Un contenzioso infinito
Tredici/C Clio Storia del presente
Salvatore Sechi
Docente universitario di storia contemporanea
Prendendo spunto dalla pubblicazione recente di una tesi discussa quasi sessant’anni or sono nel 1966 da Orazio Niceforo dedicata a I Socialisti e la rivoluzione bolscevica (1917-1919) Salvatore Sechi nel saggio “Turati, Gramsci, e la “dittatura proletaria senza quasi proletariato” ripercorre quello che nell’occhiello definisce “un contenzioso infinito”, sia politico sia storiografico, fra i riformisti e le altre correnti, in primis massimalisti e ordinovisti, in seno al socialismo italiano, in merito alla percezione della rivoluzione russa, che porterà alle due scissioni e la nascita a Livorno nel gennaio 1921 del Partito Comunista d’Italia e nell’ottobre 1922 del Partito socialista Unitario. Sechi, dopo aver rievocato il clima all’interno del quale si svolse la discussione della tesi di laurea di Niceforo, rievoca le varie posizioni assunte via via dai protagonisti in sei corposi paragrafi dedicati a “Il fatalismo e la violenza a carico del Psi”, “Il dissenso dei socialisti”, “Turati e la Russia”, “Rodolfo Mondolfo la testa teorica del riformismo socialista”, “Gramsci volta le spalle a Marx”, “Gramsci e il giacobinismo dei bolscevichi” e “Dopo il delitto Matteotti, anche Piero Sraffa contrasta Gramsci”.
15 maggio 2024
Orazio Niceforo ha fatto benissimo a pubblicare integralmente, cioè senza alcuna modifica, presso Biblion (l’editore della Fondazione Anna Kuliscioff di Milano),la sua tesi di laurea. Si intitolava I socialisti italiani e la rivoluzione russa (1917-1919). Marxismo gradualista e marxismo rivoluzionario, e venne discussa presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Milano nell’ottobre 1966.
Della commissione di docenti di cui faceva parte il fior fiore della cultura comunista milanese dell’epoca. Invece di apprezzare il valore dell’originale e documentata analisi storico-politica sulla lettura fatta da Filippo Turati e più in generale dai socialisti riformisti su un evento epocale come la rivoluzione russa, si preferì fare pagare a Niceforo un imperdonabile peccato di lesa maestà: il suo mancato allineamento alla ricostruzione diversa di Antonio Gramsci.
Negli scritti almeno fino al 1920, del leader comunista sono presenti residui di idealismo crociano e consistenti simpatie soreliane. Niceforo si limita a rilevarli, anticipando quelli espressi anche di recente da studiosi come Giuseppe Bedeschi, Danilo Breschi e Zeffiro Ciuffoletti per non parlare di quelli più distanti di Nicola Badaloni, Fabio Frosini, Marco Gervasoni, Silvio Pons, eccetera.
A metà degli anni Sessanta quando la tesi di Niceforo venne discussa, fu l’interpretazione gramsciana del biennio 1919-1920 (in cui la valenza politica sopraffaceva il rigore ricostruttivo) ad essere accreditata presso la maggioranza degli studiosi della Fondazione Antonio Gramsci. Veniva respinta, quando non esecrata, quella più cauta e realistica distillata da Filippo Turati, Claudio Treves, Rodolfo Mondolfo eccetera sulle colonne del periodico socialista Critica sociale. Consapevolmente o meno, era la riproposizione del socialismo democratico come ala sinistra della borghesia, quando non social-fascismo, delineata verso la fine degli anni Venti dall’Internazionale comunista (il Comintern)1.
Alla storiografia sui riformisti italiani fu applicata una misura peggiore dell’esecrazione, direi quella dell’omissione, la coltre pesante e inossidabile del silenzio. Si tratta della più spavalda e crudele tecnica epuratrice per la verità sempre utilizzata dai comunisti nei confronti di avversari e dissenzienti.
Fu così che nessun respiro ebbero, se ricordo bene, i lavori di Carlo Cartiglia su Rinaldo Rigola e il sindacalismo socialista, e successivamente quello più generale di Paolo Favilli sul riformismo e lo stesso ruolo nel lungo dopoguerra (come dirigente della Cgil e come studioso) di un personaggio del rango di Vittorio Foa.2
Lenin pare consultasse sistematicamente Critica sociale le cui posizioni riteneva riconduceva al socialismo della Seconda Internazionale.3 Ma non gli era facile dare corso alla richiesta di espulsione di Turati, come dei riformisti e dei centristi, dal momento che essi, in nome dell’unità del partito, non si opposero all’adesione del Psi all’Internazionale comunista.
Nei dieci giorni che la folta delegazione socialista, rappresentativa di tutte le correnti, passò a Mosca dal 20 al 30 luglio 1920, in occasione nel secondo Congresso del Comintern, Lenin ne trasse la convinzione che nel Psi non esisteva un capo in grado di unificare e depurare il partito e, in secondo luogo, che la convergenza con le posizioni dei bolscevichi anche di leader come Giacinto Menotti Serrati e Amedeo Bordiga era incerta o ambigua.
A ragione è stato rilevato che
“contraddizioni e oscillazioni nei giudizi caratterizzano soprattutto gli articoli dell’Avanti! ma in realtà ogni corrente in cui è diviso il Psi tende ad accogliere e a sottolineare dei fatti russi soltanto ciò che torna utile alla propria parte nelle polemiche interne”.4
La sola corrente socialista in cui Lenin si riconobbe fu quella assente a Mosca, cioè il gruppo torinese dell’Ordine Nuovo5. E non mancò di esplicitare questo suo convincimento nel discorso pronunciato il 30 luglio 2020, sulle condizioni di ammissione al Comintern:
“Dobbiamo dire semplicemente ai compagni italiani che all’orientamento dell’Internazionale comunista corrisponde l’indirizzo dei compagni dell”Ordine Nuovo‘ e non quello della maggioranza attuale dei dirigenti del partito socialista e del loro gruppo parlamentare”.6
Filippo Turati
Il fuoco polemico fino quasi all’aggressione si concentrerà su Filippo Turati, Camillo Prampolini e Ludovico D’Aragona. Lenin li indicherà, il 24 settembre 1920, agli operai tedeschi e francesi come contro-rivoluzionari sull’onda del giudizio negativo degli ordinovisti che parlarono di ultimo tradimento consumato dai capi sindacali socialisti.
Eppure la vertenza degli operai metalmeccanici (e l’occupazione delle fabbriche) a Torino si era chiusa vantaggiosamente per la Cgil e per la Fiom. Venne anzi salutata come un successo senza precedenti e un preludio di maggiori vittorie.
Era assai difficile, e anche impensabile, che nell’inverno 1966 filosofi e storici comunisti, non solo di Milano, potessero fare proprie, e lasciare passare senza farla pagare all’autore, analisi – per quanto impeccabili e rivelatisi da un punto di vista storico drammaticamente vere – come questa:
“… il giudizio critico, espresso soprattutto da Turati, sulla rivoluzione bolscevica aveva, e conserva tuttora, un suo preciso significato, e non può essere trascurato solo perché ‘inadeguato’ o ‘superato’ sul piano della speculazione teorica. Dal punto di vista del giudizio politico, e alla luce di quanto poi avvenne in Italia e in Russia, le valutazioni di Turati sulla natura del socialismo, sulla rivoluzione bolscevica e, ciò che più conta, sulle prospettive di un tentativo rivoluzionario in Italia, ebbero un senso e una giustificazione precisa confermata dagli eventi successivi. Non si tratta, evidentemente, di rivalutare a posteriori la posizione dei gradualisti: di fatto essa si mostrò la più realistica tra quelle espresse allora nell’ambito del Partito Socialista Italiano”.7
Il senso della misura e della cautela, proprio di un testo destinato a studiosi dell’università, non velava quanto intendeva fare presente, vale a dire che le critiche di Turati e dei riformisti avevano saputo anticipare quel che accadde, cioè il progressivo degradare del bolscevismo in una delle più feroci e mostruose dittature del Ventesimo secolo.
È quanto, ma non nella stessa misura, Gramsci comincerà a percepire a metà degli anni Trenta, col prendere le distanze, anche nel lessico, da quello che dal 1917 aveva amato esemplificare come lo “Stato operaio”.
Ancora oggi, malgrado eccezioni come quelle di Carlo Cartiglia, Biagio De Giovanni, Paolo Franchi e – più internamente alla riflessione gramsciana – di Silvio Pons, qualche intellettuale di punta dell’Istituto Gramsci di Bologna ha potuto contrastare frontalmente previsioni e denunce dei pericoli altamente autoritari e dispotici del comunismo sovietico formulate fin dalle origini da Turati, da Claudio Treves e da altri. Lo ha fatto senza essere mai, se non proprio formalmente smentito, almeno cautamente corretto, anche quando ha accolto supinamente, in una posizione di rapito adoremus, a cento anni dalla sua morte, i rilievi perentori di Lenin sulla cosiddetta “passività opportunistica dell’evoluzionismo”.8
Siamo sensibilmente al di fuori di quel refugium peccatorum che fu l’italo-marxismo del Pci durato l’espace d’un matin, e semmai dentro la logica putiniana del salvare il salvabile delle rovine del vetero-comunismo in nome della più banale e inenarrabile crociata anti-occidentalista.
L’audace reprobo, quale apparve ai docenti milanesi Orazio Niceforo, andava punito per l’intemerato coraggio (spacciato sicuramente per un’inaudita provocazione). Convennero fosse necessario abbassare in misura assai sensibile la media del voto di laurea: 103/110 invece che 110/110. Dunque, una punizione vera e propria.
In realtà, il lavoro del giovane Niceforo è utile per contrastare, cioè smentire, la narrazione gramsciana che ancora oggi trova un forte sostegno nella storiografia del Pci o dai comunisti influenzata.
Il fatalismo e la violenza a carico del Psi
Continua fino all’ossessione è, infatti, l’accusa mossa ai socialisti italiani di essere vittime di una cultura marxista meccanicistica, dominata dall’inerzia e dal fatalismo come quella messa a carico della Seconda Internazionale. Ad essa si deve il motivo per cui avrebbero sminuito l’importanza della conquista bolscevica del potere nell’ottobre del 1917 e quindi del ruolo di Lenin.
Le cose non stavano, e non stanno, per niente in questi termini.
A Bologna nel XVI congresso nazionale (5-8 ottobre 1919), anche i riformisti avevano esaltato quanto era avvenuto in Russia, con l’auspicio che si dovesse, anche in Italia, impegnarsi ad agevolarne l’espansione, cioè si dovesse “fare come in Russia” (dove “chi non lavora, non mangia” chiosò Giacinto Menotti Serrati). L’adesione alla Terza Internazionale (di cui in seno al Psi si conosceva ben poco)9 venne votata all’unanimità, anche da parte dei compagni di Turati.
Ma l’aspetto che occorre mettere in evidenza fu quello che dominò il congresso del capoluogo emiliano, cioè un’infinita apologia della forza.
Questo carattere va sottolineato perché la nascita del partito a Livorno nel 1921 coincide con quello del fascismo (dei modi per difendersi dalla sua aggressione) e rappresenterà una delle peculiarità dei comunisti italiani in seno al Comintern10.
