IL NAZIONALISMO LEDE L’INTERESSE NAZIONALE

di Luigi Troiani

Contro il rischio del deperimento del multilateralismo che ha garantito pace e stabilità in occidente nel secondo dopoguerra e preservato il pianeta dall’insorgere di un terzo grande conflitto, in risposta alla vocazione dichiaratamente bilateralista della presidenza degli Stati Uniti, si è espresso con forza in due fori istituzionali di eccellenza il presidente francese Emmanuel Macron, nella primavera del 2018. Nella visita di stato a Washington, D.C., parlando al Congresso, il 25 aprile:

L’unica opzione è rafforzare la nostra cooperazione.

Possiamo costruire l’ordine mondiale del XXI secolo, fondandolo su un nuovo genere di multilateralismo, basato su un multilateralismo più efficace, verificabile e orientato ai risultati. Un multilateralismo forte… Questo forte multilateralismo non offuscherà le nostre culture nazionali e le identità nazionali. È esattamente l’opposto. Un multilateralismo forte consentirà alle nostre culture e identità di essere rispettate, di essere protette e di fiorire liberamente insieme.

Aprendo i lavori della sessione ministeriale dell’Ocse, presieduta dalla Francia, il 30 maggio, presente il segretario di stato al Commercio Wilbur Louis Ross che aveva appena esposto le ragioni americane contrarie al multilateralismo, ribadisce:

In effetti dobbiamo ritrovare il cammino d’un multilateralismo forte. È quello che ha già detto all’Onu, a Davos, a Pechino, a Washington… il multilateralismo non è una sommatoria di bilateralismo. È un dialogo a più voci, una polifonia dell’azione, del pensiero…

Affrontando poi la questione del protezionismo di ritorno e delle azioni di esibizione dei muscoli:

Non si risponde alla violenza contemporanea con l’accrescimento delle tensioni e della violenza, o con la minaccia. Non si risponde alle disfunzioni contemporanee con la chiusura, il protezionismo, il rifiuto delle risposte multilaterali, ieri come oggi, e lo sappiamo. Perché tutte queste risposte aggravano la crisi e gli squilibri del mondo, invece di rispondere ad essi.

Macron fa quindi la sua proposta di revisione di taluni meccanismi del multilateralismo, guardando in particolare all’Organizzazione mondiale del commercio, giudicata dagli americani farraginosa, lenta, incapace di risultati.

Per non riprodurre il peggio, dobbiamo quindi costruire un multilateralismo migliore, quel multilateralismo forte del quale voglio dare qui alcune piste concrete in materia economica, sociale e dello sviluppo. Per fondare questo multilateralismo forte, quindi non un multilateralismo parolaio, no!, una risposta più efficace alle sfide contemporanee che evoco, non si tratta né di rinunciare al sistema attuale, né di considerarlo intangibile e perfetto, ma anzi di trasformarlo.

Ross [aveva] ribadito più volte dal rostro, che gli Stati Uniti rifiutano le lungaggini e le inefficienze delle organizzazioni internazionali e che reputano il multilateralismo incapace di risolvere le questioni. Aveva detto, tra l’altro:

Spesso il multilateralismo è una scusa per guadagnare tempo, posporre decisioni. Mi sembra che i risultati ci stiano dando qualche ragione. Vogliamo azioni che fruttino. Preferiamo il bilateralismo per le seguenti ragioni:

            a- i negoziati durano troppo

            b- la lora lunga durata obbliga tutti a compromessi che poi non soddisfano nessuno

            c- la complessità fa condividere i risultati al minimo comune dominatore, che è come il topolino partorito dalla montagna

d- ci vorrebbe un arbitro che fissi tempi e regole, e non c’è.

Noi lavoriamo all’interno di uno schema multilaterale se abbiamo la sensazione che sia produttivo. Ma se ci sono interminabili gruppi di lavoro e di studio che non decidono nulla, perdiamo tempo e non siamo disponibili. Servono decisioni. La gente attende decisioni: noi condividiamo le loro critiche.

Prima di Macron, il segretario generale dell’Ocse, José Ángel Gurria, aveva illustrato e difeso i successi del metodo multilaterale praticato dall’organizzazione.

La sessione ministeriale Ocse si sarebbe chiusa senza comunicato finale, a causa del dissociarsi degli Stati Uniti da molte conclusioni alle quali si era arrivati. L’anno precedente la stessa conferenza si era conclusa con due comunicati finali, uno degli Stati Uniti, l’altro del resto dei paesi rappresentati in Ocse.

Pochi giorni dopo, nel G7 di Charlevoix in Quebec (8-9 giugno 2018), Trump avrebbe abbandonato la riunione in anticipo e clamorosamente sconfessato il comunicato finale concordato anche con i

rappresentanti americani restati al tavolo della trattativa.

