di Salvatore Sechi
L’identità del “socialismo di sinistra” non è semplice né per quanto riguarda lo spazio temporale in cui fu presente nè il contenuto, cioè le tematiche.
Uno dei maggiori studiosi del fenomeno, ha provveduto a distinguere il ”socialismo di sinistra” dalla “sinistra socialista” e dalle sue diverse successive incarnazioni (la corrente interna del Psi, il Psiup, e le molte frantumazioni).1
Ebbe, però, un limite che la mitizzazione – ad opera di molti e per fini diversi (e anche opposti) – non è riuscita a rimuovere. Intendo dire che il socialismo di sinistra in primo luogo non fu concepito dai comunisti (nella sua nascita non ebbero nessun ruolo, nella sua maturità cercarono di servirsene) e, in secondo luogo, quando venne fatto proprio, e rimesso in circolo (proprio da Palmiro Togliatti dopo la crisi sovietica del 1956 fino a Enrico Berlinguer e Achille Occhetto), si può dire avesse cambiato natura.
Si è cioè trattato di un’altra cosa rispetto all’identificazione spicciativa “nel socialismo del Comin form e della guerra fredda”, quasi fosse liquidabile quale “parente povero della strategia comunista”.2
Non a torto Stefano Merli rilevò che il socialismo di sinistra non aveva ancora trovato il suo storico, e neanche chi lo avesse rimosso dalla sua servitù.
Essa, alla fine, è consistita nell’azzeramento dei caratteri del lungo contenzioso, quando dai comunisti lo si è voluto chiamare “terza via”. La nuova confezione ha preso mosse e distanze dal comunismo e dalla social democrazia, ma soprattutto a quest’ultima vennero assestati fendenti di ogni misura.
Spunti di originalità, rubricabili come socialismo di sinistra, c’erano stati negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta. L’esponente socialista, allora di Siena, Luciano della Mea,3 li ha inventariati cogliendoli nella vecchia e nella nuova sinistra, politica e sindacale, nelle rivendi cazioni di democrazia diretta e di eguaglianza nei luoghi di lavoro e più in generale nella società, nell’estensione del dominio capitalistico dalla fabbrica alla stessa organizzazione sociale, nell’utopia “riformistica” della programmazione democratica del primo centro-sinistra (Riccardo Lombardi, Antonio Giolitti, Lelio Basso, Giorgio Ruffolo ) ecc.
Nella formulazione che ne diede Achille Occhetto con la proposta dell’unità della sinistra in una nuova casa comune corrispondeva ad un progetto in cui a non cambiare nulla era proprio l’asse portante. Il pilone della nuova politica, infatti, avrebbe dovuto essere non dissimile dal socialismo integrale di Otto Bauer4 o da una sorta di infuso delle posizioni di lui, Rudolf Hilferding, Pietro Nenni e Rodolfo Morandi.
Una decina di anni prima Togliatti non aveva esitato a liquidare il socialismo di sinistra spavaldamente, come cioè un esempio di complicità col fascismo o di “fascismo dissidente”.
Occhetto non ha ritenuto di doverlo rievocare, pensando di andare oltre una replica infelice, ma vale la pena di rileggerlo. Mi servo delle parole dello stesso Togliatti, che lo illustrò molto bene, da par suo.
Si prodigò ancora una volta nel ridurre l’inconciliabilità ideologica e la prassi politica fra il socialismo democrati e il comunismo al ridicolo. Di qui l’apologia del dispotismo sovietico nella forma aulica di un cantiere aperto sulla strada del socialismo in costruzione: “teorici della social democrazia(.…)specialisti nel denunciare e respingere quelli che essi chiamavano la degenerazione ‘asiatica’, ’russa’, del marxismo, pur dichiarando di accettare il concetto di dittatura proletaria. (…) La politica di questi uomini, i quali dicevano di essere i depositari e gli interpreti del marxismo genuino, ‘europeo’, non contaminato dalle ‘particolarità’ russe, dove ha portato il proletariato? Lo ha portato al fascismo! E le ‘particolarità’ russe,-cioè la giusta interpretazione e applicazione marxista e bolscevica del concetto di dittatura proletaria-a che cosa ha portato? Hanno portato a distruggere ogni possibilità di fascismo, hanno portato alle vittorie grandiose del socialismo in Urss.