A ragione è stato osservato che
“se da una parte fu proprio l’esperienza diretta del fascismo a fornire credito ai comunisti italiani nel consesso del Comintern, dall’altra, la loro condizione di clandestinità, di emigrazione, di prigionia e, in definitiva, di completa estromissione dal contesto italiano contribuì a delinearne un profilo per lo più periferico nel movimento comunista internazionale”.11
Costantino Lazzari e Giacinto Menotti Serrati
La si può rinvenire, ed è un fiume in piena, straripante, nella mozione presentata dal vero vincitore dell’assise bolognese (Costantino Lazzari, Giacinto Menotti Serrati e la corrente massimalista). Fu un inno
“all’uso della violenza per la difesa contro le violenze borghesi, per la conquista dei poteri e per il consolidamento delle conquiste rivoluzionarie”;12
“la conquista violenta del potere politico da parte dei lavoratori dovrà segnare il trapasso del potere stesso della classe dirigente borghese a quella proletaria”.13
Di questa impetuosa fascinazione per il conflitto politico e sociale inteso non più come lotta di classe, ma come rottura radicale affidata alle armi, ha fatto parte la correzione, in senso leninista, del nuovo statuto del Psi. Nell’articolo 1 si attuò la solenne (in quanto statutaria) incorporazione dell’uso della violenza politica, in forma sia difensiva sia offensiva.
Lo stesso adeguamento subì il simbolo del partito. Lo si modificò a imitazione di quello bolscevico, accompagnando al libro la falce e martello.
Non mancò una profezia, quasi antelucana, ad opera di Turati. Mi riferisco alla previsione (giustapposta alla mitizzazione di Lenin e dei bolscevichi) che la rivoluzione comunista in un paese capitalisticamente poco sviluppato come la Russia, e la mancata partecipazione della maggioranza del proletariato (sostituito da un’élite giacobina come quella dei bolscevichi) avrebbe portato alla costruzione di un sistema politico eminentemente dispotico (leninismo, stalinismo, eccetera).
Nello stesso intervento il leader riformista non esitò a fare la descrizione molto esplicita e forte dell’evento tortuoso, sanguinario e funebre (per i principi dell’illuminismo) che avrebbe scandito la vita del comunismo sovietico. Si trattava di un futuro fosco, percepito ormai come una catastrofe immediata. Come ha scritto David Bidussa da errori come questi compiuti da Lenin che occorreva, e occorrerebbe, ancora imparare, e non dalla apologia della sua ricetta.14
Ma non impedì ai dirigenti delle cooperative socialiste di ritenersi, per alcuni degli anni Venti, membri a pieno titolo del Comintern. Chi, invece, si identificò, facendone una seconda pelle, nella costruzione della crudele dittatura del proletariato (in realtà il regime della burocrazia sovietica), furono i dirigenti emiliani del Pci15. Nati dalla violenza e votati alla violenza (anche per difendersi dal fascismo), l’obiettivo di abbattere il capitalismo e instaurare il socialismo agì su di loro con lo stress di una religione politica.
Ad essa si deve la resistenza, se non il rifiuto, fino all’ascesa di Putin, di quasi due generazioni di comunisti a denunciare, se non proprio condannare, l’instaurazione a Mosca di un regime la cui ostilità e persecuzione di origine politica nei confronti di operai e contadini non ha avuto più bisogno di grandi imitatori.
Nell’inverno del 1920 socialisti, a cominciare da Filippo Turati, nel loro congresso di Reggio Emilia ribadirono l’adesione al Comintern, il no ad ogni scissione, la “dittatura del proletariato intesa nel senso marxistico” come “necessità transitoria” e “l’uso della violenza e dei mezzi illegali nella lotta di classe e per la conquista del potere politico”.16
E sul piano dei rapporti di forza, nelle elezioni amministrative tra il 31 ottobre e il 7 novembre 1920, si ebbe un grande rafforzamento dei riformisti e in generale del Psi, mentre le distanze dai serratiani (“comunisti unitari”) riuniti a convegno il 20 e 21 novembre 1920 a Firenze si erano ridotte al minimo.
Nell’imminenza del congresso di Livorno nel 1921 si realizzò quella che Francesco Giasi ha chiamato una vera e propria convergenza. Infatti Serrati pur ribadendo, al pari di Turati, l’adesione al Comintern, non fu meno fermo nel voler salvaguardare la peculiarità (e quindi l’autonomia) del socialismo italiano. Di concerto con i riformisti, che le governavano, convenne nell’evitare il supplizio delle scissioni negli organismi sindacali.
La forza della tradizione socialista si fondava sull’unità del partito, cioè la coabitazione delle correnti, il che significava il libero manifestarsi delle differenze. A voler rendere le distanze e rimuovere questo tratto unitario dell’identità del Psi sarà solo Bordiga, mentre Gramsci fino al 191717 si era strenuamente dedicato a fare l’apologia del socialismo italiano, a cercare di rinnovarlo radicalmente, riprovando chi avesse tentato di disperderlo o tradirlo, come ha ricordato Camilla Ravera.18 Come al tempo delle diatribe con i sindacalisti rivoluzionari, i riformisti riconfermarono a Lenin la linea maestra delle loro insuperabili differenze: vale a dire la convinzione che nell’esercizio della conquista del potere la fedeltà al marxismo risiedesse nell’opporre all’azione diretta, violenta della dittatura di una minoranza (come quella dei bolscevichi) un esteso, anche temporalmente, processo di emancipazione.
Amedeo Bordiga e Camilla Ravera
Nel cuore dello sviluppo economico e delle connesse contraddizioni del capitalismo sarebbe maturata la coscienza delle ineguaglianze del proletariato e il loro graduale, ma inesorabile superamento. La dimensione politica, il suo primato consisteva – come asserirono gli ordinovisti per bocca di Umberto Terracini – nell’accesso anche per via armata al potere e non nella direzione dell’economia, come la trasformazione – perorata dagli industriali – dei Consigli di fabbrica in una grande cooperativa. Per questo micro-risultato bastava, e avanzava, la proposta della socializzazione della Federterra o il programma per l’estensione della piccola proprietà di Luigi Sturzo. Entrambi più avanzati dei relativi programmi dei bolscevichi.19 Il successo (24,7 per cento) del Psi (e a quello modestissimo del PCd’I, 4,6 per cento) nelle elezioni del maggio 1921 si concentrò soprattutto nelle aree dove dominavano i gradualisti come l’Italia del Nord e del centro.
Umberto Terracini e Palmiro Togliatti
Contro il riformismo emiliano, che nelle accuse di Gramsci e Togliatti aveva una chiusura municipalistica e sindacale, scattò la feroce reazione squadristica del fascismo. Si scatenerà su tutto l’impianto organizzativo della civiltà costruita da Prampolini e Turati: Camere del lavoro, case del popolo, cooperative, stampa, eccetera.
Era la rete istituzionale che nella pianura padana attraverso il sistema delle Leghe non aveva accolto l’invito dei comunisti a fare la rivoluzione, ma non aveva potuto evitare di trasformarsi in una baronia.
Perciò la sua
“violenza limitata, circoscritta entro i limiti dell’associazione sindacale, invece di essere strumento di rivoluzione, prendeva l’aspetto di prepotenza e arbitrio”.20
Di cui il fascismo volle farsi procuratore e vindice con la sua “taumaturgia della violenza”.
Turati l’avrebbe attribuita a socialisti e comunisti, da una parte, e a nazionalisti e fascisti, dall’altra. Era, avant la lettre, la tesi dei doppi estremismi che, pur stando reciprocamente agli antipodi, si assomigliavano.21
Il dissenso dei socialisti
Quando e su quali punti avvenne il ripensamento dei socialisti? Niceforo li ha colti bene e li descrive efficacemente nel suo lavoro.
Ugo Intini per molti anni lo ebbe come collaboratore per i problemi della scuola nel quotidiano l’Avanti! da lui diretto. Nel l’ampia e impegnativa prefazione li riassume efficacemente sulla scala lunga della politica anche internazionale.
Mi limito a indicarne due, che mi sembrano i più ricchi e forieri di orribili conseguenze, cioè la trasformazione del sogno secolare dell’eguaglianza e della libertà nella dittatura del partito-Stato, la riduzione di operai e contadini a mera merce per costruire il sempre più problematico consenso al bolscevismo.
A filosofi e storici comunisti (come Mario Dal Pra, Enzo Paci, Franco Della Peruta, Ludovico Geymonat, eccetera) la disamina di Niceforo parve insufficiente. Ai suoi docenti (i “laici” Umberto Segre e Franco Catalano – autore quest’ultimo di un saggio su Turati – che più lo seguirono nella preparazione della tesi di laurea) è mancata la forza di opporsi alla proposta punitiva dei colleghi comunisti. Lo si può spiegare col fatto che erano docenti solo “incaricati” dell’insegnamento di Storia contemporanea e quindi sotto tiro per la conferma del loro incarico universitario (rinnovo che, infatti, in entrambi i casi non ci fu).
Penso che la sanzione negativa, con l’abbassamento della media dei voti, comminata a Niceforo non sia derivata dall’inadeguata o incompleta documentazione da lui esibita. Mi sembra piuttosto da attribuire al suo anti-conformismo, cioè al mancato (e inedito) schieramento del giovane laureando a favore del già potente esercito intellettuale costruito dal Pci. Ormai si era impadronito, o l’aveva posto sotto assedio, di gran parte degli atenei, della stampa e dell’editoria.
Da quegli anni in avanti (la partecipazione del Psi al governo con la Dc) avrebbe dato vita ad un vero e proprio gramscismo conquérant. Fu lo spaccio di una moneta senza la quale nella cultura italiana di quegli anni (e non solo) si veniva respinti, segnalati come vitandi o più semplicemente marginalizzati come plebaglia, scarto intellettuale.
Anche se non si può andare fieri delle promozioni della destra oggi vittoriosa in testa agli apparati culturali dello Stato, il calo, se non il tramonto, della cosiddetta egemonia comunista (a carico dello Stato sono le spese di una strumento-peraltro importante – come la Fondazione Gramsci), è servito a creare un clima (non spettacolare e generalizzato) di aria nuova e di pulizia nel mondo della sinistra. A essere percepita è un’attenuazione (non so quanto durevole) della tossicità del conformismo culturale al nuovo Principe. A lungo aveva guardato come esempio e modello all’Urss.
La riflessione di Critica sociale si svolge su due argomenti che sono parte di un approccio unitario, ma che si possono affrontare disgiuntamente: Marx e la concezione della rivoluzione, il rapporto coscienza di classe e rapporti capitalistici di produzione.
L’estrema sinistra del PSI, con Giacinto Menotti Serrati e Costantino Lazzari, non mostrò alcun interesse e neanche velleità di elaborazione teorica sul marxismo. Il suo apporto si esaurì per molti anni in una tenace pedagogia e minaccia di massa. Dopo le elezioni del novembre 1919. in cui il Psi ebbe il più grande successo elettorale della sua storia, le alleanze si vennero restringendo come una pelle di zigrino.
Un giorno sì e un giorno no, la leadership della corrente massimalista (che fu a lungo maggioritaria nel Psi) si esercitò nel ribadire il rifiuto del parlamentarismo borghese – a cominciare dalle stesse elezioni comunali e provinciali – e nell’annunciare ad ogni piè sospinto (come è stato estesamente documentato)22 l’imminenza di una rivoluzione espropriatrice dei diritti di proprietà e dei molti poteri con cui la borghesia avrebbe attuato un massiccio sfruttamento di classi e ceti di ogni ordine e grado.
A differenza della socialdemocrazia tedesca, i nostri massimalisti non si preoccuparono, quindi, di munire di strumenti culturali significativi i militanti della loro corrente e, a maggior ragione, del partito. Poiché la coscienza rivoluzionaria era un fattore presupposto, tutto era affidato ai risultati dell’uso della violenza ad opera di una “dittatura proletaria quasi senza proletariato” e alla maggiore o minore disponibilità dei militanti a servirsene.
