LA PERMACRISI DI BIANCANEVE: SCENARI E OBIETTIVI DI UNA STRATEGIA POLITICA NEURALE

di Michele Mezza

I brindisi con cui si è festeggiato nell’agosto scorso la crisi finanziaria dei titoli di big Tech che sembravano travolgere i mercati, spiegano bene per quale motivo il dominio dei monopoli digitali non trova alcun contrasto da parte di forze e culture che pure potrebbero condizionarne lo sviluppo.
La pervasività di tali trasformazioni non viene correttamente decifrata e tanto meno contrattata da forze che hanno alle spalle esperienze possenti di negoziazione sociali con precedenti modelli di capitalismo.
Sembra che perduri ancora la speranza in queste forze che prima o poi Biancaneve si svegli dal suo incubo computazionale e riprende a giocare nei prati con i sette nani che tornano dalla miniera.

In realtà quello che stiamo vivendo è la più persuasiva conferma del concetto di permacrisi che alla fine dello scorso anno il dizionario inglese Collins incorò come lemma dell’anno.
Permacrisi intende una fase di lungo periodo in cui ogni certezza diventa fragile e soprattutto ogni equilibrio viene costantemente superato ed insidiato dall’insorgere di scenari o innovazione che trasformano il sistema di convivenza globale.
Lo stato di quiete tecnologica che vide almeno un intero secolo trascorrere in un regolare progresso lineare di forme e contenuti della produzione che rimanevano saldamente ancorati ad un modello specifico, quel era appunto il capitalismo industriale, è oggi sostituito da una permanente frenesia, una sorta di epilessia continua dello sviluppo, in cui trimestralmente ormai si ricomincia da capo resettando assetti e modelli comportamentali alla luce di insorgenti innovazioni che mutano lo scenario.
Più che inseguire le diverse stelle dell’orsa forse sarebbe bene riflettere proprio su questo clima convulso che non consente di metabolizzare una singola innovazione, o di individuare una specifica tendenza.

Nei decenni passati abbiamo già conosciuto per rimanere nel recinto della comunicazione a noi più affine, innovazioni di processo, come il telegrafo o il telefono, oppure, recentemente, il passaggio dal caldo al freddo nella stampa dei giornali, o di prodotto, come la radio o la tv.
Ogni volta il sistema professionale ha trovato il modo di adattarsi, cambiando le qualità e le attitudini dei redattori o del sistema editoriale ma non mutandone ne la strategia e tanto meno le dinamiche.
Questa volta invece è mutata la natura dell’economia che sorregge e giustifica l’intero interscambio di informazioni fra gli esseri umani, e di conseguenza anche gerarchie e culture che determinano le forme dei poteri.

La novità si incastra in quel dualismo fra produzione ed estrazione di valore, descritto nitidamente da Mariana Mazzucato nei suoi due ultimi testi ( Valore di tutto, Laterza Editore, Bari, 2019; e Mission Economy: A Moonshot Guide to Changing Capitalism, Kindle edition ).
Si tratta di un’annosa questione che, non a caso, ha agitato da sempre il fronte degli oppositori del capitalismo nella ricerca di una correzione dello schematismo marxiano del plus valore: dove troviamo reale produzione e dove solo pura e parassitaria estrazione di valore ? Una distinzione che nei due secoli passati ha consumato intere generazioni di economisti.
La sensazione è in questa epoca di smaterializzazione dei processi economici e di centralità della personalizzazione nel mercato, le due fasi tendano ad intrecciarsi, apparendo inesorabilmente l’una la continuazione dell’altra.

Un’ibridazione che scompagina ulteriormente l’analisi dei processi innestati dall’azione del capitalismo della sorveglianza e rende sempre più evanescente e inafferrabile l’individuazione di quelle soggettività in grado di negoziare i passaggi nodali degli apparati capitalistici.
Questa forma di estrazione di valore mediante informazione ci spiega, anche grazie al ricordo di Schumpeter, perché non funziona più in nessuna parte del mondo la contrapposizione capitale/lavoro, e la spinta propulsiva del movimento del lavoro tenda ormai del tutto a svanire, lasciando il front e progressista spiantato e disorientato in un’agorà di forze tecnologiche e professionali del tutto sconosciute.
Non sono queste astrattezze ideologiche, ma concreti strumenti sociologici indispensabili proprio per affrontare questo nuovo mondo che si intravvede in fondo al tunnel, dove l’informazione è diventata fabbrica e i giornalisti sono i produttori.

Una società dove ci troveremo sempre più, nella gestione delle nostre relazioni, personali, economiche e anche militari, a faccia a faccia con l’esibizione di un potere cresciuto e radicato all’esterno di ogni reticolo istituzionale, non fondato ne su la forza e tanto meno sul consenso, quale è l’automazione guidata da un algoritmo ,che, come ci spiega Alexander Galloway è “ l’unica espressione umana che convertendo il significato in azione è inconsciamente eseguibile”.
Quell’avverbio, inconsciamente, riferito ad un ordinatore sociale, come è appunto l’algoritmo, ma lo stesso vale per un vaccino o per un farmaco in generale, o per un sistema d’arma automatico, al quale assegniamo anche la responsabilità della nostra sicurezza globale, è il nuovo terreno di conflitto sociale e mediazione politica: come rendere consapevole, critica e condivisibile questa potenza che agisce sulla nostra mente e sul nostro corpo? È questo il nodo da anni pende sulle nostre teste e sta schiacciando le forme di azione sociale del movimento del lavoro.

