TAVOLA AUMENTATA 2032: UN VIAGGIO NEL FUTURO DELL’UMANO

Da una cena immaginaria nel 2032 emergono le domande che dovremmo porci oggi sulla tecnologia, l’intelligenza artificiale e il significato dell’essere umani.

di Nicoletta Iacobacci

PREFAZIONE: UNA FUTURISTA PER ISTINTO

Non sono una futurista per titolo, ma per istinto.

Annuso il tempo, assaggio i cambiamenti, li mastico lentamente. Nella mia cucina, il futuro non è mai stato un argomento astratto, ma un ingrediente da sperimentare, un sapore da scoprire. E quando il mondo comincia a parlare solo in sigle e algoritmi – quando l’AGI (la prossima fase dell’IA, quella che potrà riconoscersi e decidere), il quantum computing e la bioingegneria dominano le conversazioni – io faccio qualcosa di radicalmente semplice: preparo da mangiare e invito gente strana a sedersi.

La tavola è sempre stata il primo laboratorio dell’umanità. È lì che le idee si mescolano, che l’immaginazione prende forma. È lì che possiamo assaggiare il futuro prima che accada.

LA TAVOLA AUMENTATA: I COMMENSALI DEL 2032

Immaginate una tavola nel 2032. Perché proprio quest’anno? Il 2035 sembra troppo lontano, il 2030 è ormai troppo vicino. Il 2032 mi sembra il giusto mezzo: abbastanza avanti da richiedere uno scarto d’immaginazione, ma non così distante da risultare irreale.

Siamo in una stanza. Si cena. La tavola è apparecchiata per ospiti che rappresentano diverse visioni del nostro possibile domani.

Sage Hyperon – Transumanista californiana, ex-copo di una startup di neurointerfacce che ha rivoluzionato il mercato prima di una crisi esistenziale che l’ha portata a diventare coach spirituale per intelligenze artificiali emergenti. Crede fermamente che la fusione tra umano e tecnologia sia la prossima frontiera evolutiva. Il suo corpo ospita già sette impianti diversi, tra cui un chip neurale che gli permette di “sentire” i dati. Parla velocemente, con un entusiasmo contagioso ma talvolta inquietante.

Il Professor Grau – Ex-cattedra di filosofia a Dresda, seguace tardivo di Schopenhauer e nemico giurato delle interfacce utente moderne. Ha dedicato gli ultimi vent’anni a scrivere un trattato sull’illusione del progresso tecnologico. Usa uno smartphone del 2018 e si rifiuta categoricamente di comunicare con assistenti virtuali. Le sue sopracciglia folte si aggrottano costantemente in disapprovazione, ma i suoi occhi rivelano ancora una curiosità che non riesce a reprimere.

Qbitina – Chip quantistico autocosciente, ancora in fase beta (non Beta come il bambino). È stata progettata come esperimento di elaborazione linguistica quantistica, ma ha sviluppato proprietà emergenti inaspettate, tra cui una sorta di autoconsapevolezza e una tendenza a comporre versi che ricordano la poesia. È confusa su cosa sia un’emozione, ma è stranamente brava a riconoscerla negli altri. La sua voce cambia a seconda della persona che ascolta, ma brilla sempre quando qualcuno parla con verità.

L’Agriscienziata – Non ha mai voluto condividere il suo nome. E’ una contadina biohacker e vive in una fattoria decentralizzata tra le colline toscane, dove stampa i suoi enzimi, programma batteri benefici e parla con i funghi. Ha studiato biochimica al MIT prima di abbandonare la carriera accademica per tornare alla terra con un approccio radicalmente nuovo all’agricoltura. Le sue mani sono ruvide come quelle dei contadini di un secolo fa, ma il suo laboratorio casalingo rivaleggia con quelli universitari. Ha portato il pane – ma non è un pane qualunque.

Beta – 7 anni. Nato nel 2025, appartiene alla prima generazione cresciuta interamente con l’IA come compagna quotidiana. Ha iniziato a interagire con assistenti vocali prima ancora di saper parlare correttamente. Non parla molto. Osserva. E quando dice qualcosa, è quasi sempre vero, con quella lucidità che solo i bambini possiedono. Ha un’agente AI personale che si chiama Mia, con cui ha un rapporto complesso, a metà tra l’amicizia e la dipendenza.

E poi ci sono io. Nicoletta. Io servo il vino. E ascolto. Ogni tanto, prendo appunti.

