Dalla memoria al futuro, avanti indietro e ancora avanti [1]
Quattordici/A Hermes Storie di geopolitica – Europa
Paolo Morawski
Saggista, esperto di storia polacca ed europea
“Procedere avanti indietro e ancora avanti dalla memoria al futuro”. Questo il metodo che lo storico italo polacco Paolo Morawski [2] propone nel suo articolo “Europa-Mondo un rapporto da reinventare” per fare i conti con ‘il passato che non passa‘ “in quell’area che chiamiamo Centro-Est o semplicemente Est – situata tra Baltico e Mar Nero (e finanche Adriatico)”. Partendo dal ‘caso SS in Canada‘ che rievoca le complesse relazioni fra Polonia e Ucraina dopo la Shoah e i crimini commessi nel Novecento, Morawski propone agli europei occidentali di “Varcare il Rubicone ovest/est e al contempo attraversare il vallo nord/sud dell’Europa”. Per fare questo – chiarisce Morawski -servono come minimo conoscenze, apertura mentale, capacità di ascolto (delle loro voci) e di traduzione (delle loro esperienze e categorie nelle nostre). “Quelle” sono altre geografie esperienziali, altre storie rispetto alle nostre abituali italiane (pur nelle similitudini). Non si tratta di “meglio” o “peggio”, si tratta di “altre” coordinate geo-storiche e umane”. In altri termini l’invito dello studioso polacco già dirigente Rai è di “Deideologizzare ma anche decolonizzare la nostra visione occidentale per favorire un’effettiva ‘europeizzazione da est” Solo partendo da questo cambio di paradigma è possibile di nuovo “Ripensare l’Europa perché la guerra è tornata in Europa e vicino all’Europa”: “Se desideriamo come italiani/polacchi/europei avere la possibilità di svolgere un qualche ruolo positivo nel XXI secolo, oltre ogni necessaria sopravvivenza, non possiamo evitare di ripensare da cima a fondo la storia del nostro continente nella sua unità variegata, nelle sue differenze e nelle sue convergenze, nei suoi contorcimenti interni, nelle sue proiezioni esterne”. Contro quelle che definisce “le narrazioni emergenti” va contrastata a suo parere “la sindrome della tartaruga” in cui citando un politologo polacco “la democrazia opera all’interno dei confini nazionali e non riesce ad affrontare bene le crisi che attraversano tali confini”. Intanto occorre – aggiunge Morawski – fare i conti con la nuova congiuntura politica emersa dopo il voto europeo e quello a Londra e a Parigi, ovvero “Capire davvero chi siamo e dove vogliamo andare nella lunga durata” al fine – conclude l’autore di “riaprire la questione dei rapporti fra l’Europa e il Resto del Mondo”. Insomma “Reinventare l’Europa, ‘fare‘ nuovi europei”.
14 luglio 2024
Tra Mar Baltico e Mar Nero. Le complessità di terre plurali
Per chi fosse interessato a quanto accade in Ucraina e alle tematiche connesse vorrei osservare che uno dei problemi sta nella complessità dell’area – che chiamiamo Centro-Est o semplicemente Est – situata tra Baltico e Mar Nero (e finanche Adriatico). La complessità riguarda le singole esperienze, biografie, traiettorie esistenziali e famigliari. Chi dice complessità dice non-linearità, che è insita in tutte le comunità che appartengono a quell’area. La complessità riguarda non uno ma l’insieme dei paesi che sono tra loro differentemente collegati, ma comunque legati. L’Est è spazio di terre plurali: pluri-etniche, pluri-lingue, pluri-culturali, pluri-religiose e direi anche trans-culturali, ricche di milioni di punti di vista e prospettive diverse. Plurali nei letti e nelle cucine, in casa, per strada, nei quartieri, nelle città e nelle campagne, da questa o quella parte delle attuali frontiere.
La pluralità non è facile né da afferrare né da interpretare. Lo dico con sofferenza anzitutto a me stesso data la difficoltà dovuta all’esistenza di molteplici barriere non solo linguistiche. Soprattutto, data la difficoltà di capire che altre persone in altri contesti si sono trovate davanti a scelte solo in apparenza uguali alle nostre scelte (italiane, francesi, inglesi o spagnole).
