di Chiara Lopresti
Vivere è di fatto un atto politico. Non c’è alcuna sfera della nostra vita che non sia in qualche modo influenzata dalla politica e da quello che crea intorno a noi. Mangiare vegano, biologico, senza pesticidi, da galline allevate a terra ed esclusivamente a terra; boicottare brand e aziende che abbracciano valori diversi dai nostri; protestare o scegliere di non farlo; avere un profilo social. E poi c’è la scuola, uno dei pilastri della società democratica. Sì, anche andare a scuola può essere una scelta politica o meglio: prediligere la scuola pubblica piuttosto che la privata per alcuni lo è.
Da diverso tempo ormai vivo in Francia: la maggior parte della mia vita lavorativa finora l’ho passata qui e sono ufficialmente (dal marzo 2023, mese della mia iscrizione all’AIRE) un cervello in fuga. Come spesso accade mi sono ritrovata a contatto con la comunità italiana all’estero che per una strana forza centrifuga è molto più unita oltre i confini nazionali che all’interno. Molte delle persone che conosco sono anche giovani genitori alle prese con figli nati bilingue, a metà tra le due culture, che devono fare i conti con un sistema scolastico diverso e spesso considerato migliore del nostro. Non perché effettivamente lo sia ma perché l’esterofilia è il peccato capitale di cui si macchia l’Italiano medio, cui unica convinzione è che all’estero tutto è fatto meglio che qui. E se per certi versi mi si trovi anche d’accordo, con il tempo, imparando a conoscere quello che è effettivamente il sistema scolastico francese, mi sono resa conto che ogni paese vive e affronta delle sfide simili. Parlando con colleghi con un background più o meno come il mio mi sono resa conto di quanto il loro concetto di cultura generale, ad esempio, sia diverso e più povero di informazioni. Indagando sul perché accadesse mi sono fatta spiegare in che modo era stato loro impartito qualsiasi tipo di insegnamento. In primis il sistema scolastico francese predilige la media di tutte le materie: significa che per passare l’anno basta un 10 complessivo (il nostro 6) con l’idea però che se uno studente ha 6/20 in inglese e 14/20 in matematica non c’è nessun tipo di debito o corso di recupero. Se la media è 10 l’alunno supera l’anno. Stranita da un sistema che forse, a differenza dell’Italia, premia le attitudini personali, mi sono detta anche che durante il mio percorso scolastico un gioco del genere mi avrebbe permesso di concentrarmi di più su ciò che mi piaceva, lasciando perdere invece ciò per cui evidentemente non ero portata. Inoltre la settimana scolastica si basa su quattro giorni, lunghissimi (spesso dalle 8 alle 16) con un giorno totale di pausa dalle lezioni, il mercoledì (per le fasce materne, elementari e medie che sono per forza di cose le più complesse a livello organizzativo). Non solo la didattica è interrotta, di mercoledì, ma proprio le scuole sono chiuse, lasciando ai genitori l’arduo peso di non sapere, spesso, come gestire suddetta giornata. Il principio è nobilissimo: ai bambini e ragazzi deve essere concesso un giorno per potersi consacrare ad altre attività. Ed ecco che ritorna la politica e il sottile confine tra ciò che è un pensiero nobile e la sua attuazione.
Il fatto che le scuole siano chiuse non permette a tutti le stesse opportunità: c’è chi fa nuoto, chi danza, chi è alle prese con corsi privati, flauto e clarinetto. E chi è costretto a stare a casa, magari da solo perché i genitori lavorano, responsabilizzato fin da piccolo a gestirsi da solo perché non ci si può permettere una baby-sitter. Ci sono anche dei centri che si prendono cura dei bambini, che li fanno giocare, ma hanno posti limitati e chi primo arriva meglio alloggia. Sono aperti a tutti solo in teoria perché in pratica non ci si può materialmente prendere cura di ognuno. Arriviamo quindi al nocciolo della questione. Tutto fuori dall’Italia sembra migliore eppure anche qui si deve fare i conti con classi pollaio, difficoltà di reperire professionisti, salari insufficienti, concorsi scarsi, e un relativo spaventoso abbassamento della qualità della didattica. I tagli alla scuola e alla cultura ci sono anche in Francia, le difficoltà di ripartizione delle risorse c’è anche qui. Per far fronte a queste difficoltà molti genitori decidono di iscrivere la propria prole alle scuole private. Costose, aggiornate, con materiale più all’avanguardia, classi più piccole e più seguite, borghesi e spesso di stampo religioso. Se, però, davvero consideriamo la scuola come un diritto inalienabile, dovrebbe essere anche priorità dei governi quello di offrire un’istruzione adeguata a tutti i cittadini della Repubblica.