Turati e la Russia
Diversa e più complessa fu la vicenda di Turati e dei teorici riformisti del marxismo.
Alla tesi di Arturo Labriola secondo cui la realizzazione del socialismo era il leninismo, e che
“in Russia, volere o no, la classe lavoratrice è al potere … Questa è la stessa storia del mondo proletario-comunistico che comincia”23 ,
Turati oppose, cioè negò, che “la classe lavoratrice (fosse) al potere” in Russia e rilevò il carattere palesemente contraddittorio di “una dittatura proletaria quasi senza proletariato”.
Egli non argomenta, come faceva la cultura evoluzionistica della storia, che non fossero possibili gli “strappi” di cui amava parlare Gramsci.
A impensierirlo e fargli temere un pessimo futuro era la decisione di Lenin di non cedere il potere che aveva conquistato. In altri termini il leader riformista italiana non accettava
“il fatto che l’abolizione delle classi, sulla bocca di un socialista, (potesse) divenire fine a sé stessa, come sembra che sia nel regime leninista, dove infatti ci si ingegna di sopprimere le classi avversarie corporalmente… senza togliere… le ragioni economiche del loro ripullulare”.
Turati intendeva rendere di pubblico dominio che Lenin si era visto costretto ad avvalersi di tecnici e anche di capitali stranieri, e a stabilire un compromesso con i contadini. Ma la sua maggiore inquietudine e insicurezza consisteva nella sotto-valutazione che Lenin faceva del consenso democratico, della libertà di assenso che in una società compiutamente socialista, sono indispensabili. Al congresso di Bologna avrebbe sviluppato il concetto che il socialismo non poteva essere calato dall’alto, e, aggiunge lo stesso Turati, sovrapporsi
“come un cerotto […] alla società corpus vile”.
Nel suo intervento si soffermò, per smontarla, sui punti principali della relazione di Serrati, cioè sul ruolo della violenza e sulla natura del nuovo Stato costruito dai bolscevichi
Sul primo punto osservò che dalla guerra la borghesia usciva enormemente rinvigorita perché
“aveva mostrato l’enorme potenza, la persistente saldezza, assai maggiore che non pensassimo, dello Stato borghese”.
Si era assistito allo spettacolo impressionante di
“milioni e milioni di proletari armati marciare al cenno del carabiniere, dell’ardito’, senza quasi una ribellione”.
Di qui l’idea, che Turati condivide con Lazzari, che lo Stato fosse ancora sufficientemente forte da schiacciare ogni tentativo rivoluzionario. Pertanto in tale situazione l’appello alla violenza
“non era altro che il suicidio del proletariato […] Oggi non ci pigliano abbastanza sul serio; ma quando troveranno utile prenderci sul serio il nostro appello alla violenza sarà accolto dai nostri nemici, cento volte meglio armati di noi, e allora addio per un bel pezzo azione parlamentare, addio organizzazione economica, addio Partito Socialista”.
Non esitò, in nome della libertà dei popoli, a condannare i tentativi di intervento straniero (per via militare o per boicottaggi) nel territorio russo. Altrettanto fermo fu nel negare che dal Mar Nero agli Urali si fosse costruito, o si stesse costruendo, il socialismo. A suo avviso, la debolezza dello sviluppo economico della Russia (come dell’Italia) era tale da rendere la costruzione di una società comunista una grande forzatura, una circostanza storica improbabile.
Se la si fosse tentata, annotava Turati, si sarebbe lastricata la strada ad un sistema autoritario e repressivo, seminando il suo iter di sofferenze, sacrifici e disastri di ogni genere e livello. Infatti a caratterizzare l’opera di Lenin, nelle rivoluzioni del febbraio e dell’ottobre 1917, fu il suo carattere elitario, minoritario per la mancata partecipazione diretta, piena e consapevole, da protagonisti e non per via delegata, del proletariato organizzato (operai e contadini). Il che sarebbe stato possibile solo in seguito ad un loro graduale sviluppo economico, civile e culturale.
Quel che, infatti, non ci fu.
Turati è molto netto nel sostenere che senza tale partecipazione (“dal basso verso l’alto”) alla gestione del potere,
“la cosiddetta dittatura del proletariato […] non sarebbe, non potrebbe essere, per lunghissimo tempo che la dittatura di alcuni uomini sul proletariato, ossia la dittatura contro lo stesso proletariato”.24
Fu un facile, ma impeccabile profeta, per quanto concerne l’abolizione delle diseguaglianze e l’ampliamento delle libertà dei proletari, di un disastro epocale. In loro vece,
“per avergli imposto una rivoluzione ad oltranza per la quale è manifestamente immaturo dovrà varcare attraverso una infinita odissea di dolori, forse di ritorni verso il passato, e nel miglior caso dovrà soffrire, per l’adattamento necessario al nuovo regime, decenni di patimenti e di povertà, mentre fin d’ora è costretto a creare una immensa macchina militaresca, quale non ha alcun altro Stato, e che è un permanente pericolo per qualunque presente e futura democrazia”25.
Per i suoi compagni (i massimalisti elezionisti) che, “scimmiottando Lenin“, intendevano replicare in Italia questo modello, l’apologia, e il relativo appello, all’uso di “violenza vittoriosa immediata”, ha parole di una chiarezza aspra e drammatica:
“Questo è un inganno mostruoso, è una farsa, che peraltro può tralignare in tragedia, preparando i tribunali di guerra, la reazione più feroce, la rovina del movimento per mezzo secolo, non sotto la compressione militarista, ma sotto la ostilità di tutte quelle classi medie, quelle piccole classi, quei ceti intellettuali, quegli uomini liberi, che si avvicinano a noi, […] e che noi – colla minaccia della dittatura e del sangue – gettiamo dalla parte opposta, regaliamo ai nostri avversari […] Ma noi facciamo di peggio: noi allontaniamo dalla rivoluzione le stesse classi proletarie. Perché chiaro che, mantenendole nell’aspettazione messianica del miracolo violento, nel quale non credete e per il quale non lavorate se non a chiacchiere, voi li svogliate dal lavoro assi duo e penoso di conquista graduale, che è la sola rivoluzione possibile e fruttuosa”26.
Rodolfo Mondolfo, la testa teorica del riformismo socialista
La costruzione sul piano teorico del socialismo gradualista ebbe il proprio maggiore esponente in un filosofo come Rodolfo Mondolfo. Seppe tener testa tanto a Lenin quanto a Antonio Gramsci sulla base di una lettura di Marx e del materialismo di cui fu un interprete prezioso e combattivo rispetto alla vulgata che vollero imprimergli i comunisti.
Ma i leader del gradualismo (Giuseppe Emanuele Modigliani, Camillo Prampolini, Claudio Treves, Filippo Turati, Giovanni Zibordi, e altri), tutti proiettati nella lotta contro il sistema capitalistico e quindi nel cercare soluzioni alla “questione sociale” (lavoro, salari, abitazioni, scuole, eccetera), non si distinsero per un adeguato interesse né si curarono di offrire un proprio personale apporto al dibattito sulla revisione del marxismo.
L’apporto di Mondolfo può essere sintetizzato nei seguenti punti:
- il superamento – sul piano teorico come su quello politico concreto – della visione da metafisica deterministica come quella da una parte dei massimalisti (non di rado vittime di fatalismo e appunto di meccanicismo) e degli evoluzionisti, in nome del realismo (cioè della soluzione concreta – pur in un disegno di società alternativa – del problema concreto) e del primato attribuito alla libertà dell’uomo, alla creatività dello spirito umano, non riducibili all’ambito dei fatti naturali. Tale antidogmatismo e sensibilità politica delineò una linea di condotta che avrebbe potuto sfociare nell’associazione del Psi ai governi giolittiani, ma che la maggioranza del partito contrastò,
- un approdo alla visione storicistica della realtà e delle sue trasformazioni che lo indusse a stabilire una continuità dialettica tra liberalismo e socialismo,
- la convinzione che il successo di quest’ultimo fosse legato alla connessione tra “maturità oggettiva e soggettiva”, cioè alla maturazione nei proletari di una coscienza antagonistica volta ad abbattere il capitalismo e, dall’altro lato, di uno sviluppo economico-sociale che assicurasse condizioni di vita e di lavoro adeguate ai salariati.
Rodolfo Mondolfo
Secondo Norberto Bobbio il marxismo di Mondolfo
“criticando la metafisica hegeliana, diventa la concezione della priorità dei cosiddetti rapporti materiali con la connessa critica delle ideologie […]”.27
Secondo Fabio Frosini, in questo modo emergono
“da una parte l’analisi scientifica dei rapporti sociali mediante la coppia base/sovrastruttura, dall’altra – e qui è Mondolfo – il rapporto soggetto/oggetto come matrice per la comprensione della storia e la conseguente enfasi posta sul concetto di «rovesciamento della prassi»”.28
Bobbio è spinto a chiedersi se, invece dell’oscillazione che era organica al suo pensiero, Mondolfo non sia stato sopraffatto dalla sua vocazione mediatrice. Da questa
«fu portato ad accentuare di fronte al riformismo il momento anti-deterministico, l’elemento soggettivo; di fronte alla rivoluzione che aveva bruciato le tappe, il momento anti-volontaristico, l’elemento oggettivo».29
In realtà, egli è impegnato fino alla monografia del 1912 su Friedrich Engels30 nel ripensamento di un marxismo in quanto filosofia della prassi e insieme risultato della storia, cioè, secondo Frosini,
“come una filosofia che nasce dal bisogno di liberazione di ampie masse e che necessariamente, per il suo contenuto stesso, ridiventa azione politica”.31
Il leninismo e il fascismo lo convincono che occorra porre l’accento sull’oggettività e sulla necessità, e non più sulla libertà e sulla soggettività. Matura in lui la consapevolezza, anche in polemica con Lenin nel 1919, che le epoche storiche non possono essere né accorciate e neanche fatte oggetto di repentini salti.32
Dunque la rivoluzione è assunta come l’incombere di una necessità storica, quasi un carattere naturalistico.
Di qui il suo contributo a fare credere a Turati e ai riformisti che quella di Lenin (della storia come rottura definitiva, catastrofismo) sia un’aberrazione remota dal marxismo, ribadendo il suo schieramento nell’area politica del riformismo socialista.
La storia per Mondolfo è, invece, continuità, e in questo grande e infinito processo di flussi il socialismo non è altro che un trapasso insensibile. Schematizzare e irrigidire la dialettica dello sviluppo era foriero a suo avviso di tragedie politiche, perché si finiva per dividere la storia e la politica in parti reciprocamente estranee.
A distanziarlo sensibilmente da Lenin fu anche la sua concezione della “dittatura del proletariato” che, per l’arretratezza in cui era avvenuta la rivoluzione del 1917, le faceva assumere forme estremamente autoritarie.
Mondolfo è, dunque, in prima linea nel suggerire a Filippo Turati e ai riformisti di diffidare profondamente di quanti intendevano stravolgere, cioè manomettere, le forme della democrazia, a cominciare dai diritti e dalle garanzie sancite del regime parlamentare.33
Per questa attitudine in cui lo storicismo si giustappone al riformismo, nei confronti dell’Unione sovietica egli finisce per concordare con Karl Kautsky.34
A suo avviso tra fascismo e bolscevismo la confluenza, o la giuntura, risiedeva nell’essere entrambi una frattura della continuità della storia. Il loro elemento comune fu costituito dall’esigenza dell’insurrezione o della convulsione (cioè dal l’opzione per la rivoluzione) perché fosse possibile poter arrestare artificiosamente l’emergere di una forza.
