di Franco Raimondo Barbabella
Il 18 e il 19 scorsi Orvieto ha ospitato l’assemblea annuale di “Libertà eguale”, l’associazione dei liberaldemocratici del PD, che ha in Enrico Morando e Stefano Ceccanti gli esponenti più noti. Ma ci sono anche Claudia Mancina, Giorgio Tonini, Michele Salvati, e ora anche Paolo Gentiloni. Era il 25° della fondazione, un quarto di secolo, che proprio Tonini qualche giorno prima su “Avvenire”, legando storia e presente, aveva definito “un’esperienza proficua di contaminazione fra culture diverse del centrosinistra”, aggiungendo subito dopo “ma a oggi è soprattutto un luogo di difesa della democrazia. Ed è un primo punto in comune con l’iniziativa di Milano”.
Ecco, Orvieto e Milano, libdem e cattolici, distinti ma non distanti, perché concordi per l’essenziale sia su alcune questioni rilevanti di contenuto e di metodo, sia sulla posizione politica di fondo: “siamo e restiamo riformisti di sinistra dentro il Pd”. Posizione dirimente questa, essendo le differenze di orientamento, cattolico e liberaldemocratico, non un ostacolo quanto piuttosto una risorsa da rendere utile nel dibattito interno al partito e poi nell’orientamento politico percettibile all’esterno più di quanto finora non sia potuto accadere.
“Siamo e restiamo riformisti di sinistra dentro il Pd” è stato ripetuto da tutti come un mantra, una convinzione il cui pieno significato possiamo forse rendere meglio con l’espressione “Extra Ecclesiam nulla salus” (fuori dalla Chiesa non c’è salvezza), un’antica espressione articolatasi nel corso del tempo in diversi modi, risalente però all’Antico e al Nuovo Testamento e giunta, passando attraverso il Catechismo del Concilio di Trento e il Sillabo, fino al Catechismo del 1992. A me pare che questa sia la cifra politica dell’assemblea di Orvieto, rafforzata dal clima di quella di Milano e dagli attestati di incoraggiamento espressi dal cardinale Matteo Maria Zuppi, Presidente della CEI.
Tutta l’impostazione del convegno, dalla relazione di base agli apporti tematici e alle conclusioni, fino al dialogo a distanza tra i due convegni, compresi i due interventi in collegamento diretto (da Orvieto Giorgio Tonini, da Milano Pierluigi Castagnetti), hanno risentito di questa scelta, peraltro preannunciata, come già detto. Non ne ha sofferto la qualità del dibattito, quanto piuttosto l’utilizzabilità politica di analisi in ogni caso e spesso molto centrate e stimolanti. In effetti, dalla relazione di Claudia Mancina all’intervista di Paolo Gentiloni, fino alle conclusioni di Enrico Morando passando attraverso numerosi interventi (ben 74 in un’assemblea di un centinaio di partecipanti), sono state dette cose importanti, direi senza esagerare la summa di un orientamento riformista nel panorama politico italiano ed europeo di oggi.
Senza pretese di completezza, se ne può tentare un cenno essenziale per intenderci sulla qualità di esse e la loro significatività nel contesto della sinistra e in particolare del Pd. Anzitutto, la preoccupazione per la crisi delle democrazie liberali per ragioni interne e sotto attacco esterno da parte delle autocrazie, oggi aggravata dall’arrivo di Donald Trump alla guida della prima potenza mondiale e dalle conseguenze che possono derivare dall’alleanza organica dei padroni delle “Big Tech” con la politica.
Collegata a questa, l’altra preoccupazione per le condizioni di una politica internazionale segnata soprattutto dall’attacco russo all’Ucraina e dalla tragedia del 7 ottobre, con la conseguente guerra di Gaza e quello che ne è seguito fino al Libano e alla Siria, rispetto alla quale non si vede una risposta dell’Europa all’altezza della sfida mentre si vede bene l’ambiguità in Italia di parti consistenti delle forze che si dichiarano progressiste, ambiguità divisiva e molto pericolosa quando varca i limiti della ragione e diventa perfino filo Putin e filo Hamas.