Aggiungo, per chiarezza, che cercare di capire l’ambiguità e la non-linearità dei lasciti dei regimi autoritari (quelli che ci hanno funestato tra le due guerre: non solo in Polonia, Ungheria e Romania) e dei regimi totalitari (fascista, nazista, comunista), nonché delle eredità della Seconda guerra mondiale – lasciti ed eredità che ancora ci avviluppano e avvelenano – non significa affatto prendere posizione a favore dei boia nazisti (o fascisti o stalinisti), quando boia sono. Ci mancherebbe.
Ma il problema è non dimenticare lo sfondo di ogni trama, il contesto: ovvero quanto sia complicata e drammatica in quell’area la storia delle interazioni tra ucraini, russi, polacchi, tedeschi, baltici ed ebrei (anche fosse limitatamente a queste appartenenze e anche in riferimento solamente al periodo della Seconda guerra mondiale). Una lettura in bianco e nero è comoda quanto illusoria. Nociva piuttosto.
Mar Baltico Originale Incisione Cartina Geografica Haupt 1791
Il caso SS in Canada, Polonia e Ucraina dopo la Shoah e i crimini commessi nel Novecento
Sono considerazioni riaffiorate a seguito del caso “SS in Canada” a fine 2023.
Il fatto. In occasione della visita in Canada del presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj a Ottawa il 22 settembre 2023, il presidente della Camera dei comuni del Canada, il liberale Anthony Rota, aveva invitato in Parlamento, probabilmente senza aver verificato il suo passato, quello che riteneva essere un combattente per l’indipendenza ucraina dalla Russia durante la Seconda guerra mondiale, l’ucraino Yaroslav Hunka di anni 98. Anthony Rota lo aveva pubblicamente presentato come
“un veterano di guerra ucraino-canadese della Seconda guerra mondiale che ha combattuto contro i russi per l’indipendenza dell’Ucraina”, quindi “un eroe ucraino e canadese”,
suscitando – con la mente rivolta a quanto di terribile accade ora in Ucraina e alla necessità di esprimere solidarietà all’Ucraina – una standing ovation in aula da parte di tutti i parlamentari presenti, compreso il primo ministro Justin Trudeau e la presidente del Senatocanadese Raymonde Gagne.
Un “eroe”? Era quasi subito emerso che Hunka aveva, si, combattuto contro l’URSS per l’indipendenza ucraina, ma come volontario in un’unità di collaboratori ucraini nell’esercito nazista, ovvero in una divisione delle SS: “la 14a Divisione Waffen Grenadier delle SS, un’unità militare nazista i cui crimini contro l’umanità durante l’Olocausto sono ben documentati”. L’eroe era dunque un ex soldato nazista forse colpevole di aver ucciso migliaia di ebrei. Scoperta scioccante, scandalo, indignazione, polemiche nazionali e internazionali, richieste di dimissioni.
Sul caso “SS in Canada”, mi limito a osservare alcune evidenze.
(1) Lo speaker della Camera dei Comuni Anthony Rota si è dimesso il 26 novembre dal Parlamento canadese per il suo madornale e inconcepibile errore (chi mai si dimette in Italia o in Polonia o in Russia per un errore?).
(2) I media canadesi hanno fatto un notevole sforzo per informare il proprio pubblico cercando di spiegare chi fosse Yaroslav Hunka, ma anche cercando di farlo evitando sensazionalismi ed emotività. In una logica di servizio ai cittadini hanno generalmente provato a fornire ai canadesi minimi strumenti di conoscenza anche storica (sia detto senza esterofilia e senza illusioni).
(3) L’omaggio reso a Hunka è stato immediatamente sfruttato dalla propaganda del Cremlino e dai media ad esso favorevoli, come “ennesima” dimostrazione (sic!) che gli ucraini “sono nazisti”. Il caso “scandalo SS in Canada” è entrato subito nei tanti vortici della guerra contro l’Ucraina.