Ma entra in polemica con un intellettuale fascista come Sergio Panunzio, di cui nel 1921 pubblica nella sua collana un testo non facile né banale.35
Nella sua prefazione, Mondolfo si premura di introdurre, e richiamare, distinzioni tra
«innovazione» e «sviluppo» come, rispettivamente, violenta «infrazione della continuità di uno sviluppo autonomo» e «processo […] silenzioso […] continuo, inavvertito perché senza esplosioni».36
Una manciata di anni dopo, cioè nel 1928, al fascismo riconoscerà di avere fruito del consenso, oltre che delle classi medie, «anche le masse operaie»37. Ma la stabilità del regime non ne guadagnerà molto dal momento che col corporativismo si tentò di
«spostare l’attenzione dal problema della distribuzione a quello della produzione».38
Ma ciò non fece che alimentare i risorgenti conflitti tra le classi, mettendo a rischio il regime.
La sua riflessione ha come epicentro la continuità e progressività della storia. Anche quando sente come possibile, se non incombente, il tramonto della civiltà, in lui non si attenua la convinzione che abbiano un valore storico in senso pieno i movimenti e le forze che nella loro azione storica riescano a esprimere
«un’esigenza di libertà, sicché nella rivendicazione per sé implichi il rispetto di un principio universale».39
Come ha rilevato Frosini, nel libro su Engels scritto nel 1912, Mondolfo non solo intendeva dimostrare l’esistenza di un pensiero originale del filosofo e liberare il marxismo dall’accusa di meccanicismo, ma aspirava a
«distruggere la leggenda dell’anti-eticità del materialismo storico».40
A suo avviso, morale feudale, borghese e proletaria sono
«tappe di questo faticoso cammino ascensionale», ma rimane pur sempre una «morale di classe»: non è ancora una «morale veramente umana, perché ad aver questa occorre che siano scomparsi dalla vita anche i ricordi degli antagonismi di classe».41
Lo sfruttamento della classe operaia, con l’estrazione del plusvalore, non sarebbe solo un problema economico, ma in primo luogo una questione etica, di risonanze kantiane, cioè un’«offesa a un diritto naturale».42
Ma l’oscillazione mondolfiana tra la volontà e il suo essere condizionata è uno schema che si rompe con l’esperienza del leninismo e del fascismo. Di fronte all’emergere, insieme alla crisi della borghesia, di movimenti sociali che postulano una politica in grado di imporre nuovi rapporti di classe, Mondolfo, rispetto alla libertà, esalta la necessità, e, rispetto alla soggettività, esalta l’oggettività.
Tutto diventa più prosaico e chiaro nel 1919. Contro Lenin può ricordare che accorciamenti o salti delle epoche storiche non sono possibili.43 Invece di assimilare la rivoluzione alla sfera della necessità, ribalta fino a sostenere l’opposto:
«la rivoluzione è possibile perché è preparata in tutto, incombe come una necessità storica».44
Gramsci volta le spalle a Marx.
In realtà Gramsci e l’intero gruppo dirigente del Psi, con l’eccezione di Turati e dei riformisti, avevano voltato le spalle a Marx. Si erano riconosciuti solo in una lettura della sua opera che non teneva conto di quanto emergeva dalla corrispondenza con Engels.45
Gramsci lo riconosce apertamente quando, un mese dopo la conquista del potere da parte dei bolscevichi, nega l’assunto di Marx per il quale la rivoluzione sarebbe potuta avvenire solo nei paesi industrialmente sviluppati, come per esempio il Regno Unito. Ed è coerente, quindi, nel ripudiare le posizioni di Julij Martov.
In una lettera, pubblicata dalla stampa socialista, il leader menscevico mise il pollice verso sulla rivoluzione d’ottobre e sostenne l’impossibilità di fare accordi con un leader inaffidabile (come garante dei diritti di tutti i partiti e cittadini) come Lenin.46
Il governo creato dai lui, in quanto capo dei bolscevichi, era espressione di una minoranza. Si reggeva
«contro la volontà della maggioranza del popolo».
Aveva soppresso la libertà di riunione e di stampa, che Serrati mistifica quando accusa i socialisti russi di approfittare
«della conquistata libertà per soddisfare il loro gusto innato di quistionare fra loro».
Non riconosceva la sovranità della Costituente.
Quale garanzia di libertà si poteva presumere potesse venire da questo stuolo di giacobini?
Gramsci (al pari di Turati nel congresso del PSI tenuto a Bologna nel 1919) si lascia trascinare nelle spire dell’entusiasmo e del fascino irresistibile esercitato da Lenin.
Claudio Treves (oggetto di un instancabile sarcasmo da parte di Gramsci) commentò negativamente il suo articolo su La Rivoluzione contro Il Capitale.47 Rilevò opportunamente come Lenin avesse abolito, servendosi di puri decreti (al posto dell’evoluzione economica, cioè la fase borghese-industriale del capitalismo), il titolo di proprietà, passando in questo modo, cioè con un salto (un decreto governativo appunto) dall’economia patriarcale agraria al collettivismo. E si domanda perché allo stesso modo (cioè con decreti)
“non si crei la società perfettissima e in che differisca cotesta concezione del Socialismo dall’utopismo di Campanella o di Moro. Qui ci pare chiarissimo che non si abiura più soltanto Il Capitale, ma financo Il Manifesto”.48
Il parlamentare turatiano non poteva aggiungere quel che a noi posteri è diventato molto chiaro: il salto della fase borghese del capitalismo, cioè l’instaurazione precoce del comunismo, in nome della soggettività (cioè dell’avanzato sviluppo della coscienza antagonistica, di classe) ha prodotto quel che è stata storicamente l’Unione sovietica. Vale a dire un sistema politico con scarsi ricambi di leadership, sempre più militarizzato, con una spesa enorme per i costi della sua proiezione internazionale (il suo imperialismo), con un conformismo che dall’interno del partito si estendeva all’intera elefantiaca burocrazia, intollerante e persecutoria di ogni forma di dissenso. Quel regime politico installato a Mosca ha avuto come costo la fine di ogni speranza di libertà, di eguaglianza e di sicurezza per milioni di russi, e non solo.
Ad accreditarla mi pare possa dirsi sia stata la maggioranza degli studiosi della Fondazione Antonio Gramsci. Veniva respinta, quando non vilipesa, quella più cauta e realistica distillata da Filippo Turati, Claudio Treves, Rodolfo Mondolfo e da altri sulle colonne del periodico socialista Critica sociale.
Claudio Treves
Consapevolmente o meno, questa dimensione è stata sempre presente ai riformisti. Gramsci l’ha, invece, a lungo ignorata assumendosi così, consapevolmente o meno, la responsabilità di aver sostenuto uno dei regimi più repressivi e sanguinari della storia del Novecento.
I suoi compagni ed eredi faranno di peggio. Aspetteranno un bel tratto di anni (dal 1937 al 1989), cioè la demolizione – per mano e martello di popolo – del muro di Berlino, per chiudere la partita con Mosca e arrivare subito dopo a sistemare in cantina il nome (comunista: di grandi speranze e micidiali orrori) del partito. Ma nessun passo indietro sarà fatto da Enrico Berlinguer e dagli eredi del Pci, con l’eccezione di Massimo D’Alema, riconoscere che la socialdemocrazia aveva storicamente avuto ragione e quindi aveva vinto. In sua vece la criminalizzazione dei socialisti non ha avuto tregua. Nel suo noto saggio Silvio Pons49 ha rispecchiato l’essenziale della riflessione gramsciana quando ha scritto:
“Per questa via, Gramsci legittima senza riserve l’operato di Lenin e dei bolscevichi, che vede non come utopisti ma realisti, organizzatori della coscienza di massa e portatori di ordine nel caos russo, aderendo all’idea e alla pratica della dittatura proletaria quale istituto garante della libertà”.50
Non sembra sfiorarlo un dubbio, presente tra i socialisti europei dell’epoca, cioè
“che il potere del partito possa esautorare l’autogoverno consiliare. Pensa invece che i soviet e il partito bolscevico siano gli ‘organismi’ integrati del nuovo ordine, capaci di creare nuove gerarchie fondate su una ‘autorità spirituale’, fonte di socializzazione e di una cittadinanza responsabile.51 Così partecipa alla costruzione di un mito della rivoluzione”.
In lui, continua Pons, sarebbe acquisita consapevolmente la lezione di Georges Sorel, per quanto concerne
“l’importanza di un mito fondativo nella moderna società di massa, quale fattore di organizzazione di una volontà collettiva, instaura una dialettica tra la narrazione meta-storica della nascita di un ‘nuovo ordine’ e la sua collocazione nel tempo storico del dopoguerra. Continua a vedere la rivoluzione come il frutto di un profondo rivolgimento della società, una combinazione tra la spontanea crescita della coscienza di massa e l’azione della soggettività politica”.
Ma a prendere coscienza e maturare in Gramsci sarebbe qualcosa di originale, quando
“Identifica molto presto lo scenario del ‘nuovo ordine’ con la figura dello Stato bolscevico, il suo monopolio della forza e il suo ceto dirigente. La centralità di questa visione storicamente determinata è stata forse sottovalutata dagli studiosi e merita invece un fuoco particolare per le sue implicazioni a lungo termine”.
La capacità di rifondare l’ordine esistente la classe operaia poteva dimostrarla prefigurando – ancora in regime capitalistico – alcuni organi del futuro Stato operaio, cioè dando vita a vere e proprie cellule autogestite nel governo delle imprese, nella gestione della forza-lavoro, eccetera.52 Con la generalizzazione di tali anticorpi si sarebbe gradualmente sostituito il centralismo gerarchico del capitalismo.
L’auto-determinazione esigeva un elemento che complessivamente mancò, fu cioè limitato ad alcuni strati operai: una formazione culturale che esaltasse le competenze, la professionalità (famoso diventò il battilastra). Non solo nell’ambito dei processi produttivi delle aziende, dei contratti (cioè del mestiere), ma di carattere più generale dal momento che all’ordine del giorno del primo dopoguerra – come della crisi del 1929 – ci sarà la gestione sia dell’impresa sia dell’intera società.
Era una tematica che si era estesa a livello europeo.53 Nella storiografia comunista, e anche specificamente gramsciana, è stata ignorata o tenuta in ombra. Ma è difficile pensare che non fosse a conoscenza di un economista molto colto e dagli interessi non ristretti come Piero Sraffa.
Gramsci e il giacobinismo dei bolscevichi
Antonio Gramsci
È noto, ma non è diventato senso comune tra gli studiosi, come Gramsci identifichi la rivoluzione russa del febbraio 1917 come la marcia risoluta verso il socialismo, malgrado il persistere delle divisioni in seno al movimento operaio. Questa interpretazione non aveva l’accredito unitario di tutti i movimenti politici, ma era presente solo nei bolscevichi nei quali Gramsci si identifica. Ciò ha luogo prima che in Italia comincino a circolare le Tesi di Aprile di Lenin.54
Com’è stato mostrato da uno studioso assai accurato55 egli sovrappone allo svolgimento reale delle vicende russe la sua idea (assolutamente soggettiva e soggettivistica) di rivoluzione. Il testo più esemplificativo è quello più noto, ma è anche il commento più originale (e allo stesso tempo più infondato e meno affidabile) sulla conquista bolscevica del potere, cioè “La rivoluzione contro Il Capitale”.56
Indipendentemente, anzi contro, le analisi di Marx (che nelle letture degli esponenti della Seconda Internazionale aveva individuato il crollo del capitalismo all’altezza del suo massimo sviluppo e mai della sua fragilità o arretratezza, quale era la sua condizione in Russia, Gramsci pensa che già il sommovimento del febbraio 1917 avesse lastricato il percorso verso un socialismo non esposto a insidie e ipoteche giacobine. I due elementi cruciali che intravvede e sottolinea sono, infatti, la formazione di un nuovo ordine politico fino al farsi Stato del proletariato (assai poco industriale) e l’instaurazione di una nuova etica, di un inedito costume morale, ad opera dei bolscevichi.