Coloro che sostengono -come noi sosteniamo- che bisogna in tutto il mondo bolscevizzare il movimento operaio e lottare per la dittatura proletaria come in Russia, vogliono che, seguendo la strada tracciata dalle vittorie del socialismo nell’Urss il proletariato marci allo schiacciamento del fascismo e alla propria vittoria in tutto il mondo. Vi è qualcuno che abbia il coraggio di sostenere che, invece di far questo, è necessari o trasportare nell’Urss le esperienze dell’ ‘onesta’ democrazia ‘occidentale’, mandare il proletariato dell’Urss alla scuola della politica socialdemocratica tedesca, austriaca, inglese, alla scuola di Rudolf Hilferding e di Otto Bauer? E vi è qualcuno che non comprenda ancora che dire una cosa simile non significa né più né meno che asserire che anche nell’Urss bisognerebbe aprire la strada all’avanzata del fascismo?”5
Occhetto è sembrato più generoso e pregnante. Rimise, infatti, sul mercato politico il socialismo di sinistra con una proposta originale. Era quella di unire in una casa comune e in una sintesi superiore due pulsioni \obiettivo: le procedure e i valori del pluralismo propri della concezione democratica del socialismo con i valori dell’eguaglianza propri del comunismo, o, detto diversamente, le riforme che furono proprie della cultura di governo delle socialdemocrazie con la rivoluzione ideata e messa a regime dal comunismo sovietico. Era l’anticipo del programma del Psiup. Finito nelle spire del burocratismo filo-sovietico e del flusso mensile dei rubli.
A parte l’ovvia (per lui, ma per niente per gli alleati) considerazione che questo processo di rigenerazione doveva essere a guida, a egida comunista, l’obiezione che aveva senso muovergli era anche un’altra, e assai tagliente, cioè che il baluardo della rivoluzione, l’avvio a compimento dell’eguaglianza attribuito alla costruzione in corso in Unione sovietica, era uno scenario inventato.
Stefano Merli (che mi piace evocare per la sua tenacia e rigore analitico) lo ha bollato come un miraggio di pura e semplice cartapesta. Come dire che l’eguaglianza (il principio per cui, insieme alla libertà, il bolscevismo aveva conquistato il consesso-giacobinamente- dei cittadini) nella Russia sovietica non esisteva proprio.
Nel dibattito sui temi al centro del convegno del 1935 a Parigi6 non solo Gaetano Salvemini e Carlo Rosselli (en trambi presenti), ma anche Andrea Caffi e Franco Venturi, per conto del nuovo movimento liberal-socialista di Giustizia e Libertà, insieme(dal fondo di un carcere) a un intellettuale e dirigente politico bolscevico come Vic tor Serge avevano rappresentato la rivoluzione sovietica per quel che era e si voleva nascondere: un totalitarismo di sinistra, in cui a dominare era la prassi sistematica del terrorismo. Ed era moneta corrente un giudizio che Franco Venturi-anticipando le analisi di Luciano Pellicani-faceva discendere dal marxismo, vale a dire che, insieme a quella sovietica, anche il fascismo e il nazismo erano delle rivoluzioni nate dallo stesso ceppo ideologico.7
Serge riteneva a dir poco bizzarro, se non contraddittorio e pericolosissimo, che per neutralizzare o arginare l’estensione in Europa della macchia delle rivoluzioni “nere” si volesse cercare appoggio\alleanza in una rivoluzione “rossa”. Per quanto di sinistra era, a suo avviso, altrettanto violenta e anti-democratica di quelle esecrate di estrema destra. Fu l’opzione per un iter (diventato assai lungo) fondato sull’unità delle sinistre in funzione antifascista a privare il socialismo di sinistra di ogni credibilità. Furono cioè la partecipazione dell’Urss alla difesa del governo repubblicano spagnolo assalito dalle truppe di Francisco Franco, e la creazione dei fronti popolari (a cominciare da quello francese) a rendere stabile, non provvisoria, la collaborazione tra socialisti e comunisti.