Il G7 dell’agosto 2019, tenutosi a Biarritz in Francia, avrebbe illustrato quanto le difficoltà di quell’amministrazione statunitense di accedere al metodo multilaterale fossero radicate. Rispetto al comunicato finale di settanta punti in venticinque pagine del primo G7 del presidente Biden nel giugno 2021, quello di Biarritz si fermava a una striminzita paginetta, Sei gli argomenti elencati, meritando la metà di essi, (Hong Kong, Ucraina, Iran) non più di una riga di menzione.

Con il G7 del 2021, in Cornovaglia, la deriva statunitense contraria al multilateralismo, con la nuova amministrazione veniva ridimensionata. I capi di stato e di governo sottolineavano di essere convenuti in unità di convinzioni e intenti, e di voler condividere le decisioni sugli effetti della pandemia Covid-19.

Ribadivano anche l’impegno al multilateralismo e ad un’agenda globale comune.

La ripresa della linea tradizionale del multilateralismo veniva confermata  nel G7 del 2022 in Alta Baviera, in un vertice che aveva al centro dell’agenda la risposta da dare all’incremento dei prezzi

dell’energia e all’aggressione russa contro l’Ucraina.

È nella natura dello stato perseguire, nelle azioni di politica estera e di difesa, l’interesse nazionale. Che questo possa contrastare con l’interesse di altri stati o del sistema internazionale, risulta irrilevante nella visione classica dello stato.  La società internazionale fondata sui rapporti tra stati, si è espressa nella storia attraverso conflitti: nei 2015 anni d. C. si sono contate più di 1.100 guerre armate. L’interesse nazionale ne ha costituito la giustificazione principe.

Sul piano degli interessi economici e commerciali si è arrivati a teorizzare la giustezza del detto “impoverisci il tuo vicino” Beggar-Thy-Neighbour (ad esempio con dumping e svalutazioni competitive), colonialismo e neocolonialismo, ingiuste ragioni di scambio, finanza globale speculativa. Sul piano degli interessi strategici, si sono investite enormi risorse in armi concepite per il non uso (batteriologiche, nucleari).

Si ritiene che i governi siano espressione di una constituency nazionale: ad essa risponderebbero e nel suo esclusivo interesse dovrebbero operare. 

Come afferma Federico Chabod  in L’idea di nazione, L’idea di nazione è anzitutto, per l’uomo moderno, un fatto spirituale; la nazione è, innanzi tutto, anima, spirito, e soltanto assai in subordine materiale corporea; è ‘individualità’ spirituale, prima di essere entità politica, Stato alla Machiavelli, e più assai che non entità geografico-climatico-etnografica, secondo le formule dei cinquecentisti”.  Decisamente meno generosi con l’uso politico del concetto di nazione, Hugh Seton-Watson (gli “official nationalisms” in Nations and States sono presentati come strumento crudo di potere) con particolare riferimento ai Romanov; e Benedict Anderson (Imagined Communities) che ridicolizza il nazionalismo degli imperi centrali, in quanto “mezzo per combinare la naturalizzazione con il mantenimento del potere dinastico”. 

La teoria sistemica contesta una posizione così radicale, obiettando che uno stato è parte del sistema di rapporti interstatuali che generano l’interesse sistemico (ad esempio alla sopravvivenza del pianeta) e che l’interesse sistemico può, o non, coincidere con l’interesse nazionale.  Considerare come sistema i rapporti tra gli stati e tra gli altri attori della politica internazionale, significa far coincidere l’interesse delle parti con quello del tutto. Limitare l’autonomia delle parti per servire le finalità sistemiche, impedisce agli stati di opporre l’interesse nazionale a quello sistemico limitando il disordine e le disarmonie generati dagli eccessi delle sovranità nazionali.    

Se lo stato altro non è che il risultato di un artificio giuridico-formale (costituzione e leggi derivate) che consente ad una comunità di organizzarsi su un certo territorio, più complessa e sfuggente la

definizione di nazione e quindi dell’“interesse” che ad essa viene attribuito. Si può concordare che nazione stia per popolo con identità esclusiva maturata nel tempo in uno o più spazi, attraverso la

condivisione di tradizioni e valori. Più complicato ricercare quale, tra i tanti interessi (al plurale) di un popolo, possa costituirsi in “interesse” (al singolare).

Dal fascio di interessi, anche conflittuali, espressi dalla composita realtà che pulsa dentro il termine “popolo” o “nazione”, risulta una reductio ad unum (“l’interesse”) che in realtà non individua ciò che pretende, perché non rappresenta ciò che la nazione reputa interesse essenziale, bensì quanto la politica (lo stato) vuole sia tale. Il che porta ad una serie di domande: chi decide, per quale fine, con quali conseguenze. E alla domanda che riassume tutte le altre: con quale legittimità e liceità.

