di Michele Campanozzi
Per organizzare bene l’esperienza del vivere è indispensabile chiarire una premessa di fondo: di quale Umanità si sta parlando e quali sono o dovrebbero essere le sue caratteristiche dominanti? Qui il discorso diventa molto complesso perché ogni cultura ha elaborato la propria tipologia di Umanità. Ne elenco alcune.
L’antropologia (dal greco ἄνθρωπος, ànthropos, “uomo”, e λόγος, lògos, “discorso, dottrina”, significa letteralmente: “studio dell’uomo”) si è sviluppata in particolar modo in epoca moderna e studia l’essere umano sotto diverse prospettive: sociale, culturale, morfologica, psicoevolutiva, sociologica, artistico-espressiva e filosofico–religiosa, indagando i suoi comportamenti all’interno della società. Nata come disciplina parte della biologia, ha acquisito in seguito anche un importante valore umanistico.
Quella sociale, per esempio, studia i modelli di comportamento, mentre l’antropologia culturale esamina il significato culturale, comprese le norme e i valori. Oggi è comunemente usato il termine di “antropologia socioculturale”. L’antropologia linguistica invece tratta come il linguaggio influenzi la vita sociale mentre quella biologica o fisica osserva lo sviluppo biologico degli esseri umani.
C’è poi l’antropologia archeologica, spesso definita come “antropologia del passato”, che analizza l’attività umana attraverso l’indagine di prove fisiche. È considerata una branca dell’antropologia in Nord America e Asia, mentre in Europa l’archeologia è vista come una disciplina a sé stante o raggruppata in altre discipline correlate, come la storia.
Uno dei primi precursori dell’antropologia nell’antichità fu Aristotele (384-322 a.C.), che si preoccupò di classificare il mondo zoologico, comprendente l’uomo animale ragionevole. Le conoscenze dei tipi umani si approfondirono grazie agli studi dei medici Ippocrate e Galeno e ai racconti dei viaggiatori, da Marco Polo a Magellano.
Nel Settecento Linneo (1707-1778) istituì una catalogazione delle varietà umane imperniata sia sui caratteri fisici che su quelli morali o etnologici.
Con il grande contributo di studiosi come Bronisław Malinowski (1884-1942) ci si avvierà verso una nuova stagione antropologica e si potrà parlare di nuovi modelli di studio: nasce la cosiddetta osservazione partecipante, ovvero la capacità di calarsi a fondo in un ambiente sociale diverso dal proprio con il fine di riportare in maniera oggettiva e scientifica ciò che si osserva. Malinowski fu anche tra i primi a usare nuovi mezzi per ottenere informazioni, per esempio apparecchi di registrazione, strumenti per filmare e soprattutto la macchina fotografica.
Negli anni sessanta e anche precedentemente, le discipline antropologiche subirono ulteriori cambiamenti, uno dei più clamorosi fu l’unione con la linguistica (la linguistica strutturale di Saussure) operata da Claude Lévi-Strauss (1908-2009) con la finalità di superare il pregiudizio etnocentrico occidentale e arrivare a riconoscere la presenza di strutture comuni a tutti gli uomini, idea criticata in modo diverso da tutti i post strutturalisti.
Oggi nella tradizione italiana l’antropologia si è soliti suddividerla in due aree principali:
- l’antropologia fisica (o “antropologia biologica”), che osserva l’evoluzione e le caratteristiche fisiche degli esseri umani, la genetica delle popolazioni e le basi biologiche dei comportamenti della specie umana e dei suoi parenti più stretti, le grandi scimmie.
- le discipline demo-etno-antropologiche, che si occupano degli aspetti socio-culturali, come, per esempio, le reti di relazioni sociali, i comportamenti, gli usi e i costumi, gli schemi di parentela, le leggi e le istituzioni politiche, le ideologie, le religioni e le credenze, gli schemi di comportamento, i modi di produzione, consumo o scambio dei beni, i meccanismi percettivi, le relazioni di potere.
Generalmente, quando viene utilizzato il termine antropologia senza specificazioni, ci si riferisce a questo secondo gruppo.
In Italia si tende quindi a preferire la dizione “scienze (o discipline) etnoantropologiche”.
Immanuel Kant (1724-1804), uno dei maggiori filosofi della storia, viene spesso indicato come colui che ha contribuito fortemente a sviluppare il pensiero antropologico.
Esistono infine una antropologia culturale ma anche quella dei simboli (gesti, movimenti, credenze…), una cognitiva, una medica (studio dei vari disagi), una religiosa (aspetti religiosi e magici).
Come si può notare il discorso si presenta molto variegato e una Nuova Antropologia deve tener presenti tutti questi aspetti.