Mancò allora l’iniziativa e l’interesse a fare presente, ed enfatizzare, che la loro unità era da ritenersi parziale. Vale a dire limitata rigorosamente ad alcuni aspetti del programma, oltre i quali cessava di esserci qualunque convergenza tra i due partiti.
Andava sancita allora, e una volta per sempre, l’esistenza, e il carattere insuperabile, cioè strategico, della grande differenza tra chi (come i socialisti) credevano nella costruzione del socialismo esclusivamente sulla base del consenso (e della sua possibile revoca), e chi, invece (come i comunisti) alla ricerca del consenso della maggioranza anteponevano la soluzione giacobina. Il che significava il primato della minoranza determinata, coraggiosa, e anche armata. Insieme ad essa la volontà-da non rendere esplicita affidandola a un documento pubblico- di non rinunciare, per questioni di voti, al potere conquistato. Già negli anni Trenta, dunque, si trattava di ribadire le forti differenze (certamente non sconosciute a Nenni e a Togliatti) sul carattere di forte omologazione, fino alla convergenza, della rivoluzione fascista e nazista, da un lato, e di quella comunista dall’altro. Il che implicava un diverso ed opposto approccio ai temi della libertà, del pluralismo, della costante verifica del consenso popolare, del rispetto della sua revocabilità ecc.
Questa è la ragione per cui i socialisti in una situazione estremamente difficile dovuta alla necessità di estendere l’area del consenso all’anti-fascismo, non se la sentirono di fare quel che fecero gli esponenti di Giustizia e Libertà. E finirono scandalosamente per identificare come anti-fascista un regime come quello sovietico.
A rimettere le cose in ordine ci pensarono gli stessi Hitler e Stalin. Nel 1939 ripagarono la fiducia riposta nelle loro dittature con la stipula di un patto di non aggressione e di spartizione (della Polonia e degli Stati sul Baltico).8
Molti degli esponenti del socialismo di sinistra, come emerge dal brano prima citato di Togliatti, avevano condiviso il “concetto” di dittatura proletaria o si erano riconosciuti in singoli aspetti di essa. L’allineamento e la subordinazione del ceto dei colti alla politica, cioè ad un potere autoritario di sinistra, aveva mosso i primi passi in un percorso che arriva fino ad oggi.
Né durante la guerra di liberazione col supporto del movimento partigiano nè nel 1945-1946 si riuscì a ricom porre a unità l’elaborazione politica di Nenni, Basso, Morandi, Lombardi Prevalsero reticenze omissioni e silenzi che portarono a un duplice scacco politico e ideale.
Con le elezioni del 18 aprile 1948, il grande successo della Dc sbarrò la strada all’ascesa al potere della sinistra che si era presentata unita (e addirittura con un cappio al collo dei socialisti, cioè il patto di unità d’azione col Pci). Per il socialismo di sinistra fu una grande opportunità perduta. Ma il venir meno, fino alla disfatta, della sua riconoscibilità come forza autonoma della sinistra inaugurò un ripensamento.
Dai Diari risultano i dubbi espressi da Nenni. Sia perchè essi cominciarono a fluire in superficie e sia perché si percepisce una sorta di un rimorso per i prezzi elevati già pagati alla scelta unitaria con i comunisti (tra cui il non avere evitato, nel 1947, la scissione di Palazzo Barberini vale a dire la scissione di Giuseppe Saragat e la nascita del Psdi).
Precisa è l’annotazione di Nenni, cioè che “sotto bandiera, direzione o ispirazione comunista (apparente o reale poco importa) non si vince in Occidente. Possono Togliatti e gli altri dirigenti comunisti non prendere atto di questa situazione?”.
