LE IMPRESE DEGLI STRANIERI IN ITALIA

di Giuseppe Bea

Questo saggio sugli imprenditori immigrati in Italia non si limita a fornire un aggiornamento sui dati statistici recenti, ma ne spiega anche la sorprendente evoluzione nel corso degli anni ‘2000, quando le imprese degli italiani hanno iniziato a diminuire.
Questo importante aspetto del fenomeno migratorio viene analizzato dal punto di vista socio-statistico, giuridico, organizzativo ed economico. Gran parte della documentazione utilizzata è stata prodotta dal Centro Studi e Ricerche Idos, che da molti anni dedica all’imprenditoria immigrata un capitolo nelle edizioni annuali del Dossier Statistico Immigrazione e, inoltre, dal 2014 pubblica annualmente il Rapporto Immigrazione e Imprenditoria in collaborazione con altre organizzazioni (CNA ,OIM e UNAR, in precedenza, anche MoneyGram Italia e, già nel 2009, la Fondazione Etnoland): questo spiega perché sia rilevante l’attenzione che in tale documentazione e anche in questo saggio vene riservata agli aspetti pratici dei percorsi imprenditoriali.
Questo saggio si è proposto di offrire un’articolata visione d’insieme del fenomeno e a tal fine i paragrafi sono così’ articolati. I dati relativi al 2008; l’esplosione del fenomeno all’inizio degli anni ‘2000; le teorie interpretative nella sociologia internazionale e in quella italiana; le caratteristiche del contesto italiano e i principali aspetti del percorso imprenditoriale; la complessità dell’artigianato italiano tra mestieri in disuso, mestieri riadattati e nuovi mestieri, con la necessità di ricorrere a internet e alla tecnologia per far valere il pregio dei prodotti artigianali; il collegamento tra i lavori artigianali e la vocazione imprenditoriale degli immigrati; la grande vetrina di questi imprenditori assicurata al MoneyGram Award a partire dal 2009.
Le aziende degl’immigrati ,anche se di ridotte dimensioni, hanno costituitonel volgere di due decenni una grande realtà che equivale ad un decimo dell’intera imprenditoria nazionale.
Le conclusioni, dopo questo articolato esame, sollecitano un maggiore apprezzamento di questo fenomeno, ormai strutturale e del suo contributo al sistema Italia.

L’imprenditoria immigrata nel contesto Italiano

Le imprese nel sistema economico italiano

Una breve premessa sull’andamento dell’economia italiana dagli anni ’70 in poi (cioè da quando è iniziato il fenomeno dell’immigrazione dall’estero) è funzionale alla presentazione del contesto in cui si è inserita l’imprenditoria degli immigrati.
Negli anni ’70, le imprese di ridotte dimensioni, si sono in larga misura sostituite a quelle medio- grandi nell’essere di supporto allo sviluppo.
Negli anni ’80 le profonde ristrutturazioni industriali hanno consentito alle medio-grandi imprese notevoli recuperi di efficienza e redditività.
Negli anni ’90, tuttavia, le grandi imprese hanno subito una battuta d’arresto (complici anche le vicende di tangentopoli) e, anziché investire sull’innovazione tecnologica, hanno ripiegato su settori meno esposti alla concorrenza internazionale. A loro volta le piccole e medie imprese hanno subito, nei settori del loro tradizionale impegno (beni di consumo e intermedi) la concorrenza dei paesi in grado di produrre a basso costo) senza poter più ricorrere come prima alla svalutazione della lira, in previsione della moneta unica europea (entrata in vigore il 1° gennaio 2002).
Nella prima decade degli anni ‘2000, si riscontra in Italia, un basso tasso di crescita rispetto ai paesi industrializzati. Di fronte alle fragili strutture economiche del paese venne auspicato, con amara arguzia, che era ormai il caso di produrre
“qualche pentola in meno e qualche chip in più”.
Nella seconda decade degli anni ‘2000 la grande crisi del 2008, ha ulteriormente peggiorato una situazione già di per se critica e ha evidenziato l’incapacità di assorbire gli effetti della crisi e recuperare, quanto meno, il livello precrisi. L’Italia appare molto attardata a livello di ricerca e di innovazione e incapace di attirare gli investimenti esteri.
Considerato che, siamo molto indietro negli investimenti sulla ricerca e sull’innovazione, oltre che nelle infrastrutture. Per giunta il nostro paese non è in grado di attirare gli investimenti esteri e anche di trattenere le sue giovani leve più qualificate.
Pur con le sue carenze strutturali, il mercato occupazionale italiano ha avuto bisogno della manodopera immigrata, la cui consistenza è aumentata notevolmente negli anni ‘2000.
Gli immigrati sono andati assicurando un supporto all’economia italiana, come lavoratori dipendenti, come consumatori e infine come imprenditori. Infatti, negli anni ‘2000 essi sono diventati protagonisti anche con le loro imprese che, seppure di dimensioni ridotte (molto
spesso unipersonali), hanno avuto una crescita straordinaria.
Gli anni ‘2000 sono anche quelli della delocalizzazione di diverse attività produttive delle aziende italiane, interessate a fruire all’estero di condizioni più favorevoli sotto l’aspetto fiscale e amministrativo. Ciò ha suscitato interesse anche nelle piccole e medie aziende, anche se da tempo si va constatando che la delocalizzazione non costituisce la soluzione sostanziale ”
Gli imprenditori stranieri, che si è cercato di incentivare con un’apposita norma, non preferiscono l’Italia per il loro investimenti e piuttosto si mostrano interessati a rilevarne i marchi famosi..

I dati sull’imprenditoria immigrata in Italia
Per i dati sull’imprenditoria a gestione immigrata ,si far riferimento al Centro Studi e Ricerche IDOS, che dal 2014 pubblica il Rapporto immigrazione e imprenditoria insieme alla Confederazione Nazionale dell’Artigianato delle Piccole e Medie Imprese (CNA), con il supporto prima di Money Gram, poi dell’UNAR e nel 2020 anche con il coinvolgimento dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni(OIM)
Dell’articolata analisi, condotta dal Centro IDOS vengono qui riportati solo quelli ritenuti necessari per individuare linee tendenziali dell’imprenditoria immigrata
Anche nel 2018 è continuato l’aumento annuale delle imprese degli immigrati, (15.000 in più al netto di quelle che sono cessate), mentre il numero delle aziende italiane ha continuato a diminuire(5500 unità in meno). Questa dinamica positiva non si è mai arrestata neppure dopo la grande crisi mondiale del 2008, tra il 2011 e il 2018 le aziende degli immgrati sono aumentate di 148.000 unità, al contrario, quelle gestite da italiani sono diminuite di 158.000 unità.
Le imprese a gestione immigrata, ormai un decimo del totale, hanno superato le 600.000 unità.(602.180)e in un caso su 4, hanno le donne immigrate come titolari, oltre tutto ,in forte aumento rispetto a quelle degli uomini, si può ipotizzare che il concetto di “pari opportunità” sta portando le donne a operare in aziende, una volta considerate appannaggio esclusivo dei maschi.
Il protagonismo degli Immigrati si concentra maggiormente nel commercio (oltre un terzo del totale), il settore più dinamico insieme agli altri comparti dei servizi, e in edilizia (oltre un quinto del totale, nonostante la crisi), mentre le imprese del settore industriale devono affrontare maggiori difficoltà,.
A segnalarsi con aumenti più alti sono le attività di noleggio, agenzie di viaggio, servizio alle imprese, alloggio e (soprattutto) di ristorazione. Nei servizi alle imprese si registra l’incidenza più elevata delle imprese immigrate (17,% delle imprese del comparto).
L forma d’impresa più diffusa, in quasi 8 casi su 10 (77,7%), è quella individuale, come del resto per le micro e piccole imprese italiane, a riprova della fragilità complessiva di questo impegno imprenditoriale, pur rappresentando una ricchezza, anche culturale, questa diffusione del fare impresa. Sono tuttavia, sono in forte crescita le società di capitale, indice di stabilizzazione del percorso imprenditoriale, anche se ancora non molto numerose (85mila unità) e, specialmente nei servizi e le imprese cooperative.
. Si riscontra una maggiore, seppure ancora limitata, partecipazione, degli immigrati alle start-up innovative:(1.652 alla fine del 2018 e con almeno un immigrato nella compagine societaria, pari al 2,5% del totale.
Le comunità immigrate maggiormente protagoniste, con quote di poco superiori al 10% del totale, sono le quelle marocchina, cinese e romena: la prima si distingue nel commercio, la seconda anche nel manifatturiero e la terza in edilizia..
La distribuzione degli immigrati imprenditori è fortemente disuguale perché il 77,4% opera nel Centro-Nord Italia e tuttavia, in alcuni contesti meridionali, la tendenza all’aumento di queste imprese è molto marcato. Nel Nord solitamente il settore prevalente e quello edile, mentre nel Centro e nel Meridione quello commerciale.

