Quando la cittadinanza diventa lotta collettiva
di Gaia Bertotti
Il 2 giugno, Festa della Repubblica, è celebrato come un giorno di appartenenza e dovrebbe rappresentare la massima espressione della libertà, dell’uguaglianza e dei diritti inviolabili dell’essere umano, nonché i principi fondamentali su cui poggia le basi la Costituzione italiana. Ma a chi appartiene davvero la Repubblica, se il diritto ad esserne parte viene continuamente rinviato, negato, condizionato? A partire da questa domanda, a Torino un gruppo di persone ha deciso di scendere in piazza per dare visibilità a chi, pur vivendo stabilmente in Italia, non è riconosciuto come cittadino.

Costituiamoci, questo è il nome del collettivo nato alla vigilia della Festa della Repubblica e del Referendum Cittadinanza e mosso dalla volontà di risvegliare le coscienze delle cittadine e dei cittadini. In particolare, è da un’esperienza personale – quella di Nyanwily Arop Miniel Kuol, in Italia da 25 anni senza cittadinanza – che nasce questa iniziativa.
Il 2 giugno, il collettivo ha organizzato due momenti pubblici in due diverse piazze torinesi. Al centro della giornata, la lettura collettiva della Costituzione, in più lingue: un gesto semplice, ma profondamente politico; uno strumento per riaffermare l’universalità dei diritti e per riflettere sul significato di essere cittadini in Italia oggi. Un 2 giugno concluso con la scrittura degli articoli più significativi della Costituzione su t-shirt bianche per dare corpo a quelle stesse parole.
Essere cittadini italiani significa, tra le altre cose, avere accesso al voto, poter partecipare ai concorsi pubblici, lavorare nella pubblica amministrazione, ricevere senza limitazioni le prestazioni sanitarie, previdenziali e sociali. La cittadinanza comporta inoltre maggiore stabilità giuridica e tutela consolare all’estero. Tutto ciò non è scontato.
In Italia, la cittadinanza è ancora attribuita principalmente secondo il principio dello ius sanguinis. Questo esclude una parte significativa della popolazione residente da questi diritti fondamentali. Il Referendum dell’8 e 9 giugno 2025 propone di ridurre da dieci a cinque gli anni di residenza legale necessari per presentare la domanda. Ma attenzione: anche in caso di vittoria del sì, l’Italia continuerebbe a mantenere requisiti piuttosto restrittivi.
Il cambiamento non è però solo normativo, ma interroga il modo in cui lo Stato definisce chi può partecipare alla vita politica. La legge oggi prevede che per ottenere la cittadinanza si dimostri, tra le altre cose, un reddito minimo continuativo e regolare nei tre anni precedenti. In un contesto lavorativo segnato dalla precarietà strutturale, dal lavoro nero, dall’assenza di tutele, persone impiegate come colf, braccianti, rider, badanti vengono sistematicamente escluse. Questo sistema produce una cittadinanza selettiva, vincolata a condizioni socioeconomiche difficilmente raggiungibili da chi è più esposto alle disuguaglianze.
Come scrive Lea Ypi – docente di filosofia politica alla London School of Economics – in Confini di classe, “la cittadinanza non può restare un privilegio per chi ha accesso a un capitale sufficiente a superare la soglia dell’inclusione”. Se è così, allora non è più un diritto: è una rendita. Una rendita che si eredita, non si conquista.
L’azione di Costituiamoci si inserisce in questa riflessione e la rilancia nello spazio pubblico. E ricorda che ogni legge sulla cittadinanza è anche una legge sulla cittadinanza morale di un Paese. Chi consideriamo parte del “noi”? Chi includiamo nelle nostre narrazioni di comunità, di popolo, di futuro? È su queste basi che va discussa la cittadinanza, al di là della retorica dell’integrazione o del merito.
A pochi giorni dalla chiamata al voto, il mese del Pride si apre sotto il segno di una rivendicazione più ampia, più strutturale, più radicale; e Torino offre un esempio di democrazia che prende parola, prende spazio, prende corpo. I giovani del collettivo si costituiscono come cittadini, ancor prima che lo Stato riconosca formalmente il loro diritto ad esserlo.
Il cambiamento che il collettivo torinese e tante altre realtà in Italia rivendicano non è solo giuridico. È culturale, è politico, è etico. Perché i diritti sono più di un pezzo di carta. Riconoscerli e riconoscersi è un atto di giustizia, di libertà e di uguaglianza formale e sostanziale.
E allora sì: Costituiamoci!



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Una risposta a “COSTITUIAMOCI!”
Sentirsi parte di una società, con tutti i diritti e doveri, è ciò che conta per ogni essere umano!