(4) I circa 6 milioni di ebrei, uomini, donne e bambini, che i nazisti, insieme ai collaboratori delle SS, hanno sterminato durante la Shoah, erano in maggioranza europei: polacchi, sovietici (lituani, estoni, lettoni, bielorussi, ucraini, russi, ungheresi, rumeni, cechi, slovacchi, tedeschi, olandesi, francesi, jugoslavi, austriaci, greci, belgi, italiani, e altri. L’annientamento di circa due terzi degli ebrei che vivevano in Europa prima della Seconda guerra mondiale è un’immensa tragedia per gli ebrei e per gli europei. Anche da questo punto di vista l’Europa si è auto-distrutta.
(5) Da parte polacca (governo Morawiecki) l’occasione è stata colta per insistere sul fatto che l’ex soldato nazista aveva ucciso migliaia di ebrei che erano ebrei polacchi, ossia cittadini polacchi. Sui 6 milioni di ebrei sterminati dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale, 3 milioni erano ebrei polacchi. Per i polacchi, che durante la Seconda guerra mondiale hanno sofferto immensamente per mano sia dei tedeschi sia dei sovietici (in tutto 6 milioni di morti su 35 milioni di abitanti nel 1939 = ucciso un polacco su sei), qualsiasi imprecisione nella narrazione storica è considerata a torto o a ragione “profondamente offensiva”. Le SS Galizien si sono peraltro accaniti anche su cittadini polacchi non ebrei, come le istituzioni polacche hanno voluto subito precisare[3].
(6) Da parte polacca (governo Morawiecki) si è ribadito il pieno e incondizionato appoggio della Polonia all’Ucraina aggredita. Ma al tempo stesso non si è taciuto il fatto che sia ancora irrisolta la questione dell’esumazione delle vittime polacche massacrate dai nazionalisti ucraini in Volinia durante la Seconda guerra mondiale (cioè in territorio polacco tra le due guerre, oggi territorio ucraino). I massacri di Volinia furono pianificati, organizzati ed eseguiti da una fazione dell’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini (OUN) di Stepan Bandera e dall’Esercito Insurrezionale Ucraino (UPA) da esso creato. Dopo la guerra alcune centinaia di quei nazionalisti ucraini massacratori di civili polacchi ed ebrei in Volinia emigrarono in Canada, dove si stabilirono.
Oggi una certa parte dei canadesi di origine ucraina è costituita da nipoti e pronipoti di quei crudeli signori. Discendenti canadesi che nulla sanno di quanto accaduto nel 1943-1945 in Volinia oppure, se ne sanno qualcosa, per loro la Volinia è un episodio minore, secondario della Seconda guerra mondiale. La parte polacca considera invece altamente legittimo chiedere agli ucraini di non dimenticare gli eccidi accaduti durante la Seconda guerra mondiale. Al contrario chiede a tutti gli ucraini di fare i conti con i crimini dei nazionalisti ucraini commessi in Volinia (fermo restando che le colpe collettive non esistono, esistono i colpevoli).
Per converso gli ucraini chiedono ai polacchi di non dimenticare i torti da loro fatti agli ucraini (imprigionamenti, uccisioni, deportazioni) nel corso di tutta la prima metà del XX secolo. E’ un fatto: tra polacchi e ucraini la Volinia resta al centro di accese controversie[4]. Sulla riconciliazione tra polacchi e ucraini rimando a due miei contributi: Acqua sulle sciabole. Polonia e Ucraina”[5], e “Per un nuovo patto tra Polonia e Ucraina”[6].
(7) Il caso di Yaroslav Hunka delle SS Galizien, nello scandalo e con dolore, ripropone il tema della distorsione della verità storica in un mondo che facilmente soffre di amnesia. Dire che quanto accaduto in Canada è stato un “incidente” (peraltro da dimenticare in fretta) non facilita alcuna comprensione. All’evidenza la “memoria storica nel mondo” è un’etichetta che fascia un barattolo vuoto. La memoria di quanto accaduto in passato non è mai data una volta per tutte, al contrario.