A suo avviso i rivoluzionari russi rifuggirebbero dall’idea che per conservarsi al potere debbano servirsi della violenza, come si fece in Francia nel 1793.
È, questa, una lettura del processo rivoluzionario che serve a descrivere la concezione gramsciana della rivoluzione, ma che con quanto avviene in Russia non ha alcun fondamento.
Infatti la sindrome del giacobinismo farà valere subito le sue prescrizioni. Lenin si premurò di sciogliere l’Assemblea Costituente che, in seguito alle elezioni del gennaio 1918, non aveva dato la maggioranza ai bolscevichi. Era, dunque, la spettacolare imposizione di una supremazia estorta, della volontà della minoranza, uscita perdente dalle elezioni, di farsi valere, esercitando le prerogative di un comando di cui gli elettori non l’avevano investita, anzi le avevano negato.
La vicenda avrà un rilievo storicamente decisivo. La prassi, se non la cultura, dell’autoritarismo e della violenza contro le istituzioni e, progressivamente, contro le persone e i loro elementari diritti, sarà il carattere saliente del comunismo, anche dopo la sua débâcle. Mai ha avuto nulla a che spartire né con la democrazia dei regimi liberal-democratici né con l’idea dei una democrazia diretta, cioè senza i partiti, in cui il popolo si auto-governava. Fosse del padronato agrario e industriale, fosse della classe operaia, congiunturale o organica, il dispotismo, cioè la forma dittatoriale del potere, ha dominato i governi succedutesi anche nei secoli XIX e XX fino ad oggi in Russia. Commentando questa vicenda57 Gramsci la considera poco significativa in quanto la Costituente (che nel 1937 raccomanderà al suo partito come la prima manifestazione popolare del post-fascismo) sarebbe stata una forma vecchia e decrepita di espressione della volontà popolare. In altri termini, la rappresentanza propria del parlamentarismo liberale e occidentale ai suoi occhi era una ben misera cosa rispetto a quella manifestatasi ben più sovranamente nei Soviet. In secondo luogo la giustificava perché il ricorso alla violenza da parte di Lenin e dei bolscevichi sarebbe stato un atto contingente, una parentesi, un’eccezione che non si sarebbe ripetuto.
I bolscevichi erano minoranza nel momento presente, in una dimensione temporale assolutamente contingente, ma nel futuro erano destinati a
“diventare maggioranza assoluta, se non addirittura la totalità dei cittadini”.
Dunque, per Gramsci il comportamento usurpatorio dei bolscevichi non era da considerare l’opzione per una “dittatura perpetua”. Un investimento sul futuro dell’esercizio della violenza politica non faceva parte del programma della rivoluzione socialista perseguita da Lenin. Il suo obiettivo era un nuovo sistema di libertà, la sperimentazione di una democrazia di tipo nuovo che si sarebbe avvalsa, all’inizio e in un contesto di provvisorietà, dello strumento della forza e dei mezzi dell’autoritarismo. Questo intermezzo della dittatura proletaria secondo Gramsci sarebbe servito a reprimere le forze contro-rivoluzionarie che impedivano la trasformazione del Paese; e in secondo luogo a rendere possibile quella che era sembrato irrealizzabile58. L’utopia di cui scrive era il consolidamento dello Stato dei Consigli, cioè la nuova architettura dei poteri
“in cui la dittatura si dissolverà, dopo aver compiuto la sua missione”.
Era un episodio destinato a durare il tempo necessario perché i bolscevichi, che erano la sola forza politica rivoluzionaria, ma ancora una minoranza, si costituissero e si manifestassero come maggioranza. Comunque è assai significativo quanto rileva Leonardo Rapone:
“La prima volta che l’attenzione di Gramsci si fissa sui Soviet è in corrispondenza proprio dello scioglimento della Costituente: quello è il punto di partenza del cammino che, attraverso la tematizzazione dello Stato dei Consigli, disegnerà un nuovo profilo della sua concezione del socialismo”.59
Non disponiamo di nessun giudizio di Sraffa su questo uso (sicuramente inedito e anche paradossale) della dittatura per ampliare l’articolazione democratica del primo esempio di Stato comunista della storia. È probabile che il suo interesse per la Russia non fosse allora in primo piano.
Dopo il delitto Matteotti, anche Piero Sraffa contrasta Gramsci60
Sarà un vecchio amico e compagno di studi del periodo torinese dell’Ordine nuovo, Piero Sraffa, a cercare di distogliere Antonio Gramsci dall’errore di considerare il Partito Comunista d’Italia, dopo la crisi aperta dal delitto Matteotti nel 1924, una forza capace di coalizzare un ampio fronte politico per dare vita ad un “governo operaio e contadino”61. L’economista torinese premette di essere d’accordo col programma generale dei comunisti italiani, ma per quanto concerne la linea politica adottata da Gramsci dopo l’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti. muove dei rilievi critici assai corposi. In grande misura assimilabili a quelli dei socialisti riformisti di Filippo Turati.
In primo luogo il partito doveva appagarsi di svolgere una funzione minore, addirittura da mosca cocchiera. La risposta al fascismo più realistica veniva ravvisata solo nell’unità dei partiti aventiniani guidati da Turati; e l’unica prospettiva da perseguire era di ripristinare “l’ordine liberale” garantito dallo Statuto albertino in modo da poter consentire ai sindacati gli interventi per poter aumentare l’occupazione, i salari, le abitazioni, eccetera.62 La misura del dissenso con Gramsci è, dunque, assai rilevante. Infatti Sraffa prende di mira, fino a negarne non solo la forza, ma addirittura la stessa esistenza, di una componente importante, anzi decisiva, della cultura antagonistica del Pcd’I e in generale del Comintern:
“la classe operaia è completamente assente dalla vita politica; e non posso che concludere che il Partito Comunista, oggi, non può far niente o quasi niente di positivo”.
C’è da chiedersi come mai Gramsci abbia ospitato, se non addirittura richiesto, al suo vecchio compagno torinese di studi universitari un’analisi così platealmente distante e diversa, cioè una contestazione frontale di quella che lo aveva indotto a proporre l’applicazione al caso italiano della prospettiva cominternista del “governo operaio e contadino”.
Piero Sraffa
Il seguito della lettera è ancora più devastante. Sraffa paragona la situazione attuale a quella della guerra quando l’imminente preludio di una catastrofe venne rovesciato grazie a Caporetto e alla rivoluzione russa di novembre, cioè
alla “scoperta […] che i fucili erano precisamente in mano agli operai-soldati”.
Quest’ultima sembra una concessione importante alla posizione assunta isolatamente (cioè non condivisa né dal partito né dal Comintern) da Gramsci con lo schierarsi a favore degli Arditi del popolo, sulla necessità di munire il partito, i suoi affiliati e alleati di un adeguato armamento. E rappresentò sul piano ideale e pratico il passaggio dalla lotta di classe alla guerra civile.
In realtà il fatto che le armi fossero nelle mani degli operai-soldati, insieme al problema dell’autodifesa armata, era stata una richiesta posta dai bolscevichi a Zimmerwald nel 1915, e con la rivoluzione del 1917 la “guerra imperialista” venne trasformata in guerra civile. Gramsci lamenta che dal PSI non ne vennero informati i militanti.
Considera l’episodio un aspetto della
“stessa tattica di passività, di ‘neutralismo’, dell’unità per l’unità, del partito per il partito, della fede nella predestinazione del Partito socialista a essere il partito dei lavoratori italiani”.
Il che, a suo avviso, era un risultato smentito dal fatto che nel 1924 esistevano il Partito socialista unitario a destra e il Partito comunista a sinistra, crisi continue, scissioni dopo scissioni, eccetera.
Per Sraffa col fascismo doveva valere lo stesso stato d’animo che egli e altri commilitoni ebbero con la guerra. Com’era stato per questa, anche il regime di Mussolini non era destinato a durare, e si annunciavano, infatti, a brevissima scadenza gravi avvenimenti, scrive. Ma le difficoltà erano cresciute enormemente, perché il partito e il sindacato non contavano più come una volta. E quindi
“non possono dare nessun aiuto, anzi tutt’altro, si ottiene un po’ di pace solo facendosi più piccoli possibile, polverizzandosi; si aumenta un po’ la paga lavorando molto e cercando dei lavori straordinari, facendo concorrenza agli altri operai eccetera: la vera negazione del partito e del sindacato”, dunque.
Quando sarà possibile “un’azione politica operaia” affidata ad essi? si chiede Sraffa. La risposta è che questa nuova fase in cui partito e sindacato potrebbero avere una funzione coinciderà con la fine di quel che oggi domina, vale a dire l’arrangiarsi, la ricerca di risposte individuali e private a quei “problemi concreti” che sono la salvaguardia del posto di lavoro, la paga, la casa e la famiglia.
A differenza di Gramsci e degli altri dirigenti comunisti Sraffa ritiene che
“la crisi economica si è ormai attenuata”
e all’ordine del giorno sia balzato prioritariamente, e
“pregiudiziale a qualsiasi altra, la questione delle ‘libertà’ e dell’ordine’: dopo verranno le altre, ma per ora non possono neppure interessare gli operai”.
Le “altre” erano la conquista del potere, la rivoluzione anti fascista. Esattamente quel che i comunisti proclamavano come obiettivi cruciali, imperativi e mobilitanti.Sraffa non si fa carico di enumerare le ragioni di analisi economica che lo inducono a rappresentare come passeggera, contingente, cioè non organica al destino del capitalismo, sia la crisi che il fascismo stava vivendo nei primi anni del dopo guerra, sia il progressivo superamento di essa. Non si perita neanche di utilizzare in questa diagnosi i risultati degli studi di politica monetaria e del sopravvenire dei poteri delle imprese monopolistiche sul mercato. Resta convinto che nel lungo periodo la sorte del modo di produzione capitalistico sarà decisa proprio del venir meno della libera concorrenza, e pertanto nella lettera all’Ordine Nuovo ribadisce di condividere la politica generale dei comunisti.
Nell’immediato, però, è molto lontano da essa. La sua riflessione arriva, infatti, fino a identificare il fascismo come il soggetto politico che avrebbe effettuato in Italia quel che fino ad allora era mancata, ossia una “rivoluzione borghese”.
Ma questa necessità mi sembra più figlia della concezione marxista dello sviluppo (graduale, per fasi) del capitalismo, che del primato della soggettività anti-capitalistica del proletariato teorizzata (e applicata alla Russia) da Lenin.
Coerentemente con tale impostazione, che definirei riformistica, Sraffa fece, invece, presente a Gramsci che
“se ci fosse un minimo di libertà sindacale e di ordine pubblico, sarebbe possibile la ripresa delle organizzazioni, degli scioperi ecc. (come, per esempio, in Inghilterra)”.
Che cosa poteva fare il Partito Comunista d’Italia per alleggerire la “pressione fascista”?
