LA BANALITÀ DEL PASSATO

di Claudio Siniscalchi

Nel 1973, riflettendo sulle modalità della ricerca storica, Paul Veyne scriveva: lo «storico non è mai apportatore di rivelazioni clamorose che sconvolgono la nostra visione del mondo: la banalità del passato è fatta di particolari insignificanti, i quali però, moltiplicandosi, finiscono per comporre un quadro del tutto imprevisto». Aprile 1992.

Giovannone Spadolini avvertiva il frastuono proveniente dalla piazza del Duomo a Milano. In strada s’erano radunati i militanti leghisti, accorsi a frotte per ascoltare il comizio di Umberto Bossi in chiusura della campagna elettorale. Le consultazioni si sarebbero tenute il 5 e il 6 aprile. Giovannone, Re dell’Edera repubblicana, non avvertiva alcun scricchiolio. Il regale portamento risorgimentale gli faceva percepire nello stormir di foglie leghista un semplice refolo, non una tempesta.

Al cronista che gli chiedeva un parere sulla piazza tumultuosa, rispondeva con un’alzata di spalle. Passerà! Chiuse le urne (si recarono al seggio l’87% degli aventi diritto) cominciò lo spoglio. Un bagno di sangue. La Democrazia cristiana scese sotto il 30%. Il Partito democratico di sinistra (ex Partito comunista) ottenne il 16% dei consensi, tallonato dai socialisti con il 13%. La Lega doppiò Giovannone, sfiorando il 9%. Il resto della compagnia raggranellò, chi più chi meno, il previsto.

Bettino Craxi provò a formare un nuovo governo. La mano invece toccò al suo Delfino, Giuliano Amato, alla guida di un tremebondo quadripartito, in perenne affanno e di scarsa durata. In realtà il Delfino designato era Claudio Martelli. Sicuro di succedere a Craxi sul filo di lana perse la partita di Palazzo Chigi. Il Dottor Sottile, abilissimo nella navigazione, però non resse all’urto di «Mani pulite». Le inchieste della magistratura sulla diffusa corruzione politica, sorrette dal sistema mediatico e dal favore popolare, aprono una consistente fessura nel sistema politico. La compagine guidata da Amato nell’urto con «Mani pulite» imbarca acqua. Tanta acqua. Si inabissa così, con estrema rapidità, il sistema partitico che aveva governato l’Italia dal dopoguerra.

Fin qui i fatti. Noti a tutti. La «banalità del passato». Si tratta del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. Caduto rapidamente Amato passa la palla a Carlo Azelio Ciampi, Governatore della Banca d’Italia. Un anno dopo si tengono nuove elezioni. Doveva essere una cavalcata senza ostacoli per la sinistra ex-comunista.

Succede il contrario. Una débâcle storica. La gioiosa «macchina da guerra» guidata da Achille Occhetto si frantuma nell’aprile 1994, non percependo la forza reale del movimento messo in campo, nello scetticismo generale, da Silvio Berlusconi. In due anni era successo di tutto. Tramontava il vecchio sistema e iniziava il nuovo. È fastidioso ricordarlo, ma la storia repubblicana prende avvio da una sconfitta e da una resa, senza condizioni, firmata nel 1943 prima a Cassibile (nella versione breve), poi a Malta (nella versione lunga). La resa se la intesta casa Savoia. E nel 1946 la lascia in eredità alla Repubblica. L’ulteriore passaggio è la logica di Yalta. Il mondo diviso in blocchi.

L’Italia finisce sotto il controllo degli alleati (legassi Stati Uniti). Quindi la sovranità della nazione è fortemente limitata. A completare il quadro ci pensa la Guerra fredda. L’Italia ha una funzione strategica nella contrapposizione tra Est e Ovest. Il «piano Marshall» e il «miracolo italiano» fanno dimenticare questa realtà. La crisi della fine degli anni Sessanta e del decennio successivo la riportano in superficie. Il «nuovo boom» degli anni Ottanta ha una pietra di inciampo, a metà del decennio: la «disputa di Sigonella». All’epoca il governo è guidato da Bettino Craxi. Ministro degli Esteri è Giulio Andreotti. In Italia regna la stabilità.

La politica ha trovato un solido asse di sostegno nella fattiva collaborazione tra democristiani e socialisti. Trattasi di matrimonio di interessi e non d’amore. Con molti screzi e sfiducia reciproca. Però regge. Poi accade un evento imprevisto. Apparentemente poco rilevante. Ma destinato a pesare, e molto, un decennio dopo. Il 7 ottobre 1985 al largo delle coste egiziane viene dirottata da quattro terroristi palestinesi l’Achille Lauro, nave ammiraglia della flotta Lauro. L’Italia, a stretta vicinanza con la polveriera mediorientale, si è tenuta alla larga da attacchi terroristici (tranne qualche attentato). L’abilità dei servizi segreti e il neanche troppo celato orientamento filoarabo di democristiani e socialisti (pur rimanendo fedeli alla sudditanza americana), si sono dimostrati scudo efficace. Si tratta del «cosiddetto lodo Moro».

