Tra greenwashing, socialwashing, rainbowashing, ecc.
di Giorgio Fiorentini
La mancanza di fiducia nelle istituzioni, nella trasparenza delle imprese, i comportamenti opportunistici ed asimmetrici dell’offerta di prodotti e servizi porta ad un indebolimento del senso di comunità. La sfiducia dei cittadini diventa contrasto e, a volte, radicalizzazione di giudizio negativo. Il “lavaggio” nelle sue declinazioni è un esempio.
È anche Il fallimento del metodo contrattuale per cui un rimedio è l’adozione del modello di Impresa Sociale Civica-ISC che, per sua natura imprenditoriale, non ha alcun incentivo a sfruttare “l’ignoranza” del consumatore attraverso l’incremento non giustificato dei prezzi o la proposta della qualità dei beni, o il lavaggio. Per questi ed altri fattori il cittadino-cliente (ed anche consumatore) gode di un incentivo a rivolgersi alle ISC pubbliche e private perché degne di fiducia nel loro di imprenditorialità sociale.
La maggior fiducia riposta dal consumatore nelle ISC è efficiente dal punto di vista del benessere collettivo; infatti, se si è fiduciosi che le ISC operino con l’obiettivo di soddisfare al meglio i cittadini-clienti dei rispettivi servizi, possono essere notevolmente ridotti i costi di monitoraggio e controllo dell’attività dei produttori ei costi di transazione riparativi.
Rivisitando la teoria del fallimento del contratto di Hansmann si struttura uno schema capace di spiegare sia la produzione di beni civici che di altre attività effettuate dalle ISC pubbliche e private utilizzando anche il paradigma proposto da Weisbrod.
Quello dei beni civici è infatti interpretato come uno dei casi in cui il fallimento del contratto si manifesta qualora sia gestito da imprese pubbliche o private con un finalismo di efficacia sociale estetica e d’immagine di “funzionalità operativa” – ha sviluppato progressivamente un ruolo sia nel pubblico che nel privato e si è comprendendo quanto il welfare ed il “non washing” siano complementari allo sviluppo aziendale ed economico dell’impresa e del sistema.
Il concetto di ISC non è un buonismo economico, ma un “dovere essere” aziendale per rispettare la formula di successo imprenditoriale: efficienza, efficacia, continuità, perdurabilità, economicità.
Il concetto di ISC ha un dinamismo aziendale basato su: “scopo” e scopo verificabile, intenzionalità sociale e civica, misurazione e valutazione dell’impatto sociale, addizionalità nel territorio e nella comunità, prossimità, continuità sussidiaria, massimizzazione relativa del profitto e trasparenza reale. Tutto questi elementi rendono sempre più difficoltoso il lavaggio,perché le vie d’inganno sono sempre più strette.
Non solo il greenwashing , ma anche altri tipi di washing sono in affanno: dal socialwashing millantando risultati sociali in modo esornativo e per eccesso al pinkwashing quando si sviluppano politiche aziendali “general generiche” per la utilizzata della disparità fra generi e del “gender gap” non suffragate da dati reali(per esempio parità di pagamento), dal Rainbowashing quando un’impresa dichiara di essere impegno alla comunità Lgbtqia+ senza servizi a loro favore al wakewashing ed al blue washing quando si dichiara, per esempio di essere coerente con i principi del Global Compact delle Nazioni Unite senza azioni concrete. E poi ancora il Blackwashing.
Da queste definizioni e considerazioni si nota che il tema critico, comunque, è la comunicazione ingannevole e il set di azioni aziendali che mistificano la realtà del prodotto/servizio fatta percepire. Si potrebbe dire che il “vulnus” non è l’oggetto della comunicazione salvo che addirittura non si usino, per esempio, prodotti nocivi all’uomo ed agli animali, non si faccia violenza ecc (tutti questi sono reati “in re ipsa”, non di comunicazione).
L’impresa dice il falso rispetto al suo status di sostenibilità reale che comunque è percepito dall’impresa come un dover essere di gestione pena il fatto che si può incorrere anche in sanzioni pecuniarie e reputazionali.
L’ISC, invece, non dice il falso perché il suo “scopo” è la sostenibilità declinata in ambiente, clima, aspetto sociale e governance partecipata ed è parte costituente della sua affidabilità nei confronti dei cittadini-clienti e del mondo finanziario.
Se cos’non fosse il rischio di avere il blocco dei flussi finanziari a debito sarebbe elevato. Queste tesi non si basano sull’immaginario auspicabile e moralistico, ma sull’evoluzione del contesto giuridico e imprenditoriale.
Ormai da quando sono state pubblicate le direttive europee CSRD (Corporate Sustainability Reporting Direttiva), la CSDDD (Corporate Sustainability Due Diligence Direttiva) ed in clima di verifica tramite gli indici ESRS (European Sustainability Reporting Standards) si è aperta una via di non ritorno.
Il clima di “Direttiva Stop the clock” che si articola nel rinvio di 2 anni dell’entrata in vigore della rendicontazione per le grandi imprese che non hanno ancora iniziato a rendicontare e nel dibattito sulla proposta di far attuare le adempienze informative sulla sostenibilità solo per le imprese con mille dipendenti, con 50 milioni di fatturato ecc (si vedrà nelle prossime settimane, nei prossimi mesi, quelle che saranno le soglie definitive di applicazioni, in quanto alcuni ottengono di alzare il livello di applicazione a 3.000 dipendenti, altre invece chiedono di abbassare sotto i mille dipendenti). Quindi è momento di affinamento operativo aziendale per mantenere “il percepito sociale” di alcuni segmenti degli stakeholder (per esempio la generazione Z rappresenta il 15% dei clienti della finanza sostenibile).
Altro aspetto importante è la proposta di semplificazione degli ESRS e per questo il mandato all’EFRAG (European Financial Reporting Advisory Group) che è ente tecnico consulenziale che fa parte della UE, e quindi non esterno, è quello di intervenire sugli standard pubblicati e proporre delle semplificazioni alla commissione. Comunque, il rapporto con l’ESG sembra essere una via di non ritorno. In questo contesto, per esempio, il ruolo della Banca e delle istituzioni finanziarie è quello di attore intermediario e anche oltre che diretto interessato sui temi della sostenibilità.
Anche perché la banca proprio come intermediario finanziario, ha a che fare con una serie di stakeholders e con una catena del valore di cui essa è responsabile funzionale per la diffusione della cultura di sostenibilità finanziaria. Infatti, trasmetterla e selezionare i soggetti coinvolti sulla base di determinate caratteristiche le sostenibilità rende più solvibile il mercato finanziario.
La Banca ormai valuta e giudica i propri clienti che chiedono finanziamenti anche dal punto diviso della loro veridicità e dal comportamento trasparente senza “washing”. In caso contrario si entra in un rapporto ad alto rischio di “sofferenza” e si rischia di non ottemperare al dettato del GAR (Green Asset Ratio) che indica e misura la quota di attività finanziarie verdi dei propri portafogli. È chiaro che questo indicatore è strumento di controllo anti “greenwashing”.