Niente o pochissimo. Sraffa non usa mezzi termini in nome dei vecchi rapporti di amicizia con Gramsci. Al quale fa presente quanto Il leader comunista non desiderava sentirsi dire, ossia che
“questo è il momento delle opposizioni democratiche, e mi par necessario lasciarle fare e magari aiutarle”.
Suggeriva anche il modo in cui i comunisti potevano dare una mano, cioè rinunciando al loro obiettivo programmatico (che era anche quello di Lenin e del Comintern) di conquistare il potere, in quanto
“È necessario prima di tutto una ‘rivoluzione borghese’, che permetterà poi lo svolgersi di una politica operaia. In sostanza mi pare che, come durante la guerra, non ci sia altro da fare se non aspettare che passi”.
Dunque, un processo politico scandito in due tempi. Era quanto da sempre proponevano i socialisti riformisti ed era esattamente la ragione per la quale i comunisti erano nati, cioè per respingerlo, usando ogni possibile violenza.
Ma questo ragionamento non pare a Sraffa
“essere inconciliabile con l’essere comunista, sia pure indisciplinatamente”.
In realtà era un modo di “pensare agli antipodi”, e sul punto chiede un parere allo stesso Gramsci.
Il ripristino delle libertà e il ritorno all’ordine spettano alle “sinistre” (probabilmente Sraffa si riferisce soprattutto al Psi). Il giovane economista (in forza come professore ordinario presso l’università di Cagliari e in procinto di trasferirsi in quella del Regno Unito a Cambridge), non vede
“quale convenienza avrebbe il partito comunista a scegliere di “compromettersi con esse”, e quale proprio contributo potrebbe portare a una campagna di tal genere”
(vale a dire il ripristino del vecchio “ordine liberale”).
Anzi reputa
“sia anche un errore il mettersi apertamente contro di esse e insistere troppo (come fa, per esempio, l’organo del partito, l’Unità) nella derisione della ‘libertà borghese’: bella o brutta è la cosa di cui più fortemente sentono oggi il bisogno gli operai ed è il presupposto di ogni conquista ulteriore”.
Siamo di fronte all’illustrazione di un principio basilare del liberal-socialismo e alla negazione più fervida delle priorità per le quali si battevano i leader comunisti.
Sraffa per rendere più intellegibile la sua analisi ricorda come durante la guerra il neutralismo non fu una politica socialista, ma fu certamente la politica migliore fra quelle possibili per il partito socialista, perché era la più sentita dalle masse.
Analogamente, scrive,
“Il Partito comunista non può, per la contraddizione, far la campagna per la libertà e contro la ditta tura in genere; ma commette un grave errore quando dà l’impressione di sabotare un’alleanza delle opposizioni, come ha fatto con la precipitosa dichiarazione di partecipazione alla lotta elettorale, quando gli altri partiti fingevano di minacciare l’astensione”.
E allora quale dovrebbe essere la funzione del Partito comunista? Sraffa non ha alcun dubbio nell’indicare il prima e il dopo:
“la sua funzione è, per ora, quella della mosca cocchiera, perché, dopo, per un partito di masse sarà necessario essersi distinto nella lotta contro il fascismo: ancora, come durante la guerra. E intanto sarà bene, approfittando di quella esperienza, che si prepari un programma concreto per il dopo”.
Solo allora (“Ma non oggi”, sottolinea), ossia dopo la caduta del fascismo combattuto nella misura corretta (che Sraffa non spiega quale debba essere, oltre a quello – perorato da Gramsci e dal Comintern – di lanciarsi in un’avventura rivoluzionaria), potrà essere avviata a soluzione il problema della questione meridionale e quello dell’unità (dello Stato, pare di capire dal seguito).
Con un pelo di ironia e di sarcasmo fa presente a Gramsci che non ha senso dare una grande valenza alla battaglia (meramente elettorale) dei fascisti per avere in lista l’ex premier Vittorio Emanuele Orlando e altri leader liberali, e analogamente alla questione della disgregazione dello Stato.
Quest’ultima gli sembra
“più che una questione sociale, un problema di polizia”.
A suo avviso, infatti,
“il fascismo paga i suoi aderenti, più che con denaro, con briciole di autorità dello Stato, col permesso di far prepotenze, per passatempo e per interesse privati: il rimedio si troverà in una polizia efficiente e indipendente dai ras, non importa poi se centralizzata o locale. Insomma si torna alla questione dell’ordine pubblico, non a quella territoriale”.
La chiusa è la speranza che come nel 1919 sappia
“trovare la parola d’ordine che oggi manca e che occorre” e “un’auto-autopsia della vecchia testata torinese”.
Non si capisce come una lettera con una caratura del dissenso così pronunciato abbia potuto vedere la luce sul quotidiano dei comunisti italiani. È probabile che essa rispecchiasse le opinioni dei molti iscritti ed elettori che nelle elezioni politiche del 1924 non avevano votato per il partito.
Infatti, a dire il vero, Gramsci nella prima parte della sua replica (intitolata Elementi liquidatori) non si sottrae alla constatazione che l’analisi dei fatti di Sraffa
“non può non essere la posizione di una larga cerchia di intellettuali che negli anni 1919-’20 simpatizzavano con la rivoluzione proletaria e che in seguito non hanno voluto prostituirsi al fascismo trionfante: essa è anche, inconsciamente, la posizione di una parte dello stesso proletariato, anche di compagni del partito, che non hanno saputo resistere allo stillicidio quotidiano degli avveni menti reazionari nello stato di dispersione e di isolamento loro creato dal terrore fascista […]”.
Questa è la ragione per cui Gramsci la pubblica e probabilmente la sollecita. Di qui la sua ampia risposta. Vale la pena di riassumerla distesamente perché l’autore ricopre di fatto il ruolo di segretario dei comunisti italiani.
Il Comintern, avendo silurato un contestatore, ormai instancabile, della sua politica come Amedeo Bordiga, ha deciso di intervenire per sostituirlo alla testa del partito col leader sardo-torinese. Non è casuale che quest’ultimo nel giro di qualche anno sia diventato un critico distruttivo del modo di essere del socialismo italiano (che a lungo aveva esaltato e si era impegnato a rinnovare) e sempre più sia convinto della validità della tattica del “governo operaio e contadino” da applicare all’Italia.
Anche se il suo intento non è tale, Gramsci considera la lettera di Sraffa – che
“quantunque non iscritto, quantunque viva ai margini del nostro movimento e della nostra propaganda, ha fede nel nostro partito e lo ritiene il solo capace di risolvere permanentemente i problemi posti e la situazione creata dal fascismo” –
una raccolta degli elementi sufficienti a liquidare il partito comunista come organizzazione rivoluzionaria. In quanto tale, esso non può assumere l’atteggiamento passivo (ossia da mosca cocchiera) suggeritogli perché, in assenza di risposte concrete ai problemi di oggi, le forze del proletariato e dei contadini che i comunisti rappresentano si sposterebbero verso altri partiti antifascisti. Se ciò avesse luogo per Gramsci
“vorrebbe dire che l’attuale non è un periodo rivoluzionario socialista, ma che viviamo ancora in un’epoca di sviluppo borghese capitalistico, che non solo mancano le condizioni soggettive, di organizzazione, di preparazione politica, ma anche quelle oggettive, materiali per l’avvento del proletariato al potere. Allora veramente si porrebbe anche a noi il problema di assumere non una posizione autonoma rivoluzionaria, ma di semplice frazione radicale delle opposizioni costituzionali, chiamate dalla storia ad essere le realizzatrici della “rivoluzione borghese’, di una tappa cioè, imprescindibile e inevitabile, del processo che sboccherà nel socialismo”.
A questo punto Gramsci ritiene di dovere contestare due affermazioni di Sraffa per metterlo in contraddizione con sé stesso. L’impressione è che egli si riferisca ad un testo diverso da quello pubblicato. Sappiamo che una parte di esso, quella relativa agli Industrial Workers of the World (IWW) e alla Cgil, verrà ospitata altrove.63 In secondo luogo la difficoltà di rinvenire nel testo ospitato dall’Ordine Nuovo alcuni degli aspetti citati nella replica di Gramsci fa pensare che la versione edita sia diversa dall’originale, cioè che quest’ultima sia stata fatta oggetto di tagli e aggiustamenti.
In concreto non sembra che Sraffa abbia indicato in tempi brevissimi il periodo in cui le opposizioni costituzionali avrebbero fronteggiato e sostituito il fascismo al potere e che ad esso sarebbe seguita la rivoluzione comunista.
Il neo-segretario dei comunisti italiani contesta che l’atteggiamento del PSI durante la guerra sia stato esemplare, perché il suo neutralismo
“fu una tattica essenzialmente opportunistica, dettata dal tradizionale bisogno di tenere in equilibrio le tre tendenze di cui il partito si componeva, che indicheremo coi tre nomi di Turati, Lazzari, Bordiga, niente altro”.
Non sarebbe stata, dunque, una linea politica,
“ma risultò dalla concezione dell”unità del partito soprattutto, anche sopra la rivoluzione, che è propria ancora del massimalismo”.
Prima di affrontare i punti cruciali del dissenso di Sraffa dalla linea dl partito, Gramsci si premura di liquidarli come frutto di contraddizioni, debolezza e addirittura falsità.
Non poteva essere diversamente dal momento che ritiene il suo amico ancora soggetto
“agli avanzi ideologici della sua formazione intellettuale democratico-liberale, cioè normativa e kantiana, non marxista e dialettica”.
Esaminandoli partitamente Gramsci deve ammettere in primo luogo che la “classe rivoluzionaria per eccellenza”, cioè il proletariato industriale,
“è la minoranza del popolo lavoratore oppresso e sfruttato dal capitalismo ed è accentrato prevalentemente in una sola zona, quella settentrionale”.
Rispetto al 1919-1920 esso era, invece
“automaticamente alla testa di tutti i lavoratori, centralizzava obiettivamente nella sua azione immediata e diretta, contro il capitalismo tutte le rivolte degli altri strati popolari, amorfi e senza indirizzo”.
Quali furono le sue debolezze? Anzitutto nell’aver mancato di organizzare
“questi rapporti rivoluzionari in un sistema politico concreto, in un programma di governo”.
Il fascismo ha incominciato a reprimere questi strati sociali e la sua azione è culminata nell’attaccare il proletariato attraverso “la repressione sistematica e legale”, mentre essa
“si è allentata alla periferia, contro gli strati che nel 1920 gli erano stati solo oggettivamente alleati, e che si riorganizzano, rientrano parzialmente nella lotta, assumendo il carattere smorzato di opposi zione costituzionale, cioè il loro più spiccato carattere piccolo-borghese”.
Sulla questione cruciale posta da Sraffa se la classe operaia sia assente, la risposta di Gramsci consiste nel porre fine agli equivoci determinati dalle locuzioni, cioè di avere a che fare con un conflitto semantico. Pertanto non esita ad affermare che
“la ‘presenza’ della classe operaia, cosi come l’amico S.[raffa] l’intende, significherebbe la rivoluzione”,
cioè che, come nel 1919-1920
“a capo del popolo lavoratore stanno non i piccoli borghesi democratici, ma la classe più rivoluzionaria della nazione”.
L’assenza della classe operaia significa che il fascismo è la negazione di tale stato di cose, cioè che
“il fascismo è nato e si è sviluppato appunto per distruggere un tale stato di cose e per impedire che risorga”.
I comunisti sarebbero, quindi, contrari tanto al fascismo quanto alle opposizioni costituzionali. A queste ultime si imputa di voler fare solo dell’agitazione contro il fascismo, sventolando il loro programma di libertà e di ordine. Non lo potranno mai attuare, dice Gramsci, perché in Italia esso equivarrebbe a uno sviluppo “catastrofico” per il regime mussoliniano, e a impedirlo interverrebbe la forza armata della Milizia nazionale.