Varcare il Rubicone ovest/est e al contempo attraversare il vallo nord/sud dell’Europa
Oltre il caso specifico di quanto accaduto qualche mese fa in Canada c’è da chiedersi chi si preoccupa veramente di rendere agevole la separazione tra semplificazioni politiche e pubblicistiche da una parte e più meditate, necessarie e approfondite riflessioni sul nostro comune passato, sulle sue luci e ombre dall’altra.
Il punto è chiarire bene l’obiettivo.
Si può guardare solo ai fatti e alle interpretazioni che confermano che “so già tutto”, che “ho ragione, come sempre”, e che “non c’è niente da aggiungere”. È un modo di sprangare porte e finestre a qualsiasi dubbio. Oppure si può approfittare di questa ennesima (triste) opportunità per oltrepassare il Rubicone delle proprie certezze (legittime, ma pregne – non solo, ma anche – di idee fatte, semplificazioni, stereotipi, erronee convinzioni e altri piccoli e grandi difetti) per andare alla “scoperta” delle terre e delle popolazioni dell’Europa centro-orientale al fine di “ri-posizionarci” meglio rispetto al nostro presente e alle memorie del nostro passato. Memorie al plurale – quanti sono gli europei.
Per varcare il Rubicone ovest/est – ma allo stesso modo si dovrebbe attraversare il vallo nord/sud dell’Europa – servono come minimo conoscenze, apertura mentale, capacità di ascolto (delle loro voci) e di traduzione (delle loro esperienze e categorie nelle nostre). “Quelle” sono altre geografie esperienziali, altre storie rispetto alle nostre abituali italiane (pur nelle similitudini). Non si tratta di “meglio” o “peggio”, si tratta di “altre” coordinate geo-storiche e umane.
Peraltro, l’uso-abuso della storia, ossia il facile ricorso a parziali riferimenti alla storia (come schizzi di condimento più che come piatto principale), anche in questa occasione corre di pari passo al dilagare non solo online di pseudo-false-superficiali-non verificate verità in un contesto nel quale il pericolo di confusione aumenta. Sempre più difficile è discernere quale informazione sia attendibile, quale conoscenza sia degna di tale nome, quali i fatti e quali i commenti. Per non dubitare, si tira a sé la coperta del già acquisito.
Deideologizzare ma anche decolonizzare la nostra visione occidentale per favorire un’effettiva ‘europeizzazione da est’
La storia dell’area orientale dell’Europa – parliamo di milioni e milioni di estoni, lettoni, lituani, bielorussi, ucraini, russi, moldovi, rumeni, bulgari, polacchi, slovacchi, cechi, ungheresi, tedeschi, ebrei, armeni e altre minoranze – dalla Prima guerra mondiale ai giorni nostri è di una tale densità e intensità, è costellata di tali speranze e sofferenze, di tali drammi e grumi di sangue, di tali successi e fallimenti, che non può è non deve più essere letta con le riduttive categorie del XX secolo, ideologiche ed ereditate dalla Guerra fredda.
A modo loro anche le élite occidentali hanno oggi il compito urgente di contribuire a “decolonizzare” la visione del continente europeo inteso nella sua interezza. Decolonizzarla dalle narrazioni dominanti che spesso risalgono alla fine del Settecento e che costituiscono sovente pesanti zavorre, oltre che filtri deformanti, se non accecanti.
Decolonizzare la propria visuale occidentale significa, in sostanza, aprirsi a una inedita ed effettiva “europeizzazione da Est”. Si, da Est, perché la storia europea non si dirige con marcia trionfale solamente da Ovest verso Est, ma anche da Est verso Ovest. E, allo stesso modo, da Nord verso Sud e da Sud verso Nord.