Notiamo subito che la natura dell’Essere Umano è molto complessa perché presenta quasi infinite variabili. Se si pensa che esistono nel cervello oltre cento miliardi di neuroni e che ciascuno di essi può stabilire con altri oltre duemila collegamenti, cioè essere portatore complessivamente di miliardi di informazioni, allora si può facilmente immaginare come sia molto articolata, multiforme e fortemente individuale la personalità che in ciascuno si va a costituire. Con questa si stabilisce un confronto con la realtà circostante sempre originale, se non unico, nel bene come nel male, perché vanno a interagire pensieri, emozioni, esperienze interpersonali, il passato vissuto sia in famiglia che nell’ambiente circostante, insomma un mondo unico nella sua individuale irripetibilità. Tutto questo, anche dal punto di vista culturale, è bene tenerlo sempre ben presente. Una vera antropologia, dunque, si delinea molto difficile da essere incasellata in etichette precise: sotto certi aspetti essa finisce con l’essere ancora come un irrisolto Mistero, che forse mai sarà completamente conosciuto né chiarito.
Ogni individualità, come insegna l’esperienza, resta e non sarà mai sovrapponibile a un’altra. Questa, dunque, è la realtà, che in sé si evidenzia molto difficile da governare. Quindi sostanzialmente siamo dinanzi a una Nuova Antropologia da fondare maggiormente sulla Libertà.
Quali sono le sue modalità espressive principali e come dovrebbero essere guidate a svilupparsi?
La realtà di fondo è che l’Essere umano è un miscuglio o meglio una miscela di elementi che non riescono sempre a trovare un equilibrio fra di loro e che spesso tendono a confliggere. Questo forse potrebbe essere ricondotto alle seguenti ragioni: la natura e il significato dei ricordi infantili, il carattere particolare delle persone, la loro caratura emotiva, la capacità o meno di saper distinguere criticamente le scelte, la forza spesso ingovernabile delle pulsioni fisiche (cibo, sesso…), l’attrazione che non poco peso esercita nella nascita della trasgressività (aspetto patologico nell’esercizio della libertà, ma anche forma di reazione a imposizioni esterne avvertite come non proprie), il contesto sociale frustrante le aspirazioni emotive di realizzazione del Sé, le minacce, le tante costrizioni, le violenze, le molte infanzie violate o negate, le diverse immotivate scariche di rabbia e di incontrollate aggressività, il non saper ascoltare le parole dei silenzi, le sofferenze, le diversità, le domande, la fragilità, la non educazione all’uso e gestione saggia e intelligente dei social e si potrebbe continuare ancora a lungo perché ogni Essere umano possiede la sua particolare identità, come a dire che è sempre e comunque una storia a sé, sotto molti aspetti ancora tutta da esplorare e da conoscere.
Come dovrebbe essere guidata, diciamo così, la macchina del comportamento umano perché non vada incontro a un dissolvimento del suo insieme? A questo punto alla presa di coscienza del proprio Sé e alla coscienza del modo migliore come conservare in armonia il rapporto con il Tutto giocano in maniera quasi determinante i ruoli sia dell’educazione familiare (con l’imprinting che offre) che di quella scolastica. Il principio di fondo che dovrebbe reggere questo difficile lavoro è quello di costruirsi gli strumenti conoscitivi e affettivi in grado di affrontare la realtà e i contraccolpi che essa molte volte presenta. Questi dovrebbero partire principalmente dalla famiglia, che avrebbe il dovere di essere il luogo privilegiato nel quale sviluppare le capacità cognitive di discernimento, ma anche di acquisizione di freni e di formazione al controllo critico soprattutto delle proprie emozioni e delle personali scelte.
Con il tempo l’intelligenza ha uno sviluppo autonomo e particolare, perché le elaborazioni delle informazioni saranno sempre operate a livello individuale in quanto, essendo numerose, ognuno le assembla a suo modo. Una Nuova Antropologia dovrebbe saper prevedere sempre questo dinamico e speciale approccio nel rispetto delle singolarità. Da parte delle istituzioni scolastiche andrebbero meglio incentivati gli insegnanti nella preparazione psicopedagogica perché a essi è devoluto il compito e il dovere di aiutare i ragazzi nella loro crescita culturale e spingerli all’acquisizione e al responsabile esercizio delle regole che dovrebbero guidare il loro vivere, lo stare e il confrontarsi in una società democratica multietnica e l’imparare a guardare con più fiducia alla interculturalità, ma soprattutto a non mortificare ma a realizzare le loro speranze.
Una Nuova Antropologia non può prescindere da queste priorità imposte peraltro dai tempi. La centralità dell’Uomo va assolutamente salvata nella sua integralità, a prescindere dal colore della pelle, dalle sue condizioni sociali e dallo stesso suo carattere. In questo risiede la Nuova Antropologia, che esclude qualunque forma di violenze, di guerre, di furbizie e, innanzitutto, di ogni distinzione caratteriale. Certamente ciò non implica che le distorsioni del vivere non vadano corrette e semmai perseguite, ma sempre con la dovuta attenzione quando si ha a che fare con il rispetto dovuto alla Vita, che comunque e al di sopra di ogni cosa andrebbe in ogni momento venerata e tutelata. Solo in questo modo si può salvare la Storia dell’Uomo sulla nostra terra.