Ficcanti e operativi i richiami di Monica Tommasi, presidente di Amici della Terra, sull’importanza di un passaggio al nucleare di ultima generazione per non cadere nella trappola del green ridotto quasi esclusivamente a eolico e fotovoltaico, come se in questi settori non ci fosse inquinamento. Altrettanto interessanti gli interventi di Marco Bentivogli (Base Italia) e di Ivan Scalfarotto. Bentivogli ha bussato sui ritardi culturali e conseguenti svarioni politici sulle questioni del lavoro e dei salari: si dicono sfondoni colossali se si pensa che il salario minimo sia una risposta ai salari bassi; il salario minimo si occupa della questione del salario povero; la questione del salario basso ha invece a che fare con cose molto più complesse, la formazione, la dimensione delle imprese, l’innovazione, ecc.
Molto ficcante l’intervento di Scalfarotto, che ha dato lo svegliarino sulla necessità di riflettere sul populismo e sul silenzio dei riformisti: tra due forme di populismo il popolo vota l’originale. Non è di sinistra essere sempre sdraiati sulle posizioni delle procure come fa il PD. Non è di sinistra votare contro la separazione delle carriere; aver lasciato la difesa di Israele agli eredi di chi rastrellò il Ghetto di Roma è una vergogna che sta sulla coscienza nostra di gente di sinistra; quando rinunciamo come sinistra a difendere senza se e senza ma il diritto degli ucraini a scegliere il proprio futuro e a vivere in pace non siamo di sinistra. Non è di sinistra rinunciare all’energia nucleare dopo tanti anni da quel famoso referendum. Alla fine, ha concluso Scalfarotto, o come riformisti alziamo la testa e siamo noi che tiriamo la leadership della sinistra o questa sinistra è destinata sempre a perdere.
Non sono mancati altri stimoli, argomentazioni intelligenti e posizioni coraggiose sulle diverse questioni sollevate dalla ricca relazione di Claudia Mancina. Tra questi merita una citazione l’intervento di Claudio Martelli, che naturalmente non si è limitato ad apprezzare le cose dette da Mancina, ma ha introdotto considerazioni del tutto originali. Per esempio ha fatto notare che dopo anni in cui si è parlato di declino dell’Occidente, naufragio dell’ordine liberale e altre geremiadi, l’Occidente di fatto oggi attacca e almeno gli Stati Uniti appaiono rampanti e in ottima salute. Ci può non piacere, ma questo è. Non a caso gli USA investono centinaia e centinaia di miliardi in Intelligenza artificiale, e noi europei e noi italiani invece che cosa facciamo?
C’è anche un altro aspetto che dovrebbe interessarci, ha continuato Martelli. In Russia intorno a Putin dominano gli oligarchi, dirigenti provenienti da aziende di stato. Anche intorno a Trump dominano gli oligarchi, padroni di aziende non di stato ma che ormai sono loro stessi la politica e lo stato. In entrambi i casi scompare il mercato. La sinistra democratica dovrebbe riflettere sul fatto che per decenni si è lacerata inutilmente sul tema del conflitto tra stato e mercato. Questo conflitto non c’è più perché gli oligarchi sono ormai tutti aggrappati allo stato. Così la scena è dominata dal ritorno dei nazionalismi e aveva ragione Mitterand a dire che il nazionalismo prepara la guerra. Ne dovremmo trarre qualche indicazione sul tipo di politica che ci spetterebbe di fare.
Insomma, tanta carne al fuoco, analisi intelligenti, direi l’intero armamentario delle argomentazioni di una sinistra liberaldemocratica consapevole di rappresentare un pezzo del Paese che sa che il futuro si costruisce se non ci si lascia schiacciare sul presente dalle urgenze e si ha un pensiero capace di elaborare e di reggere nel tempo una strategia. E qui appunto sta il punto. Sta in quell’espressione “Extra Ecclesiam nulla salus” che fin dall’inizio ha costituito il mantra che ha legato a distanza i fili degli interventi di Orvieto con quelli di Milano, pur con differenze rilevanti di ispirazione e di clima culturale.