Per coglierlo meglio può certamente essere utile un vigoroso corpo a corpo con la Storia. Il che significa confrontarsi con una narrazione storiografica non politica e non occasionale, una narrazione scritta da professionisti, che hanno dedicato una vita a cercare di capire la complessità di quello che è esattamente accaduto ieri e l’altro ieri. Siamo propensi a definirli topi di archivio. L’importante è che siano roditori rigorosi, dotati di appropriate conoscenze e intelligenti chiavi di lettura. Nel migliore dei casi la loro è storia documentata, approfondita, multi-stratificata, non facile da ricostruire; e, di contro, non facile da assumere, assimilare, elaborare, interiorizzare. Per citare solo due nomi stranieri, sulle terre a est dell’Europa si può utilmente fare riferimento ai lavori storiografici di Timothy David Snyder[7] e di Norman Davies[8].
Difficile, contradittorio, incompleto è il rapporto di noi contemporanei con la storia europea, con le sue molte memorie e i suoi numerosi oblii.
Ripensare l’Europa perché la guerra è tornata in Europa e vicino all’Europa
Oggi, la relazione con la nostra storia (contemporanea, moderna, medioevale, antica) si dipana in un periodo certamente non facile per il nostro continente e per il nostro pianeta, ambedue in impietosa trasformazione a ogni livello. Eppure, questo scorcio di XXI secolo è periodo colmo di incredibili novità e di continue scoperte e invenzioni. Forse – è provvisoria conclusione – soprattutto chi è sensibile alle novità e alle innovazioni del presente, soprattutto chi ogni giorno cerca l’annuncio di possibili scenari futuri, ha/avrebbe bisogno di una solida, robusta e arricchita visione del comune passato europeo. Se desideriamo come italiani/polacchi/europei avere la possibilità di svolgere un qualche ruolo positivo nel XXI secolo, oltre ogni necessaria sopravvivenza, non possiamo evitare di ripensare da cima a fondo la storia del nostro continente nella sua unità variegata, nelle sue differenze e nelle sue convergenze, nei suoi contorcimenti interni, nelle sue proiezioni esterne.
Ripensarla, perché la guerra è tornata in Europa e vicino all’Europa. Ripensarla perché di anno in anno, elezione dopo elezione, i singoli paesi europei sempre più riscoprono il proprio particolare nazionale (come già accaduto in passato) e si chiudono su sé stessi, simili a torri fortificate, affossando di fatto il grande slancio continentale che dalla Seconda guerra mondiale in poi ci ha reso più europei, più coesa comunità supra-nazionale.
Contro le narrazioni emergenti. Contrastare la sindrome della tartaruga
Oggi le narrazioni emergenti cercano (con crescente successo – sic!) di persuaderci che meno Europa sia meglio, che ciascuna nazione “prima di tutto”, che i veri patrioti europei vogliono anzitutto “ordine”, che se c’è la guerra, se ci sono le migrazioni, se c’è la stagnazione economica, ebbene la colpa è solo ed esclusivamente di Bruxelles. E in nome di questi facili proclami e falsi miraggi, i nuovi avventurieri della politica spingono le singole società a dividersi, polarizzarsi, dilaniarsi e impaurirsi ulteriormente, più di quanto ciascuna di esse non sia già divisa, polarizzata, dilaniata, impaurita. Come europei ormai manca poco che si abbia paura di tutto: degli immigrati e della globalizzazione, del declino demografico e della transizione verde, dei raggi di sole e di noi stessi.
Le recenti campagne elettorali per le elezioni europee hanno confermato il loro carattere marcatamente nazionale. Sia i governanti sia i loro contendenti sono quasi esclusivamente interessati agli affari domestici, agli equilibri interni che spesso sono soprattutto equilibri locali. C’è un fattore importante che spinge in questa direzione. È la sindrome della tartaruga. Lo ha sottolineato ancora di recente il politologo Jan Zielonka. Nessun governante è in grado di affrontare le crisi finanziarie, sanitarie, climatiche e militari di oggi. Detto più precisamente:
“la democrazia opera all’interno dei confini nazionali e non riesce ad affrontare bene le crisi che attraversano tali confini”.
Concentrarsi sulle priorità sociali, economiche, politiche nazionali/locali è, dunque, più “realistico”, elettoralmente conveniente.