Il sequestro dell’Achille Lauro dopo quattro giorni di trattative sembra chiudersi senza problemi. Il leader palestinese Yasser Arafat ha mandato un mediatore. A bordo non si sono verificate violenze. E quindi i dirottatori possono abbandonare la nave. Quando se ne vanno tutti tirano un sospiro di sollievo. Ma qui esplode il dramma. Lo ricostruisce un diretto protagonista di quella crisi, Flavio de Luca, in La Flotta. Prova generale di Tangentopoli (Graus, pagine 283, euro 20). De Luca, figlio dell’ex direttore generale della Rai Villy, all’epoca ha 32 anni. È l’amministratore della traballante flotta Lauro, messo lì per liquidarla. Ma il giovane è capace e ambizioso. Dopo averla risanata, intende rimetterla in marcia. Nel racconto ci ricorda un particolare dirompente. I terroristi avevano ucciso a sangue freddo un passeggero, Leon Klinghoffer: statunitense, ebreo, handicappato in carrozzella. Il corpo lo avevano gettato in mare. Quando gli americani vengono a conoscenza dell’uccisione ritengono l’accordo non più valido. Sono stati imbrogliati. Obbligano l’aereo con i terroristi a bordo a scendere all’aeroporto di Sigonella. Da quel momento parte una durissima trattativa telefonica tra Craxi e Ronald Reagan. Craxi è determinato a resistere. Se necessario con l’uso della forza. Reagan abbandona il braccio di ferro. L’aereo viene fatto ripartire. La «disputa di Sigonella» ha ripercussioni sul governo. Spadolini a stretto giro di posta toglie l’appoggio dei repubblicani. Si apre la crisi, presto ricucita.

Craxi il 6 novembre alla Camera in un grintoso discorso difende il suo operato. Azzarda un passaggio un po’ fastidioso, nel paragonare Arafat a Giuseppe Mazzini. In aula alcuni repubblicani stizziti rumoreggiano. Alla fine, raccoglie applausi, politicamente trasversali (comunisti e missini). Ma da quel momento prende avvio il tramonto della sua fortuna politica, conclusa con la deposizione in tribunale a Milano e con l’esilio di Hammamet. Andreotti, che aveva gestito direttamente l’intricata vicenda, era a conoscenza della morte di Klinghoffer. Non ne fece menzione per facilitare la liberazione dell’Achille Lauro. Gesto politicamente comprensibile. Sulla nave c’erano oltre 200 passeggeri (moltissimi italiani) e poteva finire in una carneficina. Otto anni dopo, il 1° luglio 1993, appresa la notizia dell’imminente arrivo in Italia del pentito Tommaso Buscetta, si reca all’ambasciata americana a Roma. Il nuovo inquilino nominato da Bill Clinton (Reginald Bartholomew) non è ancora arrivato. Parla con un funzionario. Mette le carte in tavola. Lo vogliono incastrare. Il giovane diplomatico domanda ad Andreotti se sta insinuando che gli Stati Uniti sono direttamente coinvolti in un’operazione giudiziaria ai suoi danni. La risposta è negativa. Si salutano. Il finale della storia è sin troppo noto. Nel 1985 la Guerra fredda obtorto collo ricompone la «disputa di Sigonella» con gli americani. Nel 1989 la Guerra fredda va in pensione. Il comunismo crolla, sotterrando definitivamente il mondo disegnato a Yalta. E qui entrano in ballo gli americani nel biennio 1992-1994.

Democristiani, socialisti e loro alleati minori giorno dopo giorno vengono falcidiati. I giudici, ovunque, li incalzano. La gogna mediatica alimenta rancori su rancori. Al plotone di esecuzione sono pochi ad essere risparmiati. E gli americani che fanno? La loro figlia prediletta si dimena agonizzante. Certo potrebbero tendergli una mano. Ma non lo fanno. Stanno alla finestra ad osservare le macerie quotidiane. Perché? La strategia mondiale è cambiata. Il comunismo non è più un pericolo. Quindi ci potrà essere un governo conservatore e cattolico in Polonia e uno progressista e anticattolico in Italia. Dieci anni prima era impensabile. Stanno seppellendo la vecchia classe politica amica? Non è un dramma. La nuova pronta a subentrare – qualsiasi essa sia – non pone alcun problema di affidabilità. Lo sguardo dai naufraghi si sposta al «guardiamo avanti». Il funzionario responsabile per buona parte del biennio dell’ambasciata americana a Roma. ricorda con schiettezza: «i politici che cadevano erano nostri amici, e questo ci creava seri problemi perché non sapevamo che futuro avrebbe avuto il Paese.

Però non facemmo nulla per proteggerli. L’impressione generale era che fosse venuta l’ora di ripulire le cose». La grande slavina aveva preso avvio dal vento del Nord (spirava forte da Nord-est) con le prime rivendicazioni autonomiste. Raggiunse consistenza nazionale a Milano con «Mani pulite». E si scaricò inarrestabile su Roma. La partita venne giocata, senza intromissioni dell’arbitro, perché il Grande Guardiano aveva deciso – vista la nuova stagione geopolitica – che Yalta poteva andare tranquillamente in soffitta. «Spettatori disimpegnati», gli americani danno l’impressione di non rattristarsi troppo dello smottamento in atto. Non soccorrono i vecchi amici. Né alzano un dito per proteggerli. Anzi, molti indizi inducono a pensare il contrario. Bartholomew l’8 dicembre 1994 da Roma invia una relazione: ci vorranno probabilmente diversi anni prima che si torni a stabilire un rapporto equilibrato tra poteri dello Stato (leggasi tra politica e magistratura).

La «banalità del passato è fatta di particolari insignificanti». All’epoca nessuno ebbe l’impressione della portata epocale della «disputa di Sigonella». Messi insieme i particolari apparentemente privi di significato, però «finiscono per comporre un quadro del tutto imprevisto».