Il fatto che il fascismo non possa far propri, cioè accettare, i punti programmatici indicati dalle opposizioni costituzionali, fotografa
“l’impotenza del fascismo a risolvere i problemi vitali della nazione, sono un richiamo quotidiano alla realtà obiettiva che nessuna raffica di male parole può annientare”.
Gramsci chiude la sua replica riassumendo il programma dei comunisti in tre punti:
- far assumere al partito la coscienza che l’organizzazione politica è “uno strumento per l’agitazione delle parole d’ordine rivoluzionarie in mezzo alle più larghe masse”,
- realizzare “l’unità politica del proletariato sotto la bandiera dell’Internazionale comunista”,
- identifcare la parola d’ordine del “governo operaio e contadino” nei “problemi specifici che si riassumono nella espressione generale di ‘questione meridionale’”.
La storiografia economica (da Pierluigi Ciocca64 a Vera Zamagni) ha creato più di un dubbio, se non apertamente contestato, che lo stato di salute del capitalismo tra la fine della guerra e la prima metà degli anni Venti fosse boccheggiante e sul punto di tirare le cuoia.
Per esempio tra il 1922 e l’imminente seconda guerra mondiale (1938) il prodotto e soprattutto il prodotto pro-capite su scala europea aumentarono dell’2,5 e dell’1,9 per cento.65
In Italia già nella seconda metà del 1919 l’impatto della recessione seguita alla fine della guerra era in via di superamento:
“L’economia stava riavviandosi verso la normalità nell’accumulazione complessi va di capitale, fortemente scemata negli anni di guerra. Il profilo ciclico venne sconvolto da uno shock salariale e nei rapporti di la voro di inaudite proporzioni”.66
Cospicui aumenti delle retribuzioni nominali per compensare l’inflazione bellica, ‘accorciamento a otto ore (rispetto alle nove-dieci ore precedenti) della giornata lavorativa e il salario minimo introdotto, l’ampliamento dei margini di profitto, insieme all’ascesa dei prezzi all’ingrosso e alle tensioni sociali
“riportarono il tenore di vita del lavoratori ai livelli prebellici, se non al di sopra”.67
La rappresentazione che ne fecero i leader comunisti italiani e sovietici fu di carattere ideologico. E comunque ad animarla era il cortocircuito sul marxismo operato da Lenin con l’esaltazione della soggettività, della coscienza antagonistica, vale a dire della disponibilità del proletariato industriale e dei contadini alla lotta rivoluzionaria.
Grazie a questo pregiudizio la nascita di un dispotismo di tipo nuovo, il partito-Stato dell’Unione sovietica, è stato valorizzato nella saggistica e nella propaganda come il regime dell’eguaglianza e della libertà, addirittura un modello per la liberazione dei popoli. È un punto sul quale le analisi dei due maggiori storici del comunismo sovietico, Andrea Graziosi e Silvio Pons, invece di convergere, sembrano distanziarsi, quasi una separazione.
- Cfr. Brigitte Studer, The Transnational World of the Cominternians, Basingstoke-New York, Palgrave Macmillan, 2015, 236 p. Puntualizzazioni opportune sul rapporto centro-periferia nel funzionamento del Comintern, sul dibattito interno fino a Stalin, sulle articolazioni statuali e la loro relativa autonomia sono state fatte in primo luogo da Aldo Agosti e di recente in maniera quasi esaustiva da Leonardo Pompeo D’Alessandro, Il Comintern, pp. 35-54, nel volume a più voci curato da Silvio Pons, Il comunismo italiano nella storia del Novecento, Roma, Viella, 2021, 664 p. ↩︎
- Rimando al saggio di uno studioso senza patemi d’animo politici quando scrive di storia: Andrea Graziosi, “Vittorio Foa e la sinistra italiana 1933-2008”, Il mestiere di storico, IV (1), gennaio-marzo 2012, pp. 7-34. ↩︎
- Si veda un testo del quale mi sono ampiamente avvalso (e quindi mi preme ingraziare) anche in parte nella bibliografia, Francesco Giasi, “Da socialisti a comunisti”, in Silvio Pons (a cura di), Il comunismo italiano nella storia del Novecento, Roma, Viella, 2021, pp. 13-34. ↩︎
- Giovanna Savant, “La rivoluzione russa e i socialisti italiani nel 1917-1918”, Diacronie, (32) ottobre-dicembre 2017. Cf. https://journals.openedition.org/diacronie/6619. Sull’argomento si veda il saggio di Leonardo Pompeo D’Alessandro, “La Rivoluzione in tempo reale. Il 1917 nel socialismo italiano tra rappresentazione, mito e realtà”, in Marco Di Maggio (a cura di), Sfumature di rosso. La rivoluzione russa nella politica italiana del Novecento, Torino, Accademia University Press, 2017, 353 p. [il saggio si trova alle pp. 3.26]. Cf. https://books.openedition.org/aaccademia/2294?lang=it. Si veda anche Serge Noiret, “Il partito di massa massimalista dal PSI al PCd’I, 1917-1924 : la scalata alle istituzioni democratiche”, in Fabio Grassi Orsini e Gaetano Quagliariello (a cura di), Il Partito politico dalla grande guerra al fascismo. Crisi della rappresentanza e riforma dello Stato nell’età dei sistemi politici di massa (1918-1925), Bologna, Il Mulino, 1996, 1034 p. [il testo si trova alle pp. 909-965]. ↩︎
- Francesco Giasi, “Da socialisti a comunisti”, in Silvio Pons (a cura di), Il comunismo italiano nella storia del Novecento, loc. cit. alla nota 3, pp. 14-15. ↩︎
- Secondo congresso dell’Internazionale Comunista. 4. Discorso sulle condizioni di ammissione all’Internazionale Comunista” in Lenin, Opere scelte, vol. XXXI. aprile-dicembre 1920, Roma, Editori Riuniti, 1967, 551 p. [pp. 234-239. La citazione è a p. 239]. Ora disponibile online: https://www.marxists.org/italiano/lenin/lenin-opere/lenin_opere_31.pdf. ↩︎
- Orazio Niceforo, I socialisti italiani e la rivoluzione bolscevica (1917-1919), Milano, Biblion edizioni, 2023,176 p. [si vedano in particolare le pp. 134-135]. ↩︎
- Viene esaltata la teoria come asse di una soggettività capace di forzare il tempo essendo però aliena a ogni forma di romanticismo. Questa è, in estrema sintesi, la quintessenza della teoria del partito immortalata nel Che fare? e posta alla base del movimento mondiale della terza internazionale.” Siamo un po’ di anni luce distanti dalle analisi di Vittorio Strada e di Andrea Graziosi, ma più in sintonia con quelle, anche più recenti, di Toni Negri. Poco a che fare ha, altresì, con lo stesso Gramsci quanto segue:
“La coscienza di classe non può che venire dall’esterno, superando la spontaneità, per opera di una avanguardia di rivoluzionari di professione. rivoluzionari di professione”.
Ad avviso di Fusto Anderlini saremmo in presenza di un rovesciamento del Beruf weberiano e ad un’incorporazione del “pensiero élitista di Mosca, Pareto, Michels e Ostrogorski. Un rovesciamento dialettico di assoluta genialità” fino all’elaborazione della teoria dell’imperialismo. Essa sarebbe
“servita di base per un movimento di emancipazione anti-coloniale che è per durato almeno sino ai ’70 del secolo scorso.”
Si veda il blog di Fausto Anderlini, Onore a Vladimir Il’ic Ul’janov, 22 gennaio 2024. Non troverete mai in questo genere di comunisti irreprensibili quanto la storiografia da decenni ha evidenziato, vale a dire lo sterminio pianificato di milioni di contadini (come in Russia, in Ucraina e nelle regioni vicine), la creazione di campi di concentramento per le minoranze e per i dissidenti, l’assenza di ogni diritto e garanzia per i cittadini, un ossessivo massiccio investimento nella produzione bellica invece che in welfare, il modello del “partito fortezza” che degrada in quelli ancora peggiore di partito-Stato che è stato esportato in Europa orientale e nei regimi africani post-coloniali. In altre parole tutto l’armamentario ideologico e militare del dispotismo sovietico trova un accreditamento e una valorizzazione negati, invece, a dittature forse meno feroci come quelle del nazismo e del fascismo. Non si vede come questa paccottiglia propagandistica possa avere a che fare con la più elementare ricerca storica. E si capisce perfettamente come Putin, per tenersi in sella come uno zar e conquistare un enorme consenso in elezioni-truffa, si limiti a non derogare dalla continuità col comunismo di Lenin e Stalin. Mi pare ancora in qualche spericolata e avventurosa auge negli studiosi della Fondazione Gramsci bolognese. Come antidoto, sempre rilassante, si può consigliare l’articolo di David Bidussa, “Il silenzio su Lenin a cent’anni dalla sua morte”, fondazionefeltrinelli.it, 19 gennaio 2024 e il suo invito a rendersi conto che “Lenin ci aiuta per gli errori, per la insistenza, più che sulla ricetta. Quella va tutta riscritta”. Cf. https://fondazionefeltrinelli.it/scopri/il-silenzio-sulla-morte-di-lenin/. ↩︎ - Si veda Gaetano Arfè, Storia del socialismo italiano, 1892-1926, Einaudi, Torino 1963, 387 p. [si vedano in particolare le pp. 288-289]. ↩︎
- Aldo Agosti, “The Weak Link in the Cast-Iron Chain: Relations between the Comintern and the Italian Communist Party (1921-1940)”, in Michail Narinsky, Juergen Rojahn (a cura di), Centre and Periphery, The History of the Comintern in the Light of the New Documents, Amsterdam, International History of Social History, 1996, 267 p. [il saggio di Agosti si trova alle pp. 178-179]. ↩︎
- Si veda la rilettura critica dell’Internazionale comunista ad opera di Leonardo Pompeo D’Alessandro, “Il Comintern”, in Marco Di Maggio (a cura di), Sfumature di rosso …, loc. cit. alla nota 4. ↩︎
- Orazio Niceforo, I socialisti italiani e la rivoluzione bolscevica (1917-1919), op. cit. alla nota 7, p. 122. ↩︎
- Ibidem, p. 123. ↩︎
- David Bidussa, “Il silenzio su Lenin a cent’anni dalla sua morte”, loc. cit alla nota 8. ↩︎
- Il comunismo in una regione sola? Prospettive di storia del PCI in Emilia Romagna, a cura di Luca Baldissara e Paolo Capuzzo, Bologna il Mulino, 2023, 520 p. ↩︎