Con la sua consueta e accessibile lucidità, il premio Nobel dell’economia, Joseph Stiglitz nel suo testo Popolo,Potere e Profitti (Einaudi editore) esemplifica questa minaccia da parte dei controllori degli algoritmi di gestione dei big data scrivendo “Poiché l’intelligenza artificiale e i mega dati consentono alle aziende di stabilire qual è il valore che ciascun individuo attribuisce a diversi prodotti e che è quindi disposto a pagare, essi danno a queste aziende il potere di discriminare i prezzi , facendo pagare di più a quei consumatori che attribuiscono maggior valore al prodotto o che hanno meno opzioni. La discriminazione di prezzo non solo è scorretta, ma danneggia l’efficienza dell’economia”. Questa potenza eversiva che non è la tecnologia in se, ma la violenza con cui si concentra e si impone attraverso il monopolio in poche mani della magia predittiva, ci dà la misura di come l’informazione che abbiamo visto ne è vettore e strumento non possa più essere gestita, regolata e condotta solo nell’angusto e per altro del tutto impotente perimetro del sistema editoriale.

Se la notizia è una trivella che estrae valore mediante una permanente risonanza magnetica a cui si sottopone ogni utente non possiamo non capire che ogni soggetto di questo ambiente, di questa infosfera debba qualificarsi e accreditarsi mediante la consapevolezza che matura nell’azione degli algoritmi e la sua capacità di neutralizzare l’ambizione di dominio dei proprietari delle tecnologie.
Ma questo processo di trasformazione sta investendo anche funzioni di base , che identificano la stessa diversità della nostra specie umana.
Penso proprio ai meccanismi che guidano la formazione di senso in ognuno di noi, meccanismi composti da un’influenza ambientale, trasmessi da un’ereditarietà genetica, e invece comportamenti quali l’apprendimento artigianale, basato sulla lettura e la trasmissione di informazioni.

Ogni lettore quando legge è il lettore di se stesso, scriveva Marcel Proust. Intendeva che è la personalità di chi legge che da senso al testo che sta leggendo.
Oggi potremmo in realtà scorgere in quell’intuizioni una delle tanti predizioni di quanto ci sta accadendo in questi tempi di trasformazioni tecnologiche.
Oggi potremmo in realtà aggiornare l’aforisma di Proust con una diversa formulazione : ogni lettore quando legge è sempre il lettore delle proprie protesi automatiche.
Mi riferisco a quell’ormai mutabile e intrusivo corredo di apparati che tendono a scambiare l’aumentata capacità dei nostri sensi con una strutturale delega ai proprietari dei sistemi delle dotazioni etiche e semantiche.
I sistemi che oggi, per riferirci solamente alle app più elementari , traducono, sintetizzano e commentano i capitoli di un libro sono veri e propri mediatori che si interpongono fra noi e i contenuti facilitandocene l’accesso al prezzo di limitare il nostro libero arbitrio.

Come conciliare quantità di consumi culturali con autonomia di giudizio? É il tema di un nuova cultura politica e non certo la premessa di una resa dinanzi al gigantismo tecnologico.
Anche perché le contraddizioni non mancano.
Sempre per tornare all’agosto scorso, la sentenza di condanna di Google per violazione della normativa anti trust da parte di un giudice americano che ha accolto il ricorso di diversi stati dell’Unione contro Big G ci indica come, persino nel tempio del liberismo, cresca l’attrito fra l’espansione di questi apparati digitali e le ambizioni di una moltitudine di società e professionisti che pretendono di poter competere autonomamente sul mercato, fuori dai recinti dei monopoli.

Una contraddizione che sembra spingere un altro gigante a fare i conti con i lillupuziani. Il gruppo Meta, proprietario di Facebook, ha appena presentato un nuovo LLM (Large language Model) la base di modelli di intelligenza artificiale, addestrato con più di 400 miliardi di parametri semantici.Una quantità economicamente insostenibile anche per i grassi profitti che continuano a realizzare i grandi brand della Silicon valley. L’obbiettivo è stato perseguito grazie al ricorso all’Open Source, un sistema di lazoro collaborativo in rete, a cui hanno partecipato decine di migliaia di informatici, in cambio del libero accesso al codice sorgente del sistema. Una strategia che renderebbe proprio l’Europa un competitore alternativo al modello di business privatistico americano o cinese.

La combinazione della permacrisi economica e industriale di cui abbiamo parlato prima, con una silenziosa ma pervasiva azione di riprogrammazione di quell’architettura del nostro cervello che per 6 milioni di anni ha guidato l’evoluzione darwiniana è il cuore della fase storica che stiamo attraversando, è oggi il tema che dovrebbe sollecitare la politica, in particolare le forze progressiste. Si tratta di parlare a masse di miliardi di persone che si sentono incluse nello spazio pubblico solo in virtù di quei dispositivi che poi li condizionano.
Al centro della contesa è oggi il cervello, quel sistema di attivizzazione di 80 miliardi di neuroni che mediante connessioni chimico fisiche generano il pensiero
Se non per mantenere libero questo motore di libertà per cosa altro impegnarsi?