Con tale sentimento, la prospettiva del socialismo di sinistra di chiudere la rottura del 1921, unificare la classe operaia e portarla al potere democraticamente, dovette arrendersi alla diversa illusione (e orgogliosa presunzione) del segretario del Pci Togliatti.
Egli volle subire alacremente il ricorso al potere di intimidazione e di influenza della soluzione militare che Stalin minacciava di avviare (e in parte aveva già iniziato) nei paesi dell’Europa orientale. Sugli eventi della conquista di questo grande territorio, i socialisti cedettero il passo ad un grande isolamento. Lo si può misurare quando furono costretti ad affidare la propria sopravvivenza ad un’azione subalterna come il doversi accovacciare nelle spire del sub-comunismo o del sub-stalinismo. Ne furono protagonisti leaders di correnti politiche diverse come quelli che occuparono la segreteria del Psi. Dalla triade Lombardi-Jacometti-Foa al binomio Nenni -Morandi.9
Non saprei datare la fine dalla politica unitaria, ma penso sia avvenuta prima del rapporto Kruscev. Certamente Morandi aveva marcato le distanze dal marxismo-leninismo e giunse a rivalutare la stessa tradizione riformista del socialismo.
Nenni fu costretto ad ammettere: “la sintesi che cercavamo delle due esperienze, la socialista e la comunista, non l’abbiamo trovata, e tra il 1955 e il ‘56 abbiamo battuto il muso contro le contraddizioni che credevamo di avere risolto”.(cfr. Diari)
ll punto è la presa d’atto di un grande fallimento, vale a dire che la politica unitaria non era servita ad altro che da correttivo alla politica del Pci. Fu la ragione non ultima, ma fondamentale per cui il Psi decise di affrontare il mare aperto, con una navigazione propria, tutta interna alla sua storia. Quindi il socialismo di sinistra diventa sinistra socialista, vale a dire-come hanno puntualizzato Mangano e Merli- “una corrente interna e poi esterna al socialismo italiano che ha il punto di riferimento polemico e distruttivo nel Psi e il punto di riferimento positivo nel Pci, rispetto al quale rappresenta un’appendice sempre meno creativa, sempre più subalterna ed eterodiretta, fino a scomparire formalmente come Psiup e più recentemente come Sinistra indipendente.”10
Come mai, durante il governo di centro-sinistra e negli Esecutivi guidati da Bettino Craxi e Giuliano Amato il socialismo di sinistra non ha avuto un grande ruolo?
Anche il robusto e ambizioso disegno liberal-socialista di Giuliano Amato (e de i Craxi) fu un’occasione mancata. Ma la ragione dovrebbe essere ricercata nel fatto che il riformismo del centro-sinistra fu osteggiato dai comunisti e quindi non potè contare su un grande sostegno sociale, una mobilitazione di massa. In secondo luogo, perché si spezzò anche temporalmente in due tronconi.
Nel primo ebbe come riferimento i ministri Giolitti e Lombardi e prese di mira una riforma del capitalismo mediante uno schema di pianificazione. Entrambi i ministri socialisti si resero conto che essa non era una camicia di forza per il sistema produttivo, ma un bisogno vitale, determinata dai cambiamenti avvenuti nel suo funzionamento e nel mercato,11 anche se poteva dirsi che non era mai stata tentata nella storia italiana.12
Nel secondo ebbe per riferimento l’ampio progetto di riforma istituzionale ed elettorale elaborato da Giuliano Amato.
Essendo stati portati avanti disgiuntamente e in periodi diversi, molto distanti l’uno dall’altro finirono per perdere gran parte della loro possibile e auspicabile efficacia.
L’esito è stato una riduzione di peso e vigore per il governo Craxi. Alla fine, esaurito l’eco avuta sulla stampa dall’importante referendum sulla scala mobile in cui il Pci venne battuto dai lavoratori di ogni categoria, ha potuto gestire-mentre collaborava con la Dc-solo la sua sopravvivenza e rinunciare ad ogni vigorosa azione riformatrice.