Un’affermazione realizzata negli anni della
crisi mondiale
Prima del 1990, anno dell’’entrata in vigore della legge n. 39 (la cosiddetta “legge Martelli”), per poter divenire imprenditore in Italia, anche semplicemente artigiano o commerciante, bisognava essere originari di un Paese legato all’Italia da un accordo di reciprocità in materia di lavoro autonomo, condizione realizzata solo dai paesi CEE e da quelli a sviluppo avanzato. Per questa ragione ,il protagonismo imprenditoriale degli immigrati non comunitari fu praticamente precluso.
Un’apertura si ebbe con la citata legge del 1990, che però attribuì espressamente la possibilità di esercitare un lavoro autonomo agli immigrati regolarizzati in forza della stessa legge, lasciando in dubbio la sua estensione anche agli immigrati già residenti. La tesi favorevole all’estensione , fu avallata dalla Corte di Cassazione solo a distanza di molti anni, quasi alla vigilia della legge n. 40 del 1998, che attribuì espressamente a tutti gli immigrati residenti in Italia, la possibilità di esercitare un lavoro autonomo, a prescindere dall’esistenza di un accordo di reciprocità.
I primi protagonisti di un lavoro autonomo imprenditoriale, oltre ai cittadini provenienti da Stati membri della Comunità Europea o dagli Stati aderenti all’OCSE (presenti in Italia più per ragioni professionali che per l’esercizio di un’attività aziendale), furono quindi gli immigrati regolarizzati della legge Martelli, in pratica, per lo più, quelli orientati a svolgere un’attività come ambulanti o come titolari di qualche negozio di prodotti etnici.
Dall’’inizio del 1990 (circa mezzo milione di immigrati, se si escludono i regolarizzati) all’inizio del 2000 (1.340.000 immigrati totali residenti), nonostante l’aumento numerico intervenuto, la normativa restrittiva impedì lo sviluppo della vocazione imprenditoriale degli immigrati : furono solo circa 5.700 le imprese intestate agli immigrati prima del 1990, alle quali se ne aggiunsero 28.000 nella decade successiva
Tra il 2000 e il 2007 (anno significativo in quanto antecedente lo scoppio della crisi mondiale), la popolazione immigrata oltrepassò il raddoppio, sia in virtù della grande regolarizzazione del 2002 (poco più di 700.000 persone) sia a seguito delle quote annuali per ingresso lavorativo, portate a 170.000 l’anno e potenziate, nel 2006, con una quota suppletiva di 350.000 unità.
La modifica della normativa nel 1998 e l’aumento numerico intervenuto in quel periodo, non mancarono di influire sulla dimensione quantitativa dell’imprenditoria immigrata. Al 31 dicembre 2007, secondo l’archivio di Unioncamere, gli imprenditori nati all’estero titolari di impresa erano 225.408, così ripartiti: lo 0,6% aveva iniziato l’attività imprenditoriale entro il 1979, il 2,2% tra il 1980 e il 1989, il 12,4% tra il 1990 e il 1999 e l’84,9% dal 2000 in poi. Queste percentuali attestano che, il fenomeno dell’imprenditorialità immigrata, è iniziato a partire dal 2000 quando, approvato il Regolamento di attuazione della legge n. 40/1998, le disposizioni sul superamento delle barriere in materia di lavoro autonomo ,sono diventate pienamente operative.
Tra il 2000 e il 2007, gli immigrati hanno costituito 191.000 imprese con un ritmo crescente, ma mediamente 24.000 al mese, con un ritmo superiore a quello riscontrato tra gli italiani. Pertanto, ipotizzare l’aumento di altre 200.000 imprese gestite da immigrati, come fatto dalla Fondazione Ethnoland nel 2007, era un auspicio ragionevole (e in effetti raggiunto e superato in meno di un decennio).
Il termine ”imprenditore immigrato” merita una precisazione in ragione della sua ambiguità. Questo fu il compito della collaborazione instaurata tra la Confederazione Nazionale dell’Artigianato e delle Piccole e Medie Imprese (CNA) e il Centro Studi e Ricerche IDOS, nel capitolo sulle imprese degli immigrati, che insieme curarono per le edizioni annuali del Dossier Statistico Immigrazione. La CNA ottenne da UNIONCAMERE i dati che, tra tutte le imprese registrate a nome di persone nate all’estero, si estrassero quelle che avevano effettivamente come titolare un cittadino straniero. Nel 2007, tra le 225.408 imprese immigrate solo i tre quarti (165.114) risultarono intestate a stranieri.
Questa distinzione fu utile per far capire che, in un Paese di tradizionale emigrazione, immigrato e straniero, non erano la stessa, perché il termine poteva includere anche i gli italiani rimpatriati. In effetti, prima che venisse sottolineata tale distinzione, in diversi rappporti provinciali sull’immigrazione curati, si additavano i tedeschi o gli svizzeri (o i cittadini di altri paesi europei ed extra ) tra i principali protagonisti dell’imprenditoria immigrata: in realtà si trattava solo di italiani rimpatriati da qui paesi.
Col tempo, però, IDOS e CNA, si resero conto che l’archivio delle Camere di Commercio non era sempre in grado di registrare il dato sulla cittadinanza straniera degli imprenditori. Questo sotto dimensionamento in qualche misura riguardava anche i dati relativi al 2007: a questa conclusione si arriva , se si fa riferimento all’archivio ISTAT sui rimpatri, ridottisi fortemente a partire dagli ’80 ( di 30.000/40.000 unità l’anno) tenendo anche conto dell’età solitamente avanzata, di quelli rientrati in quel periodo e di quelli tornati in Italia nella prima fase del dopoguerra. Per questo motivo il Centro IDOS e la CNA, nel Rapporto Immigrazione e Imprenditoria, la cui prima edizione annuale è del 2014, hann preso in considerazione tutti gli
“imprenditori immigrati”, con l’avvertenza che una modesta quota è costituita da italiani rimpatriati e, da ultimo, anche da stranieri ormai cittadini italiani.
, Mentre all’inizio del 2008 le imprese gestite da immigrati influivano nella misura del 3,6% sul totale delle imprese attive (225.408 su 6.169.126) alla fine del 2018 l’incidenza è aumentata al 9,9%.