- “La mozione votata al Convegno di concentrazione di Reggio Emilia”, Avanti! 13 ottobre 1920. ↩︎
- Il socialismo e l’Italia”, Il Grido del popolo, 22 settembre 1917 Ora in Antonio Gramsci, Scritti dalla libertà (1910-1926), a cura di Angelo d’Orsi, Francesca Chiarotto, Roma, Editori Riuniti, 2012, pp. 229-232. Più in generale, si veda l’esame più ravvicinato in Leonardo Rapone, Cinque anni che paiono secoli. Antonio Gramsci dal socialismo al comunismo (1914-1919), Roma, Carocci,2011, 421 p. ↩︎
- Angelo Tasca, Storia del Pci e storia d’Italia. Seguito da testi di Giorgio Amendola, Camilla Ravera e Giacinto Menotti Serrati, a cura di David Bidussa, Milano, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2021, 222 p. Questo volume può essere consultato on line https://fondazionefeltrinelli.it/app/uploads/2021/01/storia-del-PCI.pdf. ↩︎
- Resoconto stenografico del XVII Congresso nazionale del Partito socialista italiano: Livorno 15-20 gennaio 1921: con l’aggiunta dei documenti sulla fondazione del Partito Comunista d’Italia, Milano, Edizioni Avanti! 1962, 484 p. [si vedano p. 131 e le pp. 240-242]. ↩︎
- Palmiro Togliatti, “Baronie rosse”, L’Ordine Nuovo, 5 giugno 1921. Poi in Opere.1 (1917-1926), a cura di Ernesto Ragionieri, Roma, Editori Riuniti, 1967. ↩︎
- Si vedano Mario Missiroli, Il fascismo e la crisi italiana, Bologna Licinio Cappelli, 1921, 60 p. e l’esame un po’ più ravvicinato in Salvatore Sechi, Compagno cittadino. Il Pci tra via parlamentare e lotta armata, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006, 509 p. [in particolare le pp. 80-83]. ↩︎
- Si veda Serge Noiret, Massimalismo e crisi dello Stato liberale. Nicola Bombacci (1879-1924), Milano, Franco Angeli, 1992, 608 p. ↩︎
- Arturo Labriola, “Leninismo e marxismo”, Critica Sociale, XXIX (2), 16-31 gennaio 1919, pp. 19-23. ↩︎
- Filippo Turati, Le vie maestre del socialismo, a cura di Rodolfo Mondolfo, Bologna, Licinio Cappelli, 1921, 318 p. https://core.ac.uk/download/pdf/212098729.pdf. Consultato nella seconda edizione riveduta e ampliata a cura di Rodolfo Mondolfo e Geetano Arfè: Napoli, Morano, 1964, 492 p. [si vedano le pp. 336-337]. ↩︎
- Filippo Turati, Le vie maestre del socialismo. Seconda edizione, op. cit alla nota 24, pp. 336-337. ↩︎
- Ibidem, pp. 340-342. ↩︎
- Norberto Bobbio, “Introduzione” a Rodolfo Mondolfo. Umanismo di Marx. Studi filosofici, 1908-1966, Torino, Einaudi, 1968, XLVIII-419 p. ↩︎
- Fabio Frosini, “Rodolfo Mondolfo” in Enciclopedia Treccani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, anno, p. XIX. ↩︎
- Fabio Frosini, “Rodolfo Mondolfo” in Enciclopedia Treccani, loc. cit. alla nota 27, p. XXXVIII. ↩︎
- Rodolfo Mondolfo, Il materialismo storico in Federico Engels, Firenze La Nuova Italia, 1952, XXII-408 p. Ristampa anastatica: 1973 ↩︎
- Si veda Fabio Frosini, “Rodolfo Mondolfo”, in Enciclopedia Treccani, loc. cit. alla nota 27. https://www.treccani.it/enciclopedia/rodolfo-mondolfo_(Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Filosofia)/. ↩︎
- Si veda Rodolfo Mondolfo, “Leninismo e marxismo”, Critica sociale, XXIX, 4, 16-18 febbraio 1919, pp. 44-46. Poi in Rodolfo Mondolfo, Studi sulla rivoluzione russa, Napoli, Morano Editore, 1968 e in Rodolfo Mondolfo, Umanismo di Marx. Studi filosofici, 1908-1966, op. cit. alla nota 27, pp. 145-151. ↩︎
- Si veda il saggio di Rodolfo Mondolfo, “Il problema sociale contemporaneo, relazione al IV congresso italiano di filosofia, Rivista di filosofia, III (4), ottobre-dicembre 1920, pp. 303-324. Poi ripubblicato nella raccolta di scritti Studi filosofici, 1908-1966, op. cit. alla nota 27, p. 201. ↩︎
- Giacomo Marramao ha sottolineato l’assenza di ogni convergenza tra il socialista tedesco e quello italiano sul piano teorico. Cfr. Marxismo e revisionismo in Italia dalla «Critica sociale» al dibattito sul leninismo, Bari, De Donato, 1971, 442 p. [si vedano le pp. 217-218]. ↩︎
- Sergio Panunzio, Diritto, forza e violenza. Lineamenti di una teoria della violenza. Con prefazione di Rodolfo Mondolfo, Bologna, Cappelli, 1921, XXVIII-216 p. ↩︎
- Rodolfo Mondolfo, “Forza e violenza nella storia”, Prefazione a Sergio Panunzio, Diritto, forza e violenza. Lineamenti di una teoria della violenza. op. cit. alla nota 35., p. XXVIII. ↩︎
- Rodolfo Mondolfo “Der Faschismus in Italien”, In Carl Landauer, Hans Honegger (a cura di), Internationaler Faschismus, Beiträge über Wesen und Stand der faschistischen Bewegung und über den Ursprung ihrer leitenden Ideen und Triebkräfte, Karlsruhe, G. Braun Verlag, 1928, 163 p. [pp. 19-39. Il passo citato è a p. 29]. ↩︎
- Rodolfo Mondolfo “Der Faschismus in Italien”, loc. cit alla nota 37, p. 30. ↩︎
- Eodem loco, p. 29. ↩︎
- Rodolfo Mondolfo, Il materialismo storico in Federico Engels, op. cit. alla nota 30, p. 358. ↩︎
- Ibidem, p. 357. ↩︎
- Ibidem, p. 378. ↩︎
- Si veda Si veda Rodolfo Mondolfo, “Leninismo e marxismo”, Critica sociale, loc. cit. alla nota 32. Poi in Umanismo di Marx. Studi filosofici, 1908-1966, op. cit. alla nota 32, pp. 147-48. ↩︎
- Rodolfo Mondolfo, “Leninismo e marxismo”, in Umanismo di Marx …, Ibidem, p. 151. ↩︎
- Si veda Franco Pedone, a cura di, Il Partito Socialista Italiano nei suoi Congressi. Volume terzo: dal 1917 al 1926, Milano, Edizioni Avanti, 1963, 341 p. ↩︎
- Si veda Julij Martov, Bolscevismo mondiale. La prima critica marxista del leninismo al potere, Einaudi, Torino 1980, 120 p. ↩︎
- Antonio Gramsci, “La rivoluzione contro Il Capitale”, Avanti! 24 novembre 1917. Poi nel settimanale di area socialista Il Grido del Popolo, 5 gennaio 1918. Ora in La Città futura, 1917-1918, a cura di Sergio Caprioglio, Torino, Einaudi, 1982, 1032 p. [l’articolo si trova alle pp. 513-517]. ↩︎
- Very-Well … [Claudio Treves] “Lenin, Martoff e… noi!”, Critica sociale, XXVIII (1), 1-15 gennaio 1918, pp. 4-5. Riprendo da Leonardo Pompeo D’Alessandro, “La Rivoluzione in tempo reale. Il 1917 nel socialismo italiano tra rappresentazione, mito e realtà”, in Marco Di Maggio (a cura di), Sfumature di rosso. La rivoluzione russa nella politica italiana del Novecento, op. cit. alla nota 4. ↩︎
- Mi riferisco allo sviluppo e alla maggiore documentazione di una proposta interpretativa di Giuseppe Vacca da parte di Silvio Pons, “Gramsci e la Rivoluzione russa: una riconsiderazione (1917-1935)”, Studi Storici, LVIII (4), ottobre-dicembre 2017, pp. 883-928. ↩︎
- Silvio Pons, “L’affare Gramsci-Togliatti’ a Mosca (1938-1941)”, Studi storici, XLV (1) gennaio-marzo 2004, pp. 83-117. ↩︎
- Cfr. Il Grido del Popolo, 22 giugno 1918. Poi ripreso dall’Avanti! 25 luglio 1918. ↩︎
- Rimando alla ricostruzione critica che ne ha fatto Massimo L. Salvadori, Gramsci e il problema storico della democrazia, con un saggio introduttivo di Angelo d’Orsi Roma, Viella, 2007, 416 p. ↩︎
- Sull’organizzazione internazionale del lavoro tra il 1919 e il 1939 si veda, Renzo De Felice. Sapere e politica, Milano, Franco Angeli, 1988 e per la Francia Georges Lefranc, Visage du mouvement ouvrier français. Jadis. Naguère. Aujourd’hui, Paris, Presses Universitaires de France, 1982, 264 p. ↩︎
- Si veda Antonio Gramsci, “Note sulla rivoluzione russa”, Il Grido del Popolo, 29 aprile 1917. ora in La Città futura, 1917-1918, a cura di Sergio Caprioglio, op. cit. alla nota 47, pp. 138-141. ↩︎
- Rimando all’accurata ricostruzione di Leonardo Rapone, “Crisi, guerra e rivoluzione”, in Crisi e rivoluzione passiva. Gramsci interprete del Novecento, a cura di Giuseppe Cospito, Gianni Francioni e Fabio Frosini, Como, Ibis, 2021, 442 p. [il testo si trova alle pp. 40-42]. ↩︎
- Antonio Gramsci, “La rivoluzione contro Il Capitale”, loc. cit. alla nota 47. ↩︎
- Costituente e Soviety, 26 gennaio 1918, ora in La città futura, (1917-1918), op. cit. alla nota 55, p. 602. ↩︎
- “Utopia”, L’Avanti! 25 luglio 1918, ora in Il nostro Marx (1918-1919), a cura di Sergio Caprioglio, Torino, Einaudi, 1984, p. 210. ↩︎
- Leonardo Rapone, “Crisi, guerra e rivoluzione”, in Crisi e rivoluzione passiva. Gramsci interprete del Novecento, loc.cit alla nota 57, p. 42. ↩︎
- In questa sezione riprendo e amplia problemi e aspetti affrontatati inizialmente in Salvatore Sechi, “Delitto Matteotti. Contro Gramsci, Piero Sraffa sceglie Turati e Rosselli”, L’Avanti! 20 maggio 2022. Sull’argomento, rimando alla ricostruzione e all’analisi critica, oltreché di Nerio Naldi, in particolare di Giancarlo de Vivo, Nella bufera del Novecento. Antonio Gramsci e Piero Sraffa tra lotta politica e teoria critica, Roma, Castelvecchi, 2017. ↩︎
- S, “Problemi di oggi e di domani”, L’Ordine nuovo, 1-15 aprile 1924, ora in Antonio Gramsci, La costruzione del Partito comunista Italiano, 1923-1926, Torino, Einaudi, 1971, pp. 175.181. ↩︎
- S, “Problemi di oggi e di domani”, L’Ordine nuovo, loc. cit. alla nota 63. ↩︎
- In un volume curato da Palmiro Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del partito comunista nel 1923-1924, Editori Riuniti, Roma 1962, 380 p. Oggi con il sottotitolo Pensiero e azione socialista, Sesto San Giovanni, PGreco, 2021, 324 p. ↩︎
- Rimando alla ricostruzione delle diverse vicende e dei settori produttivi, al centro di un’analisi storica rimasta ineguagliata, ad opera di Pierluigi Ciocca, Ricchi per sempre? Una storia economica d’Italia (1796-2005), Bollati Boringhieri, Torino, 2007, 388 p. ↩︎
- Angus Maddison, The World Economy. Historical Statistics, Paris, OCDE, 2003, 274 p. t 1b, p. 51 e tab 1c, p. 63. ↩︎
- Pierluigi Ciocca, Ricchi per sempre? …, op. cit. alla nota 64, p. 185. ↩︎
- Ibidem, p. 220. ↩︎
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