Era un esito in un certo senso atteso. Norberto Bobbio aveva tempestivamente precisato che il ridotto peculio elettorale del Psi (oscillante tra il 9 e l’11%) non lo candidava neanche ad essere il classico partito medio indispensabile ad assicurare la governabilità, sia con la Dc sia col Pci. Come poteva Craxi illudersi di dare le carte e dirigere il gioco, dal momento che in nessuno dei due poli in cui era costretto ad operare disponeva della maggioranza relativa necessaria?
Il ruolo del Psi è stato quello del partito che proveniva da una grande tradizione, aveva cercato di trasformare le plebi in cittadini protagonisti, ma di dimensioni troppo modeste per poter essere l’epicentro di una maggioranza, con la Dc o col Pci. Di qui la coabitazione con entrambi con una preferenza non di rado per il partito dei cattolici. In coerenza, occorre precisare, con un minore interesse per la costruzione di una prospettiva di alternativa di sinistra. A sostenerla in grande solitudine era stato, invece, l’esponente della sinistra autonomista del partito, Riccardo Lombardi.13
L’ipotesi del socialismo alla Vittorio Foa
Vista la fine (da ruota di scorta di Dc e Pci), mi pare sia più realistico parlare, di una reinvenzione della sinistra socialista in un terreno più suo proprio, che va oltre il consiliarismo. Il riferimento non è più a Nenni e a Morandi, ma un grande leader della Cgil che ha sempre avuto un impareggiabile sensibilità e interesse- non occasionale né superficiale-per la storia- come, Vittorio Foa.
Il carattere nuovo del capitalismo nazionale e internazionale lo inducono a ripristinare una lettura dei bisogni, delle forme di lotta e di organizzazione della politica operaia. Sono quelle del passato, addirittura meno prossimo, ossia delle origini stesse del movimento operaio. Centrale diventa l’autonomia del lavoro, l’attenzione ai tempi e alle condizioni in cui esso si svolgeva.
In Foa è venuta maturando la coscienza che il reticolato dei poteri parlamentari, la natura e il funzionamento, cioè, le forme dei partiti di sinistra e dello stesso sindacato dovessero essere interamente ripensati.
In questo contesto andavano assunte come inevitabili anche le differenze, che sarebbe corretto chiamare vere e proprie lotte, in seno alla stessa classe operaia.
Su questo progetto di ammodernamento radicale del socialismo finisce per trasparire una proposta originale, cioè il socialismo deve essere una costruzione molecolare, interna al lavoro quotidiano, alla fatica, alle molte forme di sfruttamento dei lavoratori. Non nasce in parlamento e non può essere fornita né dalle istituzioni dello Stato né dalle formazioni politiche.
Siamo in presenza di una svolta radicale, a tutto campo, di un esponente socialista, che ha sempre considerato l’approssimazione al governo del Psi quasi un’avventura, un passaggio rischioso, possibilmente da evitare.
Libero da ogni dovere di rappresentanza in parlamento come ormai anche nel sindacato, Foa14 tornava a insistere sulla necessità di superare «modelli antiquati, logori, come il modello staliniano che identifica la lotta sociale con la fedeltà a uno Stato, l’area della lotta nella società con i rapporti interstatali».
In questo secondo aspetto egli colloca il delinearsi di una seria crisi e politica economica quando le rivendicazioni e le lotte non sono facilmente assorbibili o trasferibili da parte dei capitalisti sui prezzi o sulla intensità del lavoro.