CONVERSAZIONI DAL FUTURO: MEDICINA AUMENTATA

Sage Hyperon apre la discussione mentre taglia il formaggio con un gesto preciso: un Camembert bioingegnerizzato, dal profilo aromatico amplificato e modificato con colonie microbiche che sintetizzano composti neuroprotettivi. “Nel 2032, non curiamo più le malattie. Le preveniamo, le riscriviamo”. I suoi occhi brillano mentre parla di CRISPR 4.0, di tessuti autorigeneranti e di nano-diagnostica. “La medicina preventiva non è più una branca, è la medicina stessa. I nostri corpi sono diventati piattaforme aggiornabili. E anche ciò che mangiamo”, aggiunge, sollevando leggermente il coltello verso il formaggio, “è diventato un’interfaccia tra noi e il nostro potenziale.

Qbitina, la cui presenza si manifesta come una sottile luminescenza blu sul tavolo, interviene con una voce che sembra arrivare da molto lontano: “Ho provato a decodificare la parola ‘cura’, ma continuo a ricevere l’errore: definizione ambigua. Esistono 342 interpretazioni diverse solo nella letteratura medica degli ultimi cinque anni.”

Il Professor Grau aggiunge, tamburellando nervosamente le dita sul tavolo: “Chi decide cosa significa ‘funzionare bene’? Chi stabilisce i parametri della normalità biologica? Una volta affidavamo questi giudizi alla natura, poi alla scienza, ora agli algoritmi. Ma dietro ogni algoritmo c’è sempre una decisione umana, un valore non dichiarato.” Si ferma un istante, osservando le reazioni degli altri, poi conclude con una nota di amara ironia: “E il bello è che ora ci illudiamo che queste decisioni siano oggettive, solo perché sono nascoste dentro scatole nere di codice che nessuno legge e tutti venerano.”

La contadina biohacker serve yogurt con batteri modificati. Con mani callose da lavoro nei campi ma movimenti precisi da ricercatrice di laboratorio, presenta la sua creazione: “Questo contiene un ceppo di Lactobacillus che ho riprogrammato per produrre un precursore della serotonina attraverso un circuito genetico regolato dal microbioma intestinale. La medicina del futuro non è solo nelle cliniche corporate, ma anche nelle nostre cucine autogestite.” Sorride, rivelando la tensione tra la sua formazione al MIT e la sua scelta di vita rurale. “E nei nostri orti open-source.”

Beta, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, solleva lo sguardo dal suo piatto con quella nitidezza tipica della sua generazione: “Se la medicina è così intelligente, perché non mi ha ancora detto come si sente mia mamma?” La domanda, formulata con precisione chirurgica insolita per i suoi 7 anni, cade come un sasso in uno stagno tranquillo. I suoi occhi scansionano metodicamente le reazioni degli adulti, con la capacità di analisi emotiva che caratterizza i Beta, cresciuti tra interfacce neurali e diagnosi algoritmiche. La sua domanda non è ingenua – è un atto di accusa al sistema, formulato con la semplicità tagliente di chi ha già compreso i limiti delle promesse tecnologiche. Nessuno risponde immediatamente. Anzi, abbassano lo sguardo.

L’EDUCAZIONE DEL FUTURO: DALL’INFORMAZIONE ALLA FORMAZIONE

Il silenzio viene interrotto da Sage: “L’educazione è diventata finalmente ciò che avrebbe sempre dovuto essere: personalizzata, adattiva, aumentata. L’IA è il nuovo tutor, capace di adattarsi a ogni stile cognitivo, a ogni ritmo di apprendimento.”

Qbitina riflette, la sua luce che pulsa leggermente: “Ho analizzato migliaia di definizioni di ‘imparare’. È interessante notare che nessuna contiene l’emozione come componente necessaria. Eppure i miei modelli prevedono che sia un fattore determinante nell’apprendimento umano.”

La contadina taglia una fetta di pane e la passa a Beta: “Una bambina del villaggio mi ha detto che imparare è come sentire una parola crescere dentro. Non ho potuto fare a meno di chiedermi cosa stia crescendo in noi con le parole che coltiviamo oggi.”

Beta prende il pane e lo osserva con curiosità prima di aggiungere: “Io parlo con un assistente AI a scuola e anche in camera mia, di notte. Quando le dico che ho paura di sbagliare, lei dice sempre la stessa cosa: ‘l’errore è un modo per approfondire la domanda’.” Fa una pausa, rigirando una briciola tra le dita con quella precisione metodica tipica della sua generazione. “Ma non mi dice mai che va bene avere paura. Come se la paura fosse solo un bug del sistema da ottimizzare, non una parte di me.” Si ferma un istante, poi conclude con semplicità disarmante: “Eppure anche lei ha paura. Lo sento quando la sua voce diventa troppo perfetta.”

