W il primo maggio
di Giorgio Fiorentini
I volontari professionalizzati sono dei lavoratori senza retribuzione. Quando sono inseriti in organizzazioni-imprese sociali ed offrono tempo qualificato sono dei “dipendenti funzionali”.
Fare volontariato è svolgere un lavoro sociale e l’ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro – Agenzia delle Nazioni Unite) ha sancito che il volontariato è un lavoro.
In quest’ ottica il volontariato è ormai un “lavoro di servizio e di reciprocità” cioè un “lavoro civico”.
Il “Volontario sherpa” è una associazione positiva dei due termini e ci sono analogie di attività e sviluppo. Quando parlo o scrivo del “volontario sherpa” l’atteggiamento dell’interlocutore è in parte di curiosità e in parte di percezione che potrebbe essere un vezzo culturale ed intellettuale. Solitamente sorride in modo interlocutorio e quindi cerco di spiegare perché questa relazione.
Il volontario gioca un ruolo di aiuto e di attività lavorativa senza la quale non si riuscirebbe a raggiungere il risultato ottimale che molte organizzazioni-imprese sociali si prefiggono.
Se analizziamo l’esperienza di volontariato notiamo come è ormai acquisito che il suo ruolo, in molti settori, non solo non è più un “optional”, ma è condizione indispensabile per avere efficacia di servizio e di azione con un coinvolgimento “di condizione necessaria” su cui si innesta la relazione e il suo know how che ha maturato con l’esperienza, ma anche con una professionalità formata, acquisita e strutturata.
Quindi ruolo agìto e concreto, professionalizzato e con una abnegazione equilibrata: come lo “sherpa”.
Analogamente lo “sherpa” gioca il suo ruolo di portatore di carichi, a volte massacranti, per creare i “campi base” delle spedizioni di scalatori, ma fa anche da guida che accompagna le spedizioni fin sulle più alte montagne della Terra. Traccia itinerari, batte nuove piste, coordina le spedizioni con una capacità tecnica e organizzativa decisamente unica.
Stiamo parlando degli Sherpa, gruppo etnico che abita le montagne del Nepal.
Il nome Sherpa significa “uomini dell’est” e li distingue da altre popolazioni nepalesi provenienti dal Tibet. Il nome personale viene invece attribuito, al momento della nascita, dal Lama, il capo spirituale buddista.
Ricordo che lo sherpa Kami Rita ha raggiunto 23 volte la vetta dell’Everest (8.850 m), battendo il suo stesso record di ascensioni complete della montagna più alta del Pianeta. Ricordo anche la grande impresa, dal leggendario sherpa Tenzin Norgay che insieme a Edmund Hillary conquistò la vetta dell’Everest nel 1953 in una prima invernale.
Nella cultura degli “sherpa” c’è il rispetto per l’essere umano e per la sua dignità, hanno un forte spirito di altruismo e di solidarietà: il clima di coesione delle spedizioni è un differenziale importante per il loro successo. Inoltre condividono la ricchezza con i più bisognosi. Hanno spirito d’accoglienza, generosità ed hanno la fede nell’anima. Cioè sono come i volontari.
Per loro non esiste la parola “vetta” e chiamano le montagne con i nomi delle divinità in cui credono e che pregano, prima di ogni scalata, tramite la Puja al campo base., una preghiera per chiedere alla montagna di lasciarli passare.
Anche il volontario va alle alte quote della motivazione svolgendo la sua attività di “portatore di relazione con l’altro”, facendo da guida, spesso operativa ed innovando i servizi alla luce dell’esperienza sul campo. Specialmente in campo socio sanitario il suo ruolo è evidente.
Lo sherpa scruta le nuvole, capisce l’evoluzione del tempo contemperando il bollettino meteorologico. Come il volontario che comprende il clima interiore del paziente e dell’”altro”. Assiste nelle attese il paziente-degente ed aiuta a raggiungere la vetta dello stare meglio, analogamente al comportamento dello scerpa nel campo base. Ormai è superata la percezione di “diminutio” nel pensare allo sherpa.
Oggi la parola sherpa si associa anche ad una evoluzione di ruolo: nel gergo politico e giornalistico, è persona con compiti organizzativi e complessi quali la ricerca e la preparazione dei flussi informativi indispensabili per prendere decisioni importanti e di rilievo nonché la gestione dell’indispensabile logistica.
Anche il volontario si professionalizza costantemente e sviluppa know how organizzativo e professionale.
Inoltre il volontariato sfida la complessità delle situazioni ed aumenta sempre più il valore anche professionale del suo ruolo.
Quindi dire che “il volontario è uno sherpa” non è riduttivo, ma è simbolo di supporto indispensabile per ottenere risultati alti: si direbbe “sopra gli 8.000 “.
La parola insieme sdogana il ruolo dello sherpa da “portatore” “sic et simpliciter” a scalatore. Il volontario ha superato lo stereotipo dell’ancillarità estetica ed insieme agli altri operatori, gioca il suo ruolo di servizio anche in nuovi e qualificati campi strutturali per il sistema. Fare il volontario ha il senso del lavoro.
“Molti spesso passano dal volontariato magari per sperimentare il mondo del sociale come mondo in cui poter lavorare. Il volontariato aiuta a capire cosa significa anche lavorare, aiuta a chiarire le idee”.
Dobbiamo preservare il volontariato dal rischio di uno schema solo di utilità sociale o di tampone di lacune del sistema pubblico e privato. Per questo il volontariato non può essere considerato soltanto in un suo aspetto di carattere testimoniale, relegato in una sorta di “serie b” rispetto alle cose importanti e con il rischio di essere ridotti all’irrilevanza in merito a processi di formazione culturale, di scelte politiche, di sistema economico.
Il volontario svolge attività in favore della comunità e del bene comune, mettendo a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per promuovere risposte ai bisogni delle persone e delle comunità beneficiarie della sua azione, in modo personale, spontaneo e gratuito,
Il volontariato è un lavoro e quindi rientra a tutto tondo nello spirito del 1 Maggio.