Esclude che il terreno su cui la risposta va data non sia quella dei paesi del patto di Varsavia nè del castrismo. C’è, invece, il recupero della centralità dell’Europa occidentale, dove il capitalismo si era internazionalizzato, governi, mercati e finanza concertavano le proprie azioni, scaricando le contraddizioni sulla classe operaia. Bisogna va, quindi, prendere un’iniziativa a livello internazionale «verso tutte le altre forme di sinistra operaia, indipendentemente dai loro orientamenti più o meno riformisti, un’iniziativa per una consultazione sui cosiddetti problemi della congiuntura, che poi non sono affatto di congiuntura, ma sono nient’altro che il modo di vivere e di essere dello sfruttamento capitalistico a livello nazionale e internazionale».15
Con le elezioni politiche del 1972 e il quarto congresso nazionale del Psiup (tenutosi a Roma dal 18 al 21 luglio 1972), Foa non solo evita di aderire al Pci (anche perché lo vede impegnato nel “compromesso storico”), ma proclama la sfiducia crescente nella capacità degli istituti della democrazia parlamentare di poter garantire e difendere gli interessi della classe operaia.
Dopo la fine del comunismo e la crisi della social democrazia, l’unico socialismo possibile gli appare quello libertario. Ripristino, dunque, di democrazia e redistribuzione dei redditi? Certamente, ma a condizione di porre al centro del quadro «l’autonomia del lavoro, l’auto-determinazione del lavoratore, la sua possibilità di intervenire sul suo lavoro, sulla sua vita».16
Secondo Foa, è da una visione semplificata rispetto alla realtà che il socialismo nella sua dottrina prevalente e più matura avrebbe tratto l’idea di un processo ineluttabile. In grazia del quale la sostituzione del lavoro artigiano (urba no o rurale) avrebbe portato a uno scontro finale fra le classi e quindi alla fine della divisione sociale del lavoro fra le classi.
In lui si riaffaccia una diversa interpretazione. La divisione reale, storica, della classe operaia, deve essere un punto di partenza per l’analisi delle difficoltà e anche delle sconfitte delle idee socialiste. La vicenda della lotta fra le classi non sono unilineari, sono piene di passi indietro, anche regressioni e rotture.17
Di qui anche l’attenzione sul valore “ritrovato” del tempo, sulla necessità di riappropriarsene, anche in una dimensione di lavoro libero e creativo, «una utopia però strettamente collegata con un’analisi sociale concreta».18
Affondano qui le radici della resistenza intelligente, non chiusa e settaria, all’estremismo (anche dei Quaderni rossi da lui allevati, se non legittimati). Forse era tornata la consapevolezza che il capitalismo confermava la sua caducità (cioè il suo carattere storicamente determinato). Ma essa, come insinuò con qualche sarcasmo Giorgio Ruffolo, era misurabile su una scala temporale di diversi secoli ancora.
Il nuovo, originale approccio di Foa trova un riferimento indiretto, ma assai significativo nell’elaborazione di Gianni Bosio. In lui dopo il 1956 e la crisi della centralità dello Stato-guida sovietico non ci furono le inquietudini di Rodolfo Morandi e del morandismo fino a Raniero Panzieri.
Bosio ebbe il coraggio di andare oltre lo Stato e il partito, oltre Lenin e il leninismo. Addirittura si inerpicò su un sentiero addirittura precedente a Lenin. Non cercò mediazioni o conciliazioni tra comunismo e socialdemocrazia.
La via adeguata, se non giusta, viene individuata nella tradizione del movimento operaio prefascista e quindi nella democrazia di base.
Qui siamo lontani sia dal consiliarismo sia dall’operaismo e più prossimi, invece, al socialismo utopista pre-marxista.
Esso trovò una ripresa nelle ricerche sulle culture delle classi subalterne che negli anni Sessanta furono al centro delle attività di Bosio sul Nuovo Canzoniere Italiano e dell’Istituto Ernesto De Martino.
