di Dalisca
Ascoltando un’intervista fatta all’attore Gabriele Lavia circa la scelta di portare in scena all’età di 82 anni il capolavoro di William Shakespeare Re Lear, ho sentito la necessità di apportare qualche mia annotazione alla precedente recensione.
Lavia ha spiegato, con grande spirito critico, che la sua scelta non è stata casuale , ma, conseguenziale alla richiesta fattagli precedentemente dal direttore del teatro Argentina, il quale intendeva così inaugurare la stagione artistica 2024-2025.
La richiesta dovette, da quanto si deduce, vista la sua disponibilità immediata, sorprenderlo ma non troppo; infatti, essa funse da catalizzatore positivo per realizzare il Lear che, indubbiamente,
covava da tempo dentro di Lui.
Del resto, mettere in scena una tragedia di quel calibro ad un’età giovanile, non avrebbe reso a sé stesso il merito di un’esperienza personale così appagante; sappiamo bene quanto il teatro, fatto con coscienza e conoscenza, può aiutare a tirar fuori il meglio di ogni attore che decide di mettersi in gioco e di confrontarsi con classici così evergreen. Questo appellativo può sembrare un anacronismo, ma, per quel che mi riguarda, ritengo che simili rappresentazioni siano sempre attuali, al di là di ogni tempo, ovviamente finché l’uomo si manifesterà umano, poi….
La versione di Re Lear del grande Bardo, ultima opera scritta subito dopo Otello, curata da Lavia ci presenta un re sul viale del tramonto, un tramonto non pacato, non saggio, né tantomeno affrontato con consapevolezza, mette in risalto la follia generale, l’enorme divario che esiste tra le generazioni che, solo apparentemente, sono interessate agli anziani.
Infatti, i giovani in realtà non vedono gli anziani come persone pensanti, ma come cose quasi statuine da riporre in qualche angolo appartato della loro esistenza fuori dalla loro frenetica e spesso
vuota vita; questo viene confermato dallo stesso Lavia ricordando, a questo proposito, le richieste di suo padre e di sua nonna per la sua mancata presenza nella loro vita.
Quindi questo Re ancora pieno di energia che pur di liberarsi delle responsabilità, dona le proprie ricchezze materiali alle figlie, non certo per amore verso la propria prole, ma soprattutto per un fatto puramente egoistico di continuare a vivere la propria vita liberamente tenendo però sempre presente di essere ancora il re, il potente colui che può senza chiedere. Ma l’amore filiale lo delude e lui tradito incomincia il suo delirio e la sua discesa verso la fine.
Lo stesso regista, in perfetta sintonia con il re, ha ammesso di sentirsi deluso dalla propria esperienza filiale perché, quando si è vecchi, si ha la necessità rivolgersi al passato, di sentirsi coccolati come bambini consentendosi anche di essere capricciosi e dispettosi come nell’età
infantile e pertanto di pretendere dai figli la ricompensa per quanto si è dato.
Il parallelo tra Lear e Lavia è sottile tanto che, ad un certo punto, diventa difficile stabilire chi è il vero protagonista della tragedia: Lear o Lavia? È pur vero che il bravo attore deve immedesimarsi, almeno secondo il metodo Stanislavskij nel personaggio da rappresentare, ma noi stiamo parlando dell’istrionico “Gabriele” che gestisce il teatro come una cosa estremamente personale. Il Re non riesce a comprendere che il suo tempo è passato nel momento in cui abdica in favore dei figli che non solo non lo riconoscono più come tale, ma soprattutto come il loro padre; una decisione questa antropologica presa a quattro mani senza alcuna richiesta da parte dei discendenti che la subiscono loro malgrado!
L’apertura del teatro è tetra, infatti essa rappresenta un teatro oscuro, quasi in disuso, gli attori entrano in scena con abiti normali pantaloni e maglietta nera e si avvicinano a vecchi bauli dove trovano antichi abiti pesanti che indossano assumendo di volta in volta il ruolo ad essi connesso.
Vecchi sipari, vissuti che ogni tanto si accasciano al suolo rendendo così il tutto molto più lascivo.
Perché?
Il teatro è vivo e il pubblico ha bisogno di crederlo e sentirlo così, altrimenti dobbiamo, come è giusto che sia, cambiare completamente il linguaggio renderlo attuale e a passo con i tempi.
A proposito di linguaggio e di innovazione, il discorso è molto complesso; le nuove generazioni di attori, di registi e di quanti hanno a cuore questo problema, ci stanno provando mettendo a repentaglio la loro professionalità e notorietà dal momento che il nuovo ha bisogno di tempo per essere compreso e digerito da un pubblico che lo cerca, ma che non sa ancora riconoscerlo come tale.
Certamente non si può pensare che il nuovo si possa risolvere mostrando le chiappe nude al pubblico quando, questo non solo non viene richiesto, ma certamente risulta fuori posto in una rappresentazione di altri tempi. Un fulmine a ciel sereno che il pubblico non si aspetta da un attore di quel calibro, ma se l’intento del maestro era quello di spiazzarlo in qualche modo per rubargli una
labile risata forse l’esperimento non gli è riuscito.
Credo che non sia necessario, per questo, scomodare un Re!