Capire la nuova congiuntura dopo il voto europeo e quello a Londra e a Parigi
Nella maggior parte delle analisi prevale, giustamente, il tentativo di capire in quale congiuntura esattamente ci troviamo. Gli ultimi dati dell’Eurozona mostrano come il tasso di risparmio sia salito al livello più alto da almeno 25 anni, se si esclude il periodo eccezionale della pandemia COVID-19. Le elezioni che si sono svolte nel Regno Unito hanno portato a una sconfitta senza precedenti per il Partito Conservatore (la più grande sconfitta in oltre 100 anni) e a un gigantesco vantaggio per i laburisti, il cui rappresentante Keir Starmer è diventato il nuovo Primo ministro.
A sua volta, il secondo turno delle elezioni francesi ha visto la più grande impennata della storia recente a favore della destra anti-sistema. Tuttavia, le elezioni sono state vinte dalla coalizione di sinistra del Nuovo Fronte Popolare, composta in parte anche da movimenti anti-sistema. L’equilibrio dei poteri all’interno dell’Assemblea Nazionale è tale che il presidente centrista Emmanuel Macron dovrà navigare tra gli estremi.
Apparentemente, queste elezioni non hanno nulla in comune. Un Paese si sta spostando verso un centro colorato di sinistra, dopo anni di dominio del partito conservatore; l’altro è a cavallo tra gli estremi. Eppure molte tendenze accomunano Francia e Regno Unito, Polonia e Paesi Bassi – in attesa di conoscere meglio quel che accade in Germania (prossime importanti elezioni regionali in settembre in Sassonia, Turingia e Brandeburgo).
Nelle elezioni del 2024 hanno perso i politici al potere, a prescindere dal loro orientamento politico-ideologico. Scarse, se non molto scarse sono state giudicate le loro performance dagli elettori, e per questo sono stati puniti. Per alcuni osservatori la spiegazione più ovvia a questo dato di fatto è l’inflazione e la crisi del costo della vita del 2021-2023, fenomeno ha colpito tutti i Paesi. Quanto c’è nel portafoglio – cioè salari, pensioni, affitti, quindi posti di lavoro, tasse, insieme a politiche sanitarie, assistenziali, educative – interessano sempre e sempre più l’elettorato. Seconda spiegazione: l’ascesa dei partiti anti-sistema in tutta Europa, cioè dei partiti che contestano non solo le politiche del governo, ma anche l’assetto istituzionale e la legittimità del sistema.
Ma perché cresce la propensione antisistema degli elettori? I tentativi di spiegazione non mancano. Fattori economici e crescenti disuguaglianze sociali? Cambiamenti culturali e di mentalità dovuti al benessere complessivo? La rivolta contro la globalizzazione, la paura dell’immigrazione, l’offuscamento delle identità nazionali? O ancora il ruolo dei media sociali che travolgono le tradizionali barriere dello spazio pubblico, non seguono le consuete regole del pubblico dibattito, infrangono senza problemi numerosi tabù, trattano temi anche proibiti, danno una visibilità enorme ai gruppi finora marginali, quindi consentono di comunicare, fornire informazioni, mobilitare e raccogliere consensi in maniere inedite?
Quale che siano le chiavi di lettura più appropriate, tutti gli analisti paiono concordi su un punto cruciale: le forze che causano l’aumento degli atteggiamenti anti-sistema in Europa non scompariranno tanto presto.
Capire davvero chi siamo e dove vogliamo andare nella lunga durata, riaprire la questione dei rapporti fra l’Europa e il Resto del Mondo. Reinventare l’Europa, “fare” nuovi europei
Capire la congiuntura è fondamentale ma non basta. Se vogliamo sopravvivere abbiamo bisogno di una visione più ampia. Non l’affanno della rincorsa ma un molto profondo respiro che ci spinga a meditare su chi siamo, dove vogliamo andare nella lunga durata. Il fatto è che la nostra storia continentale va ripensata in particolare alla luce delle pressioni, delle sollecitazioni e delle sfide vecchie e nuove che ci provengono dall’esterno, dai paesi nostri vicini (quelli situati sull’arco Baltico-Mar Nero-Mediterraneo-Atlantico) e dai continenti più lontani (Africa sub-sahariana, Usa, Corea, Cina).