Dunque un ritorno e anche un esplicito culto dei protagonisti sociali elementari, più comuni e quindi una prospettiva dal basso, quella che Foa prefigura. Non era il preannuncio dell’eversione anti-statualistica, ma semplicemente indifferenza per lo Stato, ma il disegno di essere non antagonistici(cioè contro gli apparati istituzionali del potere storicamente consolidato), ma al di fuori di esso.19
- Si vedano il saggio introduttivo di Stefano Merli al volume di Raniero Panzieri, Dopo Stalin.Una stagione della sinistra 1956-1959, Marsilio, Venezia 1986 e quelli di Giampiero Mughini,II revisionismo socialista, nuova serie Mondo Operaio, Roma 1975 e Fabrizio Cicchito, La questione socialista dall’autunno caldo all’alternativa, Marsilio, Padova 1976 ↩︎
- Ibidem ↩︎
- Si veda la sua prefazione, Una proposta per non dimenticare, al fascicolo 11-12 de “Il Ponte”, 1989,intitolato Viva il socialismo! Contributi al socialismo di sinistra. ↩︎
- Rimando alla ricostruzione del suo pensiero ad opera di Claudio Natoli, L’influenza dell’au stro-marxismo nel rinnovamento del socialismo italiano negli anni venti e trenta,“Il Ponte”, no vembre-dicembre 1989,pp.35-70.Sul piano teorico la riflessione più compiuta la si deve a Giacomo Marramao, L’austro-marxismo e il socialismo di sinistra fra le due guerre. La Pietra,Milano 1977 e ad un ampio successivo aggiornamenti di questo saggio pubblicato nella Storia del marxismo, Einaudi, Torino 1982. ↩︎
- Riprendo la citazione di un testo di Togliatti da Attilio Mangano e Stefano Meri, Ripensando la politica unitaria. Lettera aperta a Luciano della Me a, “Il Ponte” cit., pp. 23-24. ↩︎
- Si veda l’attenta e importante ricostruzione curata da Sandra Teroni, Per la difesa della cultura. Scrittori a Parigi nel 1935, Carocci, Roma 2002. ↩︎
- Si veda Franco Venturi, Comunismo e socialismo. Storia di un’idea,a cura di Manuela Alber tone, Daniela Steila , Edoardo Tortarolo, Antonello Venturi, Università degli Studi di Torino, 2014. ↩︎
- Essenziale è il saggio di Antonella Salomoni., Il protocollo segreto. Il patto Molotov-Ribbentrop e la falsificazione della storia., Il Mulino, Bologna 2022 ↩︎
- Cfr. la ricostruzione di Giovanni Scirocco, Politique d’abord. Il Psi, la guerra fredda e la politica internazionale 1948-1957, Edizioni Unicopli, Milano 2010. ↩︎
- Attilio Mangano e Stefano Merli, Risposta a Luciano della Mea ecc., cit., p. 27 ↩︎
- Lombardi l’ha chiarito in uno dei suoi ultimi discorsi, a Piacenza, Per una società diversamente ricca, Torino 1 maggio 1967, ora in Riccardo Lombardi, Tre interventi per tre stagioni. Dall’azionismo al socialismo critico/1943-1981), introduzione e cura di Jacopo Perazzoli e Giovanni Scirocco, postfazione di Paolo Bagnoli, Biblion, Milano 2024 ↩︎
- Ibidem ↩︎
- Si veda Andrea Spiri, La svolta socialista: il Psi e la leadership di Craxi dal Midas a Palermo 1976-1981,Rubbettino, Soveria Mannelli 1980. ↩︎
- Una lettura essenziale sono i saggi di Andrea Graziosi, Vittorio Foa e la sinistra italiana, 1933-2008,” Il mestiere di storico. IV/1 • 2012, e Giovanni Scirocco, Tra realtà e utopia: il socialismo di Vittorio Foa, ”Rivista Storica del socialismo”, 2020, n.1. ↩︎
- Cfr. 2° Congresso nazionale del PSIUP: unità della sinistra per una alternativa al centro-sinistra e per un nuovo internazionalismo proletario, Napoli, 18-21 dicembre 1968, Edizioni del Gallo, Milano 1969, pp. 268-271. ↩︎
- Socialismo e autonomia, conversazione di Pino Ferraris con Vittorio Foa in Parolechiave, n. 14-15, dicembre 1997, pp. 19-21. ↩︎
- Ivi, p. 30. ↩︎
- Ivi, p. 20. ↩︎
- S.Merli, L’altra storia, Feltrinelli, Milano 1977, p.16. ↩︎