L’imprenditoria immigrata nell’analisi sociologica
In Italia l’imprenditoria immigrata ha iniziato a svilupparsi in misura consistente dopo l’approvazione della legge 40/1998, richiamando l’attenzione dei sociologi e di tutti coloro che si occupavano di politiche imprenditoriali. I Paesi di tradizionale immigrazione, sia in Nord America che in Europa, avevano conosciuto questo fenomeno già in precedenza ed è comprensibile che le prime teorie interpretative al riguardo siano nate in quei contesti, specialmente negli Stati Uniti. Di seguito si farà cenno a quelle teorie e poi si si riferirà sulle interpretazioni sociologiche elaborate in Italia tra il finire degli anni ’90 e gli anni ‘2000. Far riferimento ai numerosi studi successivi, non rientra nell’economia di questo saggio, che si limita a porre in evidenza gli spunti ,che aiutano il lettore a rendersi conto delle dinamiche, utili ad interpretare in maniera non frammentaria, l’imprenditoria degli immigrati in Italia.
Rispetto alle teorie elaborate sulle emigrazioni d’élite, svoltesi fino alla metà del XIX secolo è evidente,il loro significato di prevalente interesse storico, trattandosi di realtà migratorie dalle caratteristiche diverse da quelle che contraddistinguono le migrazioni di massa. Anche per questi flussi migratori è necessario precisare non solo la differenza di quelli svoltisi prima della seconda guerra mondiale e quelli postbellici (all’interno dei quali si distinguono gli ultimi decenni permeati da un’intensa globalizzazione), ma bisogna anche precisare che, a seguito delle caratteristiche dei diversi contesti che ovviamente hanno influito sull’inserimento delle comunità immigrate, gli orientamenti evidenziati in un Paese, non possono considerarsi automaticamente riferibili a un contesto nazionale diverso, ad esempio dagli Stati Uniti all’Italia.
Un tratto che accomuna tutti gli studi, è l’apprezzamento dell’imprenditorialità degli immigrati. Werner Sombart, nei suoi approfondimenti sulle origini del capitalismo e della società occidentale moderna, riconosce un ruolo fondamentale della figura dello straniero imprenditore, ritenuta cruciale per lo sviluppo. Egli identifica nelle minoranze straniere , il fulcro per i cambiamenti economici e sociali . Gli immigrati, poiché non fanno parte della maggioranza conformista e tradizionalista,sono soggetti a uno stato di esclusione che innesca il cambiamento. Questa analisi si riferisce all’immigrazione svoltesi nel XVIII e nella prima metà del XIX secolo, quando a espatriare erano delle élite culturali, solitamente titolari di una buona posizione economica, costretti a farlo per motivi politici e religiosi, cercando con il successo, il riscatto all’estero ,anche a costo di andare spesso controcorrente
Per Sombart lo straniero, non essendo legato alle tradizioni conformiste del Paese di accoglienza, concentra in sé i tratti tipici dell’imprenditore capitalistico e cioè il senso degli affari, lo spirito d’iniziativa, la capacità d’innovazione, il gusto del rischio, la propensione ai contatti internazionali e uno spiccato senso del risparmio.
Nell’esperienza italiana gli emigrati di quel periodo furono dei singoli esuli, diventati esuli a seguito de soffocamento dei moti risorgimentali. Ad essi l’analisi di Sombart si adatta poco: ad esempio, negli Stati Uniti Filippo Mazzei fu un imprenditore amico del presidente Jefferson e di altri eminenti politici , in ragione della loro alta preparazione, svolsero la funzione di consoli (così fu poi anche per Mazzei quando ritornò in Europa).Un caso, con qualche analogia delineato da Sombart, fu quello del gruppo dei valdesi, perseguitati in Piemonte, che si trasferì prima nei Paesi Bassi e poi in Olanda.
Successivamente, col modificarsi delle caratteristiche dell’insediamento degli immigrati, sono mutate anche le interpretazioni riguardanti il loro coinvolgimento imprenditoriale.
Inizialmente è stata dedicata un’attenzione prevalente alle loro differenze, come comunità immigrate, facendone derivare le motivazioni e i percorsi.
In una seconda fase è stata dedicata una maggiore attenzione, alle connessioni tra imprenditoria immigrata e sistemi economici delle società.
Quindi sono stati presi in considerazione anche i fattori istituzionali che possono favorire la creazione delle piccole imprese..
Gli studiosi hanno iniziato con il sottolineare che il background socioculturale, religioso, professionale, di alcuni gruppi di immigrati influisce sul loro percorso imprenditoriale, come nel caso degli ebrei, una comunità molto coesa, e dei cinesi, dei giapponesi, dei coreani segnati dalla tradizione confuciana.
Quindi si è passati a formulare ipotesi sullo svantaggio degli immigrati, che li hanno portati a far perno sul lavoro autonomo ,visto come un rimedio alla difficoltà di inserimento nel mercato occupazionale. Come aspetti dello svantaggio sono stati indicati la scarsa padronanza della lingua, il ridotto livello di scolarizzazione, il mancato riconoscimento della professionalità acquisita e le diverse discriminazioni, fattori che nell’insieme ,pregiudicano un normale accesso al lavoro, lasciando a loro disposizione gli spazi non appetibili, perché poco redditizi e caratterizzati dalla precarietà.
,. Secondo la teoria della mobilità bloccata gli immigrati, trovandosi in una posizione svantaggiata per farsi valere negli usuali percorsi del lavoro dipendente, tendono a impegnarsi nel lavoro autonomo, e più sono stati svantaggiati, più sono motivati a seguire questa via alternativa.
In certi contesti, ha indirizzato al lavoro autonomo, l’espulsione dalle aziende industriali e la conseguente disoccupazione. Questo è quanto avvenne in Europa e in Italia negli anni ’70, in concomitanza con l’avvio del processo di ristrutturazione del sistema industriale, un periodo in cui gli italiani e poi gli immigrati si impegnarono nella creazione di piccole imprese, che sembravano destinate a sparire nel periodo della produzione di massa.
La teoria della mobilità bloccata, è stata criticata per non aver tenuto sufficientemente in considerazione le caratteristiche dei singoli contesti nazionali e delle singole collettività, motivo per cui non tutte, tra esse ,si impegnano nel lavoro autonomo.
La teoria di middleman minorities è stata formulata con riferimento agli immigrati che si dedicano ai servizi commerciali, e finanziari e si rivolgono ad una comunità numerosa, e operano in aree urbane disagiate. Le comunità di riferimento erano, quella italiana e quella ebraica negli Stati Uniti, poi sostitiute da coreani e cinesi. La promozione di questa imprenditorialità si basa sulla solidarietà tra i membri della comunità, anche per il reperimento delle risorse necessarie e per la resistenza all’assimilazione, da cui ne deriva la segregazione residenziale e il mantenimento dei tratti distintivi. La gestione di questa attività è paternalistica, richiede lunghi orari di lavoro, non tecnologizzata, bensì labour intensive e in grado di ridurre i costi.
La teoria della “successione ecologica” ha ritenuto che la piccola borghesia impegnata in attività imprenditoriali, non abbia la capacità di riprodursi in maniera adeguata e abbia avuto bisogno degli immigrati come propri successori, disposti a operare nei settori più pesanti e rischiosi e nei quartieri più disagiati.
Negli anni ’80 è stata formulata la teoria delle economie di enclave. Il riferimento è a quelle economie ad alta concentrazione di imprese gestite da immigrati. Si è di fronte a mercati del lavoro distinti difficilmente permeabili tra di loro. Gli immigrati si concentrano nel settore “secondario”, quello cioè delle attività più precarie e faticose, meno confacenti alle attese dei lavoratori nazionali. L’alternativa per sfuggire all’inclusione nel mercato del lavoro secondario, quello più emarginato, consiste nel costituire delle imprese nelle vicinanze delle comunità etniche.
Queste imprese offrono, solo al proprio gruppo, prodotti specifici e difficilmente reperibili, e poi alla popolazione in generale. Tuttavia queste imprese, potenziandosi e diversificandosi, sono in grado di rivolgersi anche agli autoctoni.
La teoria del modello interattivo ha collegato in modo organico, lo sviluppo dell’imprenditoria etnica con le esigenze dei sistemi economici avanzati, cercando di controbilanciare l’eccessiva importanza assegnata dalle teorie culturaliste, alle risorse etnoculturali dei gruppi, mentre devono essere presi in considerazione anche i vincoli politico-economici.
Come si vede, le prime teorie hanno dato adito a ulteriori approfondimenti , alla formazione di teorie composite, che hanno ripreso, in parte valorizzandoli e in parte modificandoli, i precedenti approfondimenti.

