di Aldo Di Russo
Nel dibattito sul ruolo e sulle prospettive del nostro paese che questa giovane rivista sostiene, si parla spesso di degrado culturale come origine di molti problemi e della necessità di una transizione verso regole diverse da quelle vigenti non più in grado di sostenere lo sviluppo. Significa cambiare paradigmi di analisi e prospettive con le quali si costruisce piuttosto che aggiustare e ricostruire. Ma questo significa cambiare la narrazione che definisce valori, compiti, strategie collettive e comportamenti individuali all’interno del quadro futuro.
Per l’evoluzione sono stati determinanti gli scambi culturali, i rapporti con le civiltà altre, è stato determinante saper cambiare, non per acquisizione passiva, ma sviluppando la capacità di stimolare la creatività nella direzione di qualcosa di totalmente o parzialmente nuovo.
Il confronto culturale è stato il motore della costruzione di civiltà sempre più complesse, qualche volta si è trattato di “importazione per acquisizione”, altre volte di “diffusione per contrapposizione”, fatto sta che dall’agricoltura alla intelligenza artificiale le civiltà umane sono state guidate dai racconti e dalla capacità di saperli costruire.
Temo che quando si parla di degrado culturale ci si debba riferire alla scarsa capacità della nostra era di raccontare e questo risulterebbe appa-rentemente strano visto che siamo immersi nello “storytelling”: questo è il punto, un racconto non è uno storytelling, lasciate che spenda alcune parole per provare a definire la differenza.
A partire dal mondo antico, si raccontavano storie per rendere coesa una società tribale intorno a valori condivisi. La complessità crescente delle strutture sociali richiedeva che i racconti, non sempre reali, fossero ritenuti veri per lasciare scolpiti i codici di comportamento, in una parola la cultura civile e sociale. Nella antica Grecia, dove tutto questo fu inventato, esistevano due termini per indicare il racconto: Hystoria che era la cronaca di quello che era successo davvero in un luogo preciso in un tempo preciso a determinate persone e Mythos, un racconto senza tempo e senza luogo che avrebbe potuto riguardare ciascuno in ogni momento. Erano storie che racchiudevano offerte di senso utili a tramandare costumi, etica, comportamenti a fondamento di una comunità.
I Greci credevano vere le cose successe ad Edipo o a Odisseo e ne traevano riflessioni sul destino dell’uomo, era questo il senso del tragico all’interno del quale si esprime-vano gli aedi prima ed il teatro poi. La grande narrazione è andata oltre la Grecia ed è arrivata fino ai giorni nostri costruendo esperienze estetiche e processi cognitivi estremamente utili al proprio bagaglio di sapere, non necessariamente raccontando cose reali. Madame Bovary è esistita solo nella mente di Flaubert come Anna Karenina in quella di Tolstoy eppure ci si identifica in quei comportamenti, nei conflitti e si consolidano valori sociali per tutto il mondo conosciuto. Succede che, nonostante Madame Bovary non sia mai esistita, sono esistite molte donne come lei, e andando oltre, si scopre che anche in ciascuno di noi c’è qualcosa di lei e se ne ri-cava un insegnamento sulla vita. Il racconto aiuta a conoscere un po’ me-glio noi stessi. Il narratore non dice il vero, finge che lo sia e chiede a noi spettatori di fingere di credere, di sospendere l’incredulità come suggeriva Coleridge, e questo ha creato una dimensione di senso ed una capacità percettiva nel pubblico che porta in dote ciò che la finzione fornisce senza necessariamente viverla come realtà. Insomma è un sogno.
La comunicazione, la pubblicità, imposte dal mondo capitalista nella postmodernità, ha archiviato la capacità di sospendere consapevolmente la propria incredulità di fronte alla finzione, questo genera la perdita di sen-so estetico. Umberto Eco ha spiegato molto bene cosa comporti la confu-sione tra finzione e realtà: Qualora ci si concentrasse sulla concatenazio-ne dei fatti, ignorando il bello e il brutto, gli spettatori perderebbero la va-lenza estetica di una storia e di conseguenza non sarebbero in grado di trarre alcun insegnamento per la vita quotidiana. Quando l’estetica sfugge, anche l’etica è in bilico e il trash a basso costo fagocita i media e impone una acquisizione passiva: “di pancia”, come si dice in gergo quando si esclude la testa e quello che la testa contiene. Questa è la pratica dello storytelling, un neologismo usato dalla comunicazione per indicare il consumo di storie, gestito dal potere e campione di partecipazione acritica.
Per cercare di essere più preciso ho cercato la definizione di storytelling in alcune prestigiose enciclopedie. Nella Enciclopedia Treccani, lo storytel-ling è definito “affabulazione, arte di raccontare storie catturando attenzione”, allo stesso modo nella Oxford academic: “Storytelling is a powerful marketing tool that can be used to connect with customers on an emotio-nal level,”. Il succo è lo stesso: Oxford Academic continua: “Aiuta a entrare in contatto con i clienti a livello emotivo. ….si crea un legame che va al di là del razionale.” Nella retorica latina, esisteva una figura: suggestio, che si riferiva a un oratore che propone una domanda e induce, grazie alle sue abilità, la risposta che desidera costruendo, in chi ascolta, un’opinione pri-va di valutazione critica. La parola suggestio, in latino, ha per lo più un significato negativo.
