

Privati di una rappresentanza, ridotti al silenzio e alla inespressività migliaia e migliaia di giovani (di ogni colore) scelsero la via delle armi o almeno la fiancheggiarono.

Fu terribile e lo abbiamo superato all’italiana, senza capirlo.

Ma stavolta, se la politica non riprende il suo ruolo, potrebbe essere ben peggio.