Sul chi decide, la risposta obbligata è formale: le istituzioni che la costituzione delega a questo fine, nei modi là previsti. Sul piano sostanziale occorre un ulteriore approfondimento: quelle istituzioni,

gli uomini che le dirigono, di quali interessi sono espressione? La risposta spiegherà perché, tra i tanti interessi, uno sarà identificato come nazionale.

Si può obiettare che lo stato, specie se a regime democratico, sia l’interprete autentico dell’interesse generale, essendo chiamato a dare obiettività alla congerie di interessi soggettivi che amministra. Se sul piano formale si tratta di posizione ineccepibile, non lo è altrettanto sul piano della politica: le istituzioni dello stato esercitano opzioni soggettive, funzione della maggioranza di governo e dei corpi intermedi che la influenzano: pezzi di stato e istituzioni, lobby, gruppi di pressione, agenti di corruttela, stakeholder.

Si prenda il caso della sicurezza nazionale, esigenza obiettiva e irrinunciabile di politica estera e di difesa: la definizione degli strumenti chiamati a realizzarla non può non passare al vaglio di interessi economici e finanziari parziali, delle molteplici ideologie e visioni filosofiche e religiose. Nell’Ucraina che subisce l’aggressione della Russia, quante versioni di sicurezza nazionale circolano? Chi esprime l’interesse nazionale: i favorevoli alla Ue o i russofili? E nella Russia che attacca l’Ucraina, l’interesse nazionale russo è tutelato da Putin che invade il paese vicino, o dai russi contrari all’azione bellica?

“Interesse nazionale” non corrisponde esattamente a ciò che in genere chi lo rappresenta e interpreta, racconta. Nei fatti è definito come “nazionale”, quello che è invece l’interesse “parziale” del ceto dirigente, e di chi ne dà interpretazione storica in un determinato momento. Nel migliore dei casi quell’interesse verrà proposto alla nazione. Nel peggiore, verrà imposto.

Il meccanismo del consenso politico, che nei regimi democratici si esprime attraverso persuasione e adesione, in quelli autoritari prende forme repressive, legittima sempre politicamente la traslazione

di un interesse di parte in interesse della nazione. Inoltre, se il termine “interesse” è evocatore di calcolo, razionalità, convenienza, nella realtà politica detta presunta razionalità va a mescolarsi con altri elementi, come le passioni ideologiche e le passioni popolari o di massa. E, a fronte di ideologie e passioni, capita che la razionalità soccomba.

Richiama questo dato di fatto Maurizio Molinari, ragionando della (ri)scoperta, nella politica italiana, della categoria dell’interesse nazionale, e facendo riferimento storico alla conduzione della

politica estera italiana da parte dei governi di centro sinistra D’Alema e Prodi:

Per la galassia della sinistra il passaggio dalla politica estera ideologica a quella pragmatica è un processo incerto, costellato di ambiguità, sempre reversibile, certamente doloroso per larghi strati dell’opinione pubblica che hanno le loro radici negli “ismi” italiani – pacifismo, neutralismo, comunismo, terzomondismo – protagonisti di mezzo secolo di battaglie contro l’Occidente e contro gli Stati Uniti. Ma i governi del centro-sinistra non hanno avuto scelta: si sono trovati obbligati a pensare soluzioni concrete a problemi immediati, af francandosi così progressivamente dalle proprie radici ideologiche e sopravvivendo ai profondi dissensi interni…

Da quest’interpretazione conseguono le risposte alle altre domande: le finalità che quell’interesse nazionale vorrà cogliere apparterranno non alla comunità ma al ceto che ha avuto la capacità di

proporre/imporre il suo interesse o la sua ideologia di parte, come “nazionale”. Tra le possibili conseguenze, due meritano evidenza: il successo delle azioni effettuate sub specie di interesse nazionale andrà a beneficio soprattutto della parte che ha proposto/imposto l’interesse, l’insuccesso farà esplodere le contraddizioni tra le componenti che si sono confrontate sulla definizione dell’interesse nazionale.

Non risolve il dilemma nemmeno il caso, raro ma verosimile trattandosi di politica estera, di posizione bipartisan, assunta in talune circostanze da governo e opposizione, nel segno, appunto, dell’interesse nazionale.

Anche in questo caso va a prodursi il coagulo di interessi parziali, anche legittimi, collocati in schieramenti politici opposti, tali da far convergere su decisioni condivise gli interessi di maggioranze presenti e nel governo e nelle opposizioni contro quelli delle rispettive minoranze.

Sulla legittimità, laddove le procedure previste dalle leggi per la definizione dell’interesse nazionale siano state correttamente seguite, nulla può obiettarsi. Diverso il ragionamento sul piano della liceità, ovvero dell’etica: ci si tornerà più avanti.

(da La diplomazia dell’arroganza, L’Ornitorinco ed.)