Difficile infatti pensare che l’appello al dialogo tra riformismi o in modo ancor più ficcante la proposta di federazione dei riformisti lanciata nei giorni scorsi da Enrico Morando possano rappresentare la svolta che ha chiesto Scalfarotto, quel “cari riformisti o alziamo la testa e guidiamo la leadership della sinistra o la sinistra è destinata a perdere”. E che sia così è dimostrato più da ciò che non si è detto, dalle titubanze e dalle reticenze, che da ciò che si è detto.
Non si è detto, se non per un cenno anche duro su Giuseppe Conte nella relazione di Claudia Mancina e per qualche citazione sporadica nel dibattito, del condizionamento che per le prospettive della capacità competitiva della sinistra riformista rappresenta oggi lo schiacciamento del PD su M5s e AVS. Anzi, del ruolo condizionante in particolare di AVS non si è proprio detto. Soprattutto, ovviamente, non si è parlato di bipolarismo, delle logiche di sistema che gli sono proprie e delle conseguenze bloccanti e depressive che ne derivano. È come se il bipolarismo, che nel caso italiano si connota quasi sempre come bipopulismo, debba essere considerato un sistema eterno ed eternamente immodificabile.
Anche chi non fosse d’accordo con la prospettiva di una forza riformatrice liberaldemocratica autonoma, capace di unire i riformisti di diversa ispirazione ideale e di chiudere le orecchie alle sirene dei poli in occasione delle prossime elezioni, da ultimo sostenuta da Paolo Mieli prima dei convegni di Orvieto e di Milano, anche costui/costei dovrà ammettere che la dichiarazione preventiva “Extra Ecclesiam nulla salus” è già di per sé una manifestazione di impotenza se non di resa incondizionata alla logica dell’avanzamento a piccoli passi, con paziente mediazione, moral suasion e qualche buona candidatura, per aumentare il consenso e avere più potere. O più semplicemente per partecipare alla fine della fiera ad una lotta sorda per la sostituzione di Elly Schlein.
Ma nel frattempo a che punto sarà arrivata la rivoluzione del mondo? Si perché, se non ce ne fossimo accorti, è in atto una rivoluzione del mondo. È stata appena registrata la notizia (la cui importanza evidentemente va collocata nel panorama geostrategico in forte cambiamento) che le “Big Tech” americane nei prossimi anni investiranno almeno mille miliardi di dollari in modernizzazione tecnologica e l’altra, più precisa, che viene costituta la nuova joint venture tra Oracle, Open AI e Softbank per realizzare il progetto “Stargate” da 500 miliardi di dollari, “il più grande progetto infrastrutturale di intelligenza artificiale della storia” come hanno detto alla presenza di Donald Trump i Ceo delle tre società promotrici, Larry Ellison, Sam Altman e Masayoshi Son.
Allora, forse converrebbe fermarsi un attimo a riflettere se non sia arrivato il momento di darsi una scossa e di vedere come darsela. Allargando però davvero lo sguardo all’Europa e al mondo e ascoltando qualche voce che ha il coraggio di non edulcorare la realtà e di metterci tutti di fronte alle nostre radicali responsabilità storiche. Ad esempio, quella del presidente polacco Donald Tusk, che mercoledì scorso ha concluso così il suo discorso di fronte al Parlamento europeo: “Non abbiate paura. Tutto si svolgerà nella vostra testa. Tutto si giocherà nei vostri cuori. Il futuro è davvero nelle nostre mani. Non è in mano cinese, né russa, né americana: è nelle nostre mani. Consegno questo cuore polacco, bianco e rosso a tutti voi, perché sono convinto che lavoreremo insieme per la grandezza dell’Europa. Si, l’Europa è stata, è e sarà sempre grande”.
Tusk ha detto anche che cosa bisogna fare per costruirla. E tutti noi sappiamo che la prospettiva è l’Europa federale, che la strategia di una svolta coraggiosa ma realistica l’hanno indicata Enrico Letta e Mario Draghi nei loro rapporti, che soprattutto è ormai ineludibile un livello superiore di unità per affrontare le sfide del mercato e la necessità di una difesa comune e di una politica finanziaria ed estera comune. Forse potrebbe essere utile che per una lotta politica in nome di questi obiettivi i riformisti dichiarassero che ci può essere salvezza anche fuori dalle chiese.