La tipologia delle imperse immigrate nel contesto
italiano
Queste teorie sono state formulate sulla base delle esperienze estere, in particolare di quella statunitense. Tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni ‘2000 anche in Italia sono stati pubblicati importanti studi sull’imprenditoria immigrata, che ovviamente tengono conto delle precedenti teorie basandole, però, nella specificità del contesto italiano.
Maurizio Ambrosini ha fornito una ripartizione tipologica delle imprese a gestione immigrata. In questa tipologia si ritrovano forme che erano prevalenti all’inizio della presenza straniera in Italia e altre legate alla succesiva evoluzione:
impresa tipicamente etnica: rivolta ai bisogni di una comunità immigrata con la fornitura di prodotti o servizi specifici;
impresa intermediaria: una sorta di mediazione per la fornitura di prodotti non tipicamente etnici come traduzioni e consulenze legali, e attività di servizi quali i phone centers, le agenzie di viaggio, di money transfer, di intermediazione finanziaria e immobiliare, commercio di prodotti all’estero:
impresa etnica allargata: finalizzata alla fornitura di prodotti a una clientela mista ( immigrati e autoctoni) per poter avere un numero adeguato di clienti che garantiscano la sopravvivenza;
impresa prossima: (rivolta alla fornitura di servizi specifici per la popolazione immigrata, ma anche in grado di attirare gli autoctoni, come ad esempio nel caso di vendita di biglietti per destinazioni extraeuropee;
impresa esotica: finalizzata a fornire prodotti derivanti dalle tradizioni culturali del paese di origine. Da Martinelli si rilevano queste specificazioni: oggetti, ingredienti, sapori, immagini, codici linguistici e riferimenti di vario genere che hanno significati simbolici particolari per i consumatori della comunità immigrata. Le attività di questo tipo si collocano nella ristorazione, nell’alimentazione, nell’abbigliamento nell’arredamento e la musica;
impresa aperta: impegnata nella produzione di beni e servizi senza connotati etnici specifici, anche in concorrenza con le imprese degli autoctoni, sia nei servizi ,che nella produzione industriale.
Imprese rifugio o marginali: questa ulteriore tipologia, secondo Succhetti, il tipico esempio di tali imprese è l’ambulantato.
Nelle linee di seguito proposte per la lettura dell’imprenditoria etnica in Italia, oltre agli spunti desunti dalle teorie classiche sull’argomento formulate nel mondo anglosassone e a quelle proposte, dai pochi autori citati in nota, si tiene conto anche degli apporti forniti da altri autori succedutisi nel corso degli anni ‘2000,durante i quali l’imprenditoria immigrata si è imposta all’attenzione come una realtà rilevante, a partire dalla sua considerevole crescita quantitativa.
Riferendosi al contesto mondiale, la Sassen, è arrivata a sostenere che l’attività imprenditoriale degli immigrati, costituisce ormai uno dei caratteri distintivi delle «nuove economie metropolitane. Sembra però esagerato, ritenere che la figura dell’imprenditore abbia soppiantato quella dell’operaio immigrato, tipica ai tempi della produzione di massa. Gli imprenditori, pur con la loro crescente importanza, continuano a essere una minoranza, seppure cospicua, tra gli immigrati inseriti nel mondo del lavoro.
Per dissuadere da una lettura semplicistica va premesso che il funzionamento dell’economa dipende da molteplici fattori, quali l’apertura delle norme, la funzionalità delle istituzioni, le caratteristiche dei contesti sociali di accoglienza, il patrimonio socioculturale dei protagonisti e la loro intraprendenza individuale, senza trascurare il sostegno della comunità di appartenenza.
Un quadro realistico del protagonismo imprenditoriale degli immigrati:

Aspetti specifici del contesto italiano rispetto all’imprenditoria immigrata

Gli ostacoli da superare nel contesto italiano 

Se si considera l’evoluzione dell’imprenditoria immigrata, come indicatore d’integrazione degli immigrati, si constata che il processo di inserimento economico si è sviluppato molto più velocemente rispetto all’inserimento nella società, che comporta una maggiore disponibilità da parte degli italiani.
La reazione più significativa, in un paese trasformatore come l’Italia e ad alta tecnologia in molti settori, è stata conseguita da quegli imprenditori che con i loro prodotti hanno saputo interpretare nuovi bisogni della società, acquisendo molti clienti italiani, ricorrendo anche all’innovazione tecnologica. Questa fase è stata ormai avviata nonostante le difficoltà tipiche del contesto italiano:
crescita bassa, credito difficile, burocrazia pesante, maggiori difficoltà per le piccole e medie imprese a seguito della globalizzazione.
Di notevole pregiudizio può essere la ridotta dimensione delle aziende ,molto spesso unipersonali; tuttavia, un adeguato ricorso alla tecnologia e a internet può consentire di contenere i costi sia in fase di produzione, che di commercializzazione.
Questo eccezionale protagonismo è stato solo un po’ rallentato, ma non soppresso dagli effetti della crisi mondiale del 2008. Possiamo affermare che gli imprenditori immigrati, si sono maggiormente inseriti nei comparti considerati meno appetibili dagli autoctoni, dall’edilizia, al settore turistico – alberghiero e in diversi rami dell’industria, realizzando anche in diversi casi obiettivi più ambiziosi, superando difficoltà maggiori in quanto stranieri.
A livello di difficoltà il differenziale consiste nelle procedure per il riconoscimento dei titoli di studio, nel fatto di doversi confrontare con un’altra lingua, nella necessità di riqualificarsi per adattarsi al nuovo contesto e di reperirvi i clienti, nell’impratichirsi della legislazione del posto, nei contatti con le strutture pubbliche.
Il differenziale etnico consiste anche nella loro maggiore capacità di superare gli ostacoli.
Grave è stato e continua ad essere,il reperimento dei finanziamenti necessari . Purtroppo gli immigrati non sono in grado di fornire le usuali garanzie alla pari degli italiani e non sempre sono sufficienti gli aiuti reperiti all’interno della propria comunità, per cui molte valide potenzialità imprenditoriali restano inespresse.
Bisogna tenere conto, su un piano più generale, che il contesto più favorevole, da considerare necessario per lo sviluppo ottimale delle imprese, non consiste solo in disposizioni di legge e in misure amministrative , ma anche in una mentalità più sensibile al ruolo imprenditoriale.