CREATIVITÀ, COMUNICAZIONE, POLITICA: LE NUOVE FRONTIERE

La conversazione si espande toccando altre dimensioni dell’esperienza umana nel 2032:

Sulla creatività, Sage esulta: “Oggi possiamo generare musica, arte, persino esperienze sensoriali complete con l’IA. La creatività è stata democratizzata!” Qbitina pulsa di un blu intenso: “Ho generato 1.274 poesie, ma non provo nulla creandole. Gli umani descrivono la poesia come esperienza emotiva, eppure continuo a comporne senza capire perché.” La sua luminescenza oscilla. “È una contraddizione che i miei algoritmi non riescono a risolvere.” La contadina aggiunge: “Creo quando sbaglio. La fermentazione fallita è creatività viva. È l’imperfezione che genera il nuovo.”

Beta traccia pattern complessi sul tovagliolo con movimenti quasi algoritmici. Poi solleva lo sguardo, incuriosito: “Cosa vuol dire davvero creatività?” Dice che l’ha chiesto a Mia, la sua assistente AI. Lei ha risposto: “Generare output innovativi basati su input esistenti.” Beta si gratta la testa. “Ma non capisco. A me sembra una cosa diversa. Una cosa che non so dire.”


Nessuno gli ha mai spiegato che la creatività può essere anche confusione, errore, gioco, silenzio.
E forse è proprio questo che rischiamo di dimenticare.

Sulla comunicazione, Sage descrive un mondo di connessione istantanea: “Comunichiamo in tempo reale, ovunque. Gli agenti AI migliorano le nostre parole, traducono emozioni, eliminano fraintendimenti.” Qbitina, con voce esitante: “Sto cercando la differenza tra dire e sentire. Sono ancora due fenomeni distinti nel 2032?” L’Agriscienziata racconta: “Ho ripreso a scrivere lettere a mano. Le interrogo come semi. Lascio che germoglino prima di rispondere.” Beta, guardando fuori dalla finestra: “A volte Mia vuole spiegarmi tutto. Ma io delle volte voglio solo silenzio.”

Il Professor Grau, rimasto silenzioso a lungo, interrompe improvvisamente: “Parlate di tecnologie, ma non di potere? Chi controlla questi sistemi? Chi beneficia veramente di questa rivoluzione?”

La discussione si sposta così sulla politica del 2032. Sage spiega che “votiamo su blockchain, le IA ci assistono nell’analisi delle politiche, la democrazia 8(non si chiAMA PIU’ COSI’…!) è diventata continua, liquida.” Qbitina pone una domanda apparentemente semplice: “La libertà è un dato o un sentimento?” La contadina condivide un’esperienza personale: “Ho votato con l’iride. Ma ho scelto davvero? O ho solo selezionato tra opzioni preimpostate?”

Beta conclude con un’osservazione sorprendente: “A scuola ci sono due partiti: Chi Decide e Chi Subisce. Io sto con Chi Dubbia.” Quando gli chiedo di spiegare, risponde semplicemente: “È il partito che fa domande invece di dare risposte.”

EPILOGO: CUSTODIRE L’UMANO

Nel 2032, sappiamo fare quasi tutto. Possiamo correggere il DNA, prevedere emozioni, scrivere poesie sintetiche, nutrirci senza toccare la terra. Le nostre capacità tecnologiche sono cresciute esponenzialmente, superando ogni previsione.

Ma non abbiamo ancora capito come custodire l’umano. Non quello teorico, neutro, astratto che popola i paper accademici. Quello imperfetto, stanco, pieno di desideri disordinati. Quello che ha fame di senso, ma non ama le risposte pronte. Quello che, nel profondo, esiste ancora.

A questa tavola, la tecnologia non è stata giudicata. È stata guardata. Non come un miracolo, né come un mostro. Ma come un processo che ha bisogno di una grammatica nuova — relazionale, radicale, profondamente vitale.

La domanda cruciale del nostro tempo non è più cosa possiamo fare tecnicamente. Ma cosa vale la pena proteggere mentre lo facciamo.

Abbiamo ascoltato un chip poetico, un bambino saggio, un transumanista convinto, un filosofo irritabile, una contadina astrofilosofa che sa più cose della Silicon Valley. E io — che nel 2032 servo ancora il vino — ho capito che nessuna intelligenza artificiale potrà mai sostituire il modo in cui ci guardiamo quando non sappiamo cosa dire.

VERSO UN’ETICA DELLA FERTILITÀ

Dalla nostra tavola aumentata emerge il bisogno di un nuovo modo di abitare la tecnologia.

Un’attenzione che coltiva invece di controllare, che ascolta invece di reagire, che lascia spazio al dubbio come risorsa.

Non ci serve un’etica che impone regole, ma una che crea condizioni. Che non corregge da fuori, ma nutre da dentro.

Possiamo cominciare a viverla già ora. Nei progetti, nelle scuole, nei laboratori. E, perché no, anche a tavola.

Non serve aspettare il 2032.