E invece, il 17% degli alunni complessivi frequenta una scuola privata, con una concentrazione più elevata nella fascia primaria-medie. Due milioni e duecento studenti. Una percentuale enorme che sottolinea lo sconforto e la sfiducia in un sistema che non soddisfa più soprattutto i ceti medi. Perché parliamoci chiaro, è del ceto medio/alto di cui stiamo parlando, perché per poter fare una scelta di questo tipo, in primis, bisogna permetterselo. Personalmente sono ancora combattuta su cosa sia più importante per me, se la formazione di un figlio ipotetico sia più importante del riconoscere il valore intrinseco del sistema pubblico che, per definizione, accoglie e deve accogliere tutti i ceti sociali. Sono convinta che senza i mezzi per interpretare il mondo in cui viviamo sia molto difficile arrivare a determinati risultati ma è davvero più impellente rispetto a vivere a contatto con la vita vera, con tutte le sue sfide e le sue contraddizioni?
Per R. il discorso è molto chiaro: è proprio il ceto medio a dover portare avanti il concetto che è sbagliato rifugiarsi in stabilimenti privati senza chiedere e combattere perché il miglioramento della scolastica sia a beneficio di tutti. “Io ho deciso di mandare i miei figli nella scuola pubblica perché per me è un atto politico”. E alle mie rimostranze, al mio dire “ma non sei preoccupata che i tuoi figli non avranno i mezzi adeguati per arrivare a certi livelli” lei mi risponde che i suoi figli arriveranno dove devono arrivare con i mezzi che vengono concessi a tutti. Perché dovrebbero essere diversi? “Do molto più valore a che i miei figli conoscano la vita vera, che si confrontino con le difficoltà, con chi ha mezzi diversi dai loro, preferisco che i miei figli siano prima di tutto dei cittadini in grado di capire le sfaccettature del mondo e ciò che è giusto o sbagliato. Che poi lo facciano in modo grammaticalmente imperfetto non mi interessa.”
Quella sera sono tornata a casa un po’ risentita, senza sapere il perché. Allieva modello di una scuola privata e cattolica eppure credo di conoscere il mondo. Poi, ripensando proprio al mio percorso scolastico mi sono resa anche conto che dopo le elementari, mio padre si impuntò per iscrivermi ad una scuola pubblica “perché devi scoprire quello che c’è là fuori.” Per anni, a causa di episodi di bullismo e di violenza psicologica ho creduto di non meritare di scoprire quello che ci fosse là fuori, perché brutto e difficile. Ora forse capisco quello che intendeva con la sua scelta. Il suo era un modo per protestare contro la bolla in cui rischiavo di rimanere invischiata per sempre, dove tutti hanno la casa al mare, suonano il violino al conservatorio, vanno a cavallo e al rientro hanno quaderni e libri nuovi di zecca. A loro modo mio padre e R. decidono di chiedere che la scuola pubblica trovi gli strumenti per affrontare le complessità della contemporaneità.
“Chi se lo può permettere scappa e non fa altro che alimentare il sistema”, dice I. Un sistema in cui chi è ultimo rimane ultimo, in cui chi vuole accedere a studi superiori lo può fare solo a seguito di laute spese e in cui la diversità è legata al numero nel conto in banca. “Ormai sono convinta che, dal punto di vista educativo, fa parte della formazione di base di un giovane moderno saper convivere con il disagio degli altri. Se li tiriamo su nelle torri d’avorio si terrorizzano quando vedono qualcosa che non conoscono e basta”.
E poi fanno scelte sbagliate al voto. O non votano proprio perché non credono sia importante.
M. mi racconta anche di un’altra realtà, sempre privata ma associativa: il prezzo è irrisorio ma i genitori devono essere attivamente partecipi alla vita scolastica, con mansioni di segreteria, di gestione e anche di organizzazione (tranne la didattica). Anche in questo caso però il discrimine è sempre il tempo che qualcuno può effettivamente dedicare ad una realtà del genere: non tutti se lo possono permettere. “12 ore all’anno penso che siano un buon compromesso”. È vero, ma per qualcuno quel tempo è letteralmente denaro. In più, molto spesso queste scuole hanno gli insegnamenti in occitano: per chi arriva in Francia e già fa fatica a raggiungere un livello di francese adeguato alla scolarizzazione, imparare una terza lingua potrebbe essere estremamente problematico.
Con una semplice iscrizione, quindi, con la semplice scelta di non trattare i nostri figli come una specie a parte, possiamo a nostro modo protestare, far capire che ci siamo, responsabilizzare i governi a dare e fare di più. Vivere è un atto politico. Studiare è un atto politico. Conoscere l’altro è un atto politico. Abbiamo in mano forse più potere di quello che crediamo di avere.