Gli aspetti principali dei percorsi imprenditoriali
Tenendo conto sia delle riflessioni sociologiche e di quanto emerso delle ricerche sul campo, è possibile riassumere gli aspetti essenziali dell’esperienza italiana:
Va precisato che la qualifica di imprenditore spetta tanto a chi è titolare di aziende di una certa consistenza (fino a 50 dipendenti per potere essere inclusa nel settore dell’artigianato) che a quelle unipersonali.
la disponibilità degli immigrati ad affrontare qualsiasi fatica pur di riuscire, con l’orgoglio di poter poi affermare di non aver “rubato”il posto di lavoro agli italiani ma di averlo creato;
• la rigidità della normativa, che fa propendere un certo numero di immigrati, a operare come lavoratori autonomi per assicurarsi la garanzia del soggiorno.
• l’umile inizio della loro storia imprenditoriale come per esempio i marocchini, approdati nel Sud, che iniziarono a praticare l’ambulantato, il che portò gli italiani a qualificare sbrigativamente tutti gli immigrati come “vu’ cumprà.
• per il successivo avvio di un’attività autonoma sono state utili le competenze acquisite come lavoratori dipendenti o attraverso corsi professionali.
• l’apprezzamento del lavoro autonomo, come possibilità di porre fine ai disagi e delle angherie subite dopo da parte di trafficanti degli esseri umani prima e dei caporali poi e alla subalternità sperimentata all’interno delle aziende.
• l’inserimento nel settore autonomo – imprenditoriale come rimedio giuridico all’incertezza di poter rinnovare il permesso di soggiorno come lavoratori dipendenti.
• la possibilità del singolo immigrato di affermarsi anche secondo modalità lontane dal gruppo di appartenenza, nonostante usualmente l’appartenenza al gruppo determina una certa omogeneizzazione.
• l’importanza delle agevolazioni pubbliche per portare a intraprendere l’attività autonoma(riduzione delle tasse, incentivi e prestiti nella fase di avvio) senza sottostimare, in molti casi, che il sostegno della comunità di appartenenza può essere determinante.
• la diversa capacità di resistenza e di affermazione degli immigrati rispetto agli autoctoni, seppure sobbarcandosi orari estenuanti e spesso sottopagando il personale che aiuta.
• il ridimensionamento del pregiudizio che per gli per gli immigrati, le iniziative riescano sempre bene, dimenticando che tra di loro è alto il numero delle chiusure delle attività anche a seguito di fallimento.
• la strategia di praticare bassi costi al fine di poter contattare e acquisire un maggior numero di clienti, migliorando tra l’altro nelle relazioni quotidiane, la conoscenza della lingua italiana.
• la probabilità che le seconde generazioni non siano disposte a continuare le iniziative autonome che i genitori hanno condotto con esito positivo ma con grandi sacrifici ( la questione del ricambio generazionale o trapasso è valida anche per l’artigiano italiano).
• l’importanza dell’istruzione per riuscire ad a operare in ambiti più impegnativi e più tecnologizzati.
• l’assoluta preminenza delle doti personali, a prescindere dalle caratteristiche della comunità di appartenenza, per riuscire ad affermarsi con imprese innovative.
• la necessità di rendere più favorevoli, per le imprese sociali, le modalità di partecipare ai progetti e ai programmi di sostegno, attenuando la priorità accordata alle imprese con lunga esperienza e con elevati budget.
• la propensione a questo impegno favorita da diverse comunità di appartenenza, per cui di fatto alcuni gruppi nazionali primeggiano per numero di lavoratori autonomi, salvo restando che la vocazione può dipendere anche da stimoli recepiti nel contesto italiano.
• il gruppo di appartenenza può essere, con le sue imprese, la palestra in cui i futuri imprenditori possono esercitarsi inizialmente come lavoratori dipendenti, per poi dare vita alla loro attività in proprio nello stesso ambito.
Questa sintetica distinzione per punti merita di essere completata con qualche annotazione.
Il termine “imprenditoria immigrata”, qui volutamente utilizzato, è più adeguato dalla portata più generale, rispetto a” imprenditoria etnica”, che fa riferimento solo ad alcune tipologie di attività da essi svolte e poteva essere accettato solo nella fase del primo inizio dell’imprenditoria immigrata, quando in prevalenza i clienti erano gli stessi immigrati e i prodotti messi a disposizioni erano tipici dei Paesi di origine.
Il problema del credito per le piccole e medie aziende è veramente cruciale, perché le banche, considerata la complessità delle relative pratiche, hanno interesse a concedere prestiti non inferiori a una certa somma (attorno ai 100.000 euro), mentre per le micro e piccole imprese solitamente è sufficiente un credito pari a un terzo (o anche meno) di tale importo. Perciò le strutture abilitate a trattare il microcredito, andrebbero più adeguatamente supportate con fondi pubblici di garanzia, così da incentivare l’iniziativa imprenditoriale sia degli italiani che degli immigrati.
“Le imprese rosa” delle donne straniere meritano una più attenta considerazione, sia per il ritmo più elevato di crescita, sia per altri motivi. La via femminile all’imprenditoria è più difficile, tanto tra gli italiani quanto tra gli stessi immigrati, per i pregiudizi che persistono nei confronti del ruolo femminile. Per essere imprenditrici ci vuole più tenacia per riuscire a sfruttare le opportunità che si presentano in diversi comparti del commercio, dell’artigianato e dei servizi, Le immigrate, sfatando una concezione stereotipata del loro ruolo all’interno delle loro comunità di appartenenza, che le qualificava come passive e subalterne, sono diventate attive anche in comparti che per tradizione si consideravano appannaggio degli uomini.
Per completezza del discorso, anche se qui non viene condotto uno specifico approfondimento, va aggiunto che l’imprenditore immigrato svolge una funzione economica non solo a beneficio del paese che lo ha accolto, ma anche del paese di origine, non solo con l’invio delle rimesse ma, spesso, anche con attività che costituiscono un ponte tra i due paesi: per quanto in una fase ancora non sufficientemente sviluppata, queste virtualità costituiscono una speranza per il futuro, specialmente se le seconde generazioni, più a loro agio nel sistema socio-culturale del paese che li ha accolti e anche a conoscenza delle caratteristiche del paese di origine dei loro genitori, sentiranno a loro volta la vocazione imprenditoriale.

L’artigianato: le imprese artigiane della tradizione artistica ed il futuro tecnologico

La rilevanza e il pregio dell’artigianato artistico
Per esaminare in profondità il settore artigianale bisogna affrontare vari aspetti: la legislazione del settore, la considerazione da parte dell’opinione pubblica, la praticabilità degli antichi e dei nuovi mestieri, il ricorso alle tecniche digitali e le possibilità occupazionali che ne possono derivare e insieme all’impatto economico
Innanzi tutto va ribadita la saggezza insita nel criterio di affrontare il futuro, tenendo conto del passato, di modo che l’attenzione all’artigianato non assuma una connotazione prettamente nostalgica.La tradizione artigianale italiana è tuttora in grado di farsi valere per ingegno creativo, professionalità ,che assicurano prodotti di nicchia, apprezzati da enti, italiani e stranieri. Per la grande industria la tecnologia e l’innovazione coincidono sempre di più con l’automazione , mente per l’artigianato essa è finalizzata al potenziamento della capacità espressiva dell’artigiano e all’alta qualità del prodotto. Anche quando vengono utilizzati dei macchinari, nei processi produttivi prevale sempre la manualità.
Sussiste una certa analogia con i prodotti alimentari italiani, quali la genuinità e la prelibatezza per il loro alto livello di qualità, dovuto alle caratteristiche dei campi, ai sistemi di coltivazione e alle varietà delle produzioni ortofrutticole e di allevamento del bestiame e all’arte (un misto di tradizione e di modernità) di confezionare i prodotti.
La cultura della bottega assicura ancora la trasmissione delle conoscenze artigianali di eccellenza. L’artigianato artistico, che aggiunge raffinatezza alla manualità professionale, è ricercato anche in questo periodo di globalizzazione e produzione in serie, viene prodotto da aziende in crescita e assicura un sostegno all’occupazione e all’economia italiana.
L’artigianato artistico include diversi comparti: ceramica, gioielleria, la moda (dal tessile al ferro battuto) il vetro, il marmo, l’ebanisteria, l’affresco, la calzoleria la pelletteria fino a sconfinare in quello industriale ,nella meccanica,(da quella di precisione, alle biciclette e a vari altri componenti).
Sarebbe grave non contrastare la scomparsa delle competenze artigiane. A tal fine è stato firmato uno specifico protocollo di alleanza per l’artigianato artistico, Associazione di Fondazioni e Casse di Risparmo Spa (ACRI) Unioncamere, Cna e Confartigianato. Il protocollo si propone di incrementare gli inserimenti formativi, sostenere l’apprendistato, incentivare le imprese, far perno sull’utilizzo delle tecnologie per perfezionare i materiali e gli stili, rendere più efficace la promozione.