Nel primo libro del De Oratore Cicerone sostiene che, proprio per la capacità che la retorica possiede di oltrepassare le possibilità critiche di chi ascolta e riuscire a convincere della propria opinione, è necessario che chi parli abbia, prima di tutto, una eccellente preparazione culturale, politica e filosofica abbracciando non solo i costumi di Roma, ma anche quelli della Grecia e delle filosofie Orientali. Cicerone riconosce le potenzialità, ma anche il pericolo della suggestio, e propone di limitarne l’uso alle persone dotate di cultura etica e propensione al bene comune.
In epoca mercantile, quando il senso della vita diventa industria, si parla di “comunicazione”, e Mario Perniola sostiene la comunicazione essere il contrario della cultura, una bacchetta magica che converte la confusione in punto di forza, mentre Joan Paul Fitussi mette in guardia dalla capacità della comunicazione di guidare, attraverso le emozioni, azioni a danno del-la volontà razionale.
Messaggi promozionali senza alcuna forza interna e senza alternative invadono anche la politica e propongono prodotti commerciali privi di coraggio, dove non esiste senso di nostalgia, tragedia, mito. Valter Benjamin direbbe che si tratta di prodotti senza “aura” che poi significa senza alcun futuro.
Ma allora il racconto non esiste più? Non è vero, esiste ed è di grande fascino ed efficacia: cinema d’autore, teatro, artisti che si cimentano con i linguaggi del digitale riescono ad arrivare a colpire emozione ed esperienza estetica proponendo visioni da lontano e guidandoci in una esperienza cognitiva fatta di confronto, di umiltà, di umanità. Mi è capitato di analizzare oltre 100 documentari sul turismo come presidente della giuria del Festival Art&Tur in Portogallo e ho trovato tanti esempi di racconti fuori dagli schemi imposti dal marketing, quasi sempre prerogativa di paesi che noi chiamiamo “in via di sviluppo” e che raccontano di una sapientia cordis pacifica, mite, accogliente, da cui emerge il tempo della sincerità dove l’invito commerciale al turismo è confronto con l’altro, senza alcuna presunta supremazia che è ormai, nel nostro occidente, sede di solitudine e isolamento oltre che retaggio mai morto di un passato coloniale.
Raccontare è prima di tutto costruire un senso alle cose. Senso significa direzione e direzione significa essere orientati, avere bussola e cronometro: una storia. Al contrario, i fuochi d’artificio della società mercantile sono una sequenza indistinta di frammenti del tempo presente, una corsa senza forma e senza una proposta di speranza.
Forse il degrado di cui si parla è una crisi esistenziale che si evidenzia in una crisi della narrazione, la vita non è più narrabile e lo storytelling, il consumo, diventa una alternativa alla esperienza estetica.
Byung-Chunl Han, che ha studiato il fenomeno dal punto di vista filosofico, si sofferma sul vortice di informazioni che frammentano il tempo fino a contrarlo sull’attualità evitando ogni bisogno di profondità. La sua analisi è impietosa: si riferisce ad un “bisogno compulsivo di attualità…dove il passato non ha più efficacia nel presente e il futuro si contrae in un aggiornamento permanente di ciò che è attuale”. Una esistenza priva di racconti è vista dal filosofo coreano-tedesco come una sorta di privazione della speranza, un presente senza futuro.
Lo storytelling racconta storie per vendere storie e priva lo spettatore della forza della prassi narrativa espropriando le sue funzioni razionali. Il capitalismo si appropria della narrazione che è eretica, razionale, critica, pericolosa e la sottomette alle regole del consumo caricando emotivamente i prodotti, promettendo esperienza, ma privando tutti della sostanza del contenuto.
La memoria dell’uomo è una attività di selezione, funziona come funziona un racconto e non come un data base. La mente collega fatti e riempie le lacune lasciate ad arte dall’autore di un racconto, sono queste lo stimolo alla creatività dello spettatore.
La narrazione ha come antecedente storico lo spettacolo, uno strumento che svela lentamente e lascia allo spettatore la ricostruzione del messaggio, la comunicazione, invece, deriva dall’esoterismo: confondere e annacquare in un contenitore di superficialità, vendere un viaggio esotico come una lozione fasulla per la ricrescita dei capelli.
La capacità di narrare ha prodotto il teatro, le grandi religioni che altro non sono che racconti, la rivoluzione Francese e l’industrializzazione, i diritti civili. È una grande narrazione il socialismo, l’Europa di De Gasperi, Shu-man, Adenauer, Jean Monet, Spinelli, era una speranza nel loro racconto, oggi lo storytelling la presenta come un antidoto per non peggiorare le condizioni di vita.
Abbiamo forse perso la capacità di raccontare e abbiamo sostituito la cultura nella narrazione con la comunicazione: una tecnica per vendere, prodotti, notizie, valori, senso della vita che ha invaso la politica e che è diventata, con il sonno della ragione, la misura dell’individualismo e della superficialità. Le narrazioni avevano e hanno la capacità di produrre, desiderio, speranza, sapere; senza diventa vano lo sforzo di conoscere. Chiudo con una provocazione e con l’impegno di continuare la discussione: occorre impegnare tutte le forze in una transizione culturale riagganciando la spinta iniziale alle opportunità del momento ed aprendo la visione ai popoli emergenti che sono molto più avanti di noi nella dinamica della valorizzazione delle risorse umane.