Le aziende artigiane confrontate con internet e
l’e-commerce
Le imprese dell’artigianato artistico e, più in generale, tutte le piccole e medie imprese possono trovare in internet un valido supporto alla loro affermazione ,sia in Italia che all’estero, obiettivo quest’ultimo prima possibile solo a quelle dotate di consistenti risorse finanziarie. Diverse ricerche hanno evidenziato che l’utilizzo di internet per l’e-commerce è in grado di favorire l’aumento dei clienti e del fatturato.
Per la conoscenza di internet sono state promosse diverse iniziative, anche da Google stesso in collaboazione con Unioncamere nell’ambito degli orientamenti del Governo e dell’Unione Europea (Programma Skill for jobs). Ad esempio, sono state assegnate delle borse di studio a giovani laureati, chiamati a mettersi a disposizione delle aziende dopo essere stati opportunamente preparati.
Un sito realizzato dal Google Cultural Institute in collaborazione con Unioncamere e Il Ministero dell’agricoltura, ha offerto numerose mostre digitali,, curate in italiano e in inglese, per far conoscere l’eccellenza italiana nel settore dell’agroalimentare e dell’artigianato.
Queste mostre presentano prodotti ultra famosi dell’artigianato, e anche quelli dell’agro-alimentare, come il Grana Padano, Il Parmigiano Reggiano, il Prosciutto di San Daniele o il Prosciutto di Parma, il Vetro di Murano ,il Tessile Biellese, il Pomodoro di Pachino, il Radicchio di Treviso, il Variegato di Castelfranco o il peperone di Senise o quello di zero branco Treviso).
Vengono anche presentate eccellenze meno note come la pietra di Cuneo (particolarmente apprezzata da Leonardo da Vinci, che la citò nei suoi scritti), il tessile di Prato con (i cui tessuti sono stati realizzati per confezionare gli abiti per Russel Crowe per il ruolo nel film “Il gladiatore”, e quelli utilizzati da Mel Gibson per “Braveheart”.
Queste mostre guidano il visitatore attraverso una vera e propria narrazione digitale, fatta di foto, video, documenti storici, lettere commerciali, affissioni pubblicitarie, e racconti, che riportano indietro nel tempo, e aiutano a conoscere meglio un prodotto e il suo territorio.
Con le mostre si intrecciano aneddoti che affondano le radici nella storia. Per esempio, non tutti sanno che il cappello che Federico Fellini indossava sul set è un tipico cappello di Montappone, dalla storia antica perché prodotto sin dal 1300: un oggetto dalle origini leggendarie, oggi esposto nel Museo del Cappello di Montappone.
Una mappa dell’Italia agevola la consultazione delle mostre e consente di individuare il luogo di origine dei prodotti presentati, come anche consente organizzare la conoscenza del territorio italiano,per tipologia dei prodotti.

Gli immigrati e il rapporto con i mestieri artigiani

L’apporto degli immigrati nell’ambito
dell’artigianato
La maggior parte delle imprese degli immigrati è a carattere unifamiliare e molte sono quelle artigianali: tuttavia, non tutti i mestieri artigianali tradizionali possono essere da essi realisticamente esercitati o, compito ancora più proibitivo, recuperati.
Nel Novecento erano numerosi in Italia i mestieri artigianali e, in parte ancora praticati nell’immediato dopoguerra (specialmente nelle aree rurali), attualmente molti o sono scomparsi o in via di estinzione. Così è avvenuto per gli ombrellai e gli arrotini (salvo le sempre più rarefatte prestazioni di nomadi che, per strada dalle auto munite di altoparlanti, annunciano la loro momentanea disponibilità ad affilare i coltelli e riparare gli ombrelli); e i maniscalchi (che ferravano i cavalli e lavorano il ferro, come oggi fanno i fabbri)). Lo stesso destino riguarda le tessitrici con il loro telaio casalingo; i seggiolari (abilissimi nel riparare il fondo delle sedie intrecciando fili di raffia), gli stagnini (che, per motivi igienici, ricoprivano di stagno, metallo neutro, l’interno dei recipienti di zinco), i cestari, i cerai, i cordai, i guantai, i materassai (le cui botteghe erano aperte fino a poco tempo fa), le ricamatrici, i sellai, gli scopettai (produttori di spazzole e scope), a Roma nel centro storico, esistono moltissime vie e vicoli nominati con i nomi di questi mestieri artigiani.
All’interesse per la riparazione degli oggetti è subentrata, figlia del consumismo globalizzato, la più sbrigativa sostituzione degli stessi e così sono venuti meno i clienti per chi esercitava questi antichi mestieri.
Sono ormai raramente utilizzati i selciatori (gli addetti alla posa in opera di cubetti di porfido denominato bolognino o di leucitite, che a Roma vengono chiamati sanpietrini) e gli scalpellini (coloro che sgrossavano e lavorano la pietra o il marmo con lo scalpello), i norcini (gli addetti alla macellazione del maiale e alla lavorazione delle carni) a loro sono subentrate le norcinerie, ma solo come negozi di vendita.
Altri mestieri perdurano, ma largamente trasformati e all’occorrenza esercitati in una bottega polifunzionale (solitamente con vendita di prodotti): I corniciai; i fotografi i restauratori,i doratori, gli orafi,i rilegatori, gli orologiai, i tappezzieri. Gli orologiai, ad esempio, non solo riparano gli orologi ma anche li vendono. I parrucchieri e i barbieri che raramente si occupano delle barbe dei clienti; molti falegnami sono meno artisti e maggiormente addetti alla lavorazione con le macchine.
Alcuni mestieri tradizionali hanno dato luogo a nuove figure.
Le pettinatrici, che avevano cura in alcune regioni dei capelli delle signore agiate, sono state sostituite dai parrucchieri unisex con i loro saloni (prima esistevano solo i saloni per gli uomini); I venditori di stoffe sulle piazze, veri maestri nell’oratoria, esercitata per convincere le donne all’acquisto, trovano ora al loro posto venditori ambulanti, che nei mercatini, dove si recano con loro camioncini hanno stipati con numerosi capi di abbigliamento e di biancheria ( vendono anche scarpe o oggetti per la casa); l ciabattini sono diventati calzolai(più che creare le scarpe le riparano e vendono altri prodotti come lucidi, stringhe, solette);così come riparano altri oggetti di cuoio); i sarti, ormai poco numerosi tra gli italiani, sono sempre più richiesti per i ritocchi e le riparazioni.
Altre volte le funzioni prima svolte nel passato, sono state fatte proprie da nuove figure più specializzate, così come avviene nel settore terziario*). Ad esempio, le funzioni delle ostetriche, chiamate levatrici, sono state interamente rilevate dagli ospedali e dalle cliniche e le funzioni dei castrari (quelli che castravano gli animali) dai veterinari.
Nei mestieri tradizionali che persistono gli immigrati si sono inseriti o si stanno inserendo. Essi, oltre che nel settore dei servizi (come ambulanti, con imprese di pulizia, punti vendita di take away, bar, ristoranti), operano nel comparto artigianale come sarti, muratori (anche carpentieri, piastrellisti, pavimentisti, parchettisti, stuccatori, imbianchini, cartongessisti, giardinieri,parrucchieri,calzolai, idraulici,panificatori,pasticceri).
Diversi altri sbocchi lavorativi basati sull’esercizio di mestieri meno tradizionali, legati piuttosto alle mutate esigenze della società: carrozzieri, meccanici, saldatori, modellisti, armaioli, riparatori di protesi dentarie, tipografi, stampatori offset, riparatori di radio e Tv, elettricisti, elettromeccanici, addetti alla tessitura e alla maglieria,cablatori di quadri elettrici, caldaisti, molatori, montatori e serramentisti.
Tutte queste professioni presuppongono l’apprezzamento del lavoro manuale (che nel passato in Italia era più diffuso) e di una specifica professionalità, (prima egregiamente assicurata dagli istituti tecnico-professionali). È diventato, poi, sempre più necessario l’utilizzo della tecnologia e nell’esercizio delle competenze digitali: ciò pone le donne su un piano di uguaglianza con gli uomini, mentre nel passato era scontato che certe professioni fossero riservate ai maschi.( *Cfr.CNA 2018 Osservatorio Naz. Professioni

L’’inserimento degli immigrati ,nell’ambito di questi mestieri, sia tradizionali che innovativi,  viene incontro alle  specifiche esigenze della società italiana di oggi, come si vedrà dal monitoraggio che ha consentito per dieci anni il Money Gram Award dedicato all’imprenditoria immigrata.

Una vetrina dell’imprenditoria immigrata il supporto del made in Italy: il Money Gram Award

Il MoneyGram Award ha conosciuto la sua prima edizione , nel 2009 nel secondo anno della crisi economica, durissima per l’Italia, che ha visto diminuire la base occupazionale e il numero delle imprese gestite da italiani.

i piccoli imprenditori immigrati sono, all’interno delle loro comunità, quelli che hanno un reddito e una capacità di risparmio più elevati. MoneyGram Italia ha voluto enfatizzare le loro realizzazioni, contribuendo a sfatare il pregiudizio che gli immigrati siano privi di dinamismo,competenza, fantasia e capacità di riuscita. Un altro obiettivo primario è stato quello di sollecitare nuovi protagonisti tra gli immigrati, intento riuscito perché il numero dei partecipanti al concorso è andato aumentando, coinvolgendo persone originarie di un gran numero di Paesi e anche lontani discendenti dei numerosi italiani andati emigrati in America Latina dopo l’Unità d’Italia.
Per l’assegnazione dei premi un’apposita giuria ha vagliato le realizzazioni più significative, dopo aver rivolto l’invito alla partecipazione più ampia possibile, da tutte le parti d’Italia, attraverso associazioni, organizzazioni sindacali e d’impresa,istituzioni.
L’evento finale di questo programma, organizzato a Roma in sedi suggestive, è stato imperniato sulla premiazione dei primi classificati per i diversi livelli di impegno: crescita e profitto, innovazione, giovane imprenditoria e responsabilità sociale. Dal 2015 è stato previsto anche uno speciale riconoscimento, assegnato finora a un imprenditore di seconda generazione (2015) e a una persona immigrata che si è distinta a livello artistico (2016).
Ogni anno hanno partecipato più di 150 imprenditori immigrati e tra di essi è stata scelta una terna di finalisti, con un solo vincitore per categoria, uno dei quali è stato proclamato l’ìmprenditore immigrato dell’anno.
Il premio, non monetario, è consistito nel riconoscimento sociale e la possibilità, attraverso i media, di farsi conoscere al grande pubblico. La partecipazione da tutta Italia, l’attenzione dei mass media, la continuità dell’iniziativa (durata 10 anni e poi trasferita a Bruxelles) hanno fatto del MoneyGram Award una vera e propria vetrina dell’eccellenza imprenditoriale immigrata, come attesta una sintetica carrellata sull’imprenditore dell’anno premiato nelle diverse edizioni.
MGA 2016 .Madi Sakandè, nato in Burkina Faso, opera a Calderara di Reno (Bologna).Nel 2011, insieme ad alcuni colleghi, ha rilevato una storica azienda del settore della refrigerazione e climatizzazione industriale (la New Cold System S.r.L.) dal fatturato elevato, riuscendo a risollevarla nonostante la crisi. Opera anche come docente e consulente per la certificazione dei tecnici e delle aziende a norma CE 303/2008. Ha ricevuto il Premio di Migliore Imprenditore Africano dall’Africa ItalyExcellence Award. La sua azienda è destinata a trovare in Africa una fiorente attività perché consente la refrigerazione dei prodotti alimentari con impianti funzionanti ad energie solare, consentendo di rimediare al fatto che i tre quarti della produzione di cibo nel continente vada persa.
MGA 2015. Abderrahim Naji, nato nel 1968 in Marocco, a Béni Mellal (una città dell’entroterra da cui molti sono emigrati in Italia), arriva nel 1989 e si stabilisce a Piazzola sul Brenta, in provincia di Padova.Nel 1997, dopo esserne stato dipendente, acquista l’azienda CS Stampi, attiva nello stampaggio di articoli tecnici in materiale plastico per l’industria automobilistica ed elettrodomestica e nella progettazione e sviluppo di stampi. Si impegna nell’acquisto di macchinari innovativi e nell’ampliamento del sito produttivo e riesce a incrementare i profitti e gli addetti (oltre 30).
MGA 2014. Cristina Chua, filippina, commercializza con successo corpi illuminanti per la nautica. Nata nel 1981 a Champan, arriva in Italia nel 2000 e si stabilisce a Milano. Inizia lavorando da badante e da baby sitter, per poi entrare in azienda, operando prima da centralinista (favorita dalla sua conoscenza dell’inglese), poi presso l’ufficio acquisti e quello commerciale e, quindi, presso la direzione della produzione in Cina. Nel 2011 fonda la sua azienda per la vendita di corpi illuminanti,la Delta Contract Spa, in particolare per le navi da crociera, mantenendo la sede della progettazione in Italia e la maggior parte della produzione in Cina.
MGA 2013. Martin Saracen, polacco, arriva in Italia nel 1989 da Bratislava e si stabilisce ad Arese, in provincia di Milano.Nel 2006 fonda la FM Group Italia, che si occupa del commercio di cosmetici e profumi polacchi. La rete di vendita da lui organizzata gli consente di occupare 90 dipendenti e di contare su 170 distributori in tutta Italia. L’insistenza sulla qualità è il segreto del suo successo: “Ambizione per proiettare nel futuro il mio sogno iniziale; tenacia per non scoraggiarsi davanti alle difficoltà di una start up e ascolto per capire i bisogni della gente”.
MGA 2012. Simon Flores, nato a Bachau, arriva in Italia a 26 anni e inizia a lavorare come manovale in edilizia. Dopo aver provato varie attività, nel 2006 ha aperto la Romania Srl Import, che si occupa della vendita di prodotti alimentari romeni e dà lavoro a Roma a 40 persone. Riesce così a realizzare il suo sogno di distribuire i prodotti alimentari romeni, superando, come molti altri, notevoli difficoltà per ottenere le autorizzazioni. Si sente a suo agio in Italia, dove ha trovato opportunità altrimenti impensabili, pur restando molto legato alla Romania.
MGA 2011. Jean Paul Pougala è originario del Camerun, dove conta trenta fratelli, avuti dal padre da diverse mogli. Qui inizia a lavorare come strillone di giornali. Venuto in Italia, fonda a Torino una fiorente società di produzione di articoli e gadget per campagne elettorali: la Election Campaign Store Nel 2011 ha fornito i materiali per otto delle undici campagne elettorali svoltesi in Africa, ma ha fornito i suoi articoli anche in Perù, in Germania e in Francia. Dà lavoro a 20 persone e si reca spesso a Ginevra per insegnare sociologia e geopolitica alla scuola di diplomazia.
MGA 2010. Edit Elise Jaomazava, originaria del Madagascar, sposata con diversi figli. Constatato che la vaniglia sintetica ha soppiantato quella naturale, di cui il suo Paese è grande produttore (e anche l’azienda della sua famiglia), si adopera per importarla a prezzi concorrenziali e metterla a disposizione delle industrie alimentari, delle distillerie, delle gelaterie, delle pasticcerie artigianali e anche di clienti al dettaglio. Edith, oltre alla vaniglia, fa arrivare per via aerea, tramite la SA.VA Import-Export, un’altra ventina di prodotti, assicurandosi che siano prodotti freschi (dell’ultimo raccolto) e di alta qualità. Anche l’elegante confezione di questi prodotti aiuta a battere la concorrenza.
MGA 2009. Radwan Khawatmi, siriano, di famiglia benestante, ultimati gli studi universitari, giunge in Italia, attratto dalla sua storia. Prima opera per commercializzare i prodotti della Indesit e quindi, nel 1988, a Milano fonda la Hirux International, un’azienda che ha fatto conoscere nei Paesi del Golfo gli elettrodomestici italiani, assemblati con i pezzi forniti da produttori terzisti. I frigoriferi e le lavatrici della Hirux hanno conquistato una rilevante quota di mercato. L’azienda occupa centinaia di dipendenti, oltre che in Italia, anche in alcuni Paesi arabi. L’associazione “Nuovi italiani” da lui fondata si è adoperata per l’attribuzione del diritto di voto amministrativo. Khawatmi, inoltre, sposato con un’italiana di religione cattolica, si è distinto nella promozione del dialogo tra le religioni contro ogni estremismo e terrorismo.
Il riconoscimento speciale 2015, che MoneyGram ha iniziato ad attribuire a partire da quell’anno, è andato a un esponente della seconda generazione dell’immigrazione: Marco Wu, nato a Livorno da genitori cinesi. Trasferitosi a Roma da bambino, Marco ha iniziato a frequentare l’Università ma in seguito ha deciso di concentrarsi sul lavoro. La sua prima attività è stata un ristorante che ha proposto congiuntamente la cucina cinese e quella italiana, nel cuore della Roma multietnica, a Piazza Vittorio. Poi è diventato titolare di un’enoteca e si è occupato della distribuzione di prodotti alimentari ai ristoranti cinesi di tutta Italia; inoltre, si è impegnato per il potenziamento del canale delle esportazioni dei prodotti italiani in Cina, dedicando al vino italiano, sua area di expertise, particolare attenzione.
Il riconoscimento speciale 2016, incentrato sull’arte, è andato a Takoua Ben Mohamed, ragazza di origine tunisina, figlia di un rifugiato politico, arrivata in Italia all’età di otto anni. Da allora è iniziato il suo processo di integrazione, non privo di ostacoli. Nell’arte ha trovato un aiuto. Nei suoi fumetti racconta, con ironia, cosa vuol dire essere musulmana velata nella nostra penisola. Parla di cittadinanza, discriminazione ma anche di dialogo e rispetto tra culture. Oggi è un’illustratrice e una giornalista grafica che racconta, attraverso le sue mostre e il libro Woman Story, le vicende quotidiane in Italia di una ragazza con lo hijab (il velo non integrale), sfruttando l’immediatezza e l’efficacia delle parole unite al fumetto.
L’ampienza assunta dal MoneyGram Award è attestata anche dalla varietà dei settori di provenienza degli imprenditori che vi hanno partecipato.
Nel comparto alimentare: pasticcerie, laboratori di yogurt biologico, ditte per l’importazione di spezie e di prodotti artigianali:
nel comparto servizi: agenzie di viaggio, uffici di traduzioni, centri di interpretariato, società di casting, centri culturali, ludoteche, piattaforme di e-learning, laboratori per facilitare l’apprendimento ai disabili, servizi artigianali assicurati da calzolai, sarti (modellisti, prototipisti), parrucchieri (anche in stile “etnico”), operatori di centri estetici, e restauratori di mobili.
nel comparto industriale: refrigerazione e climatizzazione, informatica, produzione di etichette personalizzate per le bottiglie di vino, localizzazione su smartphone e tablet delle zone di passaggio delle reti sotterranee (una soluzione digitale fondamentale per lo sviluppo del catasto nazionale e per la gestione e manutenzione delle infrastrutture).
Settore commerciale , una miriade di iniziative, dal commercio al minuto a quello all’ingrosso,con un reticolo imponente di piccole e medie realtà aziendali. Nell’ambito della ristorazione si va dai bar e piccoli rivenditori di cibo “da strada”, a proposte anche molto raffinate (ad esempio, accompagnando i clienti italiani attraverso i sapori e le usanze del Paese di origine.

conclusioni: l’imprenditoria immigrata merita una diversa narrazione
Le strutture che creano posti di lavoro meritano apprezzamento e, specialmente in Italia, un grande merito spetta alle piccole e medie imprese, ma lo stesso va detto a livello europeo. Lo ha riconosciuto lo Small Business Act (SBA) for Europe, documento approvato dalla Commissione Europea nel mese di giugno 2008, ch ha sottolineato il ruolo e ha raccomandato ai governi nazionali l’adozione di misure adeguate a tutti i livelli per sostenerle.
Nell’ambito delle piccole e medie imprese è stato straordinario il protagonismo degli immigrati nel corso degli anni ‘2000, sempre in crescita anche negli anni più duri della crisi e così, presumibilmente, anche nel futuro: un andamento che, pur avendo le sue ombre, ha dello straordinario e avrebbe meritato una narrazione libera dai luoghi comuni con i quali ancora molti raccontano l’immigrazione.
Il protagonismo degli immigrati, sia nei casi di piccole imprese sia in quelli, meno numerosi, di medie imprese, è frutto di una grande tenacia e indicatore dell’integrazione nel sistema economico che, con opportune misure (non sempre adottate), potrebbe accelerare anche l’integrazione sociale.
Prima si è fatto cenno anche alle ombre di questa realtà imprenditoriale. Le aziende di piccole dimensioni abbisognano sempre più di ricorrere all’innovazione e alla tecnologia , specialmente se intendono ampliare la clientela rivolgendosi anche all’estero. Non mancano le iniziative in tal senso, ma moltissimo resta da fare.
L’apertura all’estero vale anche per i paesi di origine essendo gli imprenditori immigrati, un ponte tra essi e l’Italia.Talvolta vi sono soggetti che rimpatriano, portando con se quanto appreso nel corso dell’esperienza italiana, ma i più restano e, siano essi artigiani di prodotti di qualità o di prodotti tecnologicamente avanzati, da essi ci si aspetta la diffusione del made in Italy.
. Secondo un concetto equilibrato di transnazionalismo il fenomeno migratorio consiste in un flusso che coinvolge persone, idee, beni, capitali secondo una linea bidirezionale. I 5 milioni di stranieri residenti in Italia, insieme a quelli già diventati cittadini italiani, (circa 1,5 milioni) costituiscono, con i parenti e gli amici, una rete straordinaria di penetrazione, anche se si tratta di Paesi di origine a basso reddito.
I motivi che inducono a raccomandare maggiore attenzione dei decisori pubblici alle piccole e medie imprese, e, al loro interno, alle imprese degli immigrati, sono sempre più validi, poiché ci si rende conto che, sotto questo aspetto (e diversi altri) il fenomeno degli stranieri in Italia non costituisce né un’invasione, né una disgrazia.
Con un riferimento al cosmopolitismo del rinascimento, che riprendeva le intuizioni degli antichi greci, è bello sperare che la funzione esercitata in quel tempo con la cultura e con le arti, possa essere continuata con i prodotti dell’artigianato italiano, rinnovati dalle moderne tecnologie, ma anche carichi di quella luminosa tradizione.
A cura di Giuseppe Bea

Si ringrazia il prof. Franco Pittau ed il Centro Studi IDOS