La questione meno dibattuta oggi è il rapporto Europa-Resto del Mondo. Da tempo – dalla guerra civile della Prima/Seconda guerra mondiale? Dalle decolonizzazioni avvenute nel secondo dopoguerra? Dalle crisi energetiche degli anni 1970? – si sta chiudendo un lungo ciclo di storia: quella storia che ci ha portato qui, noi che siamo oggi appena 500 milioni in un mondo che tende verso i 10 miliardi di persone.
Quel lungo ciclo è iniziato oltre 5 secoli fa con le grandi scoperte, poi conquiste del XV-XVI secolo. Abbiamo dominato, sfruttato, sedotto e piegato ai nostri voleri quasi l’intero globo terracqueo. Per stare bene in casa abbiamo spinto nel XIX e XX secolo milioni e milioni di europei a emigrare fuori dai confini dell’Europa. Il fatto che andassero a cercare fortuna altrove nel mondo – un mondo che non era affatto vuoto – ha contribuito a evitare per decenni che quei milioni e milioni di persone mettessero ulteriormente in discussione il nostro modello europeo di vita, società, economia, politica, cultura.
La sfida del XXI secolo è re-inventare il rapporto Europa-Resto del Mondo. Per farlo occorre re-inventare l’Europa e “fare” nuovi europei.
21 giugno 2024 con aggiornamenti il 10 luglio 2024
[1] Una prima versione di questo articolo è stata pubblicata su “poli-logo. dialoghi plurali a est” il 21 giugno 2024 https://www.poloniaeuropae.it/europa-mondo-un-rapporto-da-reinventare/.
[2] Presidente della Fondazione romana Janina Umiastowska
[3] Si veda il sito dell’Institut of National Remembrance a Varsavia. Cf. https://eng.ipn.gov.pl/en.
[4] Si veda “Polish Ukrainian Historical Disputes over the Volhynian Massacres”. Cf. https://volhyniamassacre.eu/zw2/controversies/183,Polish-Ukrainian-Historical-Disputes-over-the-Volhynian-Massacres.html
[5] Paolo Morawski, “Acqua sulle sciabole. Polonia e Ucraina”, in Naufraghi della pace. Il 1945, i profughi e le memorie divise d’Europa, a cura di Guido Crainz, Raoul Pupo, Silvia Salvatici, Roma, Donzelli Editore, 2008, pp. 39-74.
[6] Paolo Morawski, “Per un nuovo patto tra Polonia e Ucraina”, Limes (1), gennaio 2024
[7] Timothy David Snyder, nato il 18 agosto 1969, è uno storico, scrittore e accademico specializzato nella storia dell’Europa orientale e dell’Olocausto. Tra i suoi libri tradotti in italiano, Il principe rosso, Milano, Rizzoli, 2009, 400 p.; Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalin, Milano, Rizzoli, 2011, 584 p., con Tony Judt: Novecento. Il secolo degli intellettuali e della politica, Roma-Bari, Laterza, 2012, 414 p. Terra nera. L’Olocausto fra storia e presente, Rizzoli, 2015, 555 p. Venti Lezioni. Per salvare la democrazia dalla politica, Milano, Rizzoli, 2017, 144 p. La paura e la ragione. Il collasso della democrazia in Russia, Europa e America, Milano, Rizzoli 2018, 395 p.
[8] Ivor Norman Richard Davies nato a Bolton, l8 giugno 1939 è uno storico e saggista britannico noto per le sue pubblicazioni sulla storia d’Europa, Polonia e del Regno Unito. Sposato con Maria Korzeniewicz tra Oxford e Cracovia. Tra i suoi libri tradotti in italiano: La rivolta. Varsavia 1944: la tragedia di una città fra Hitler e Stalin, Milano, Rizzoli, 2004, 797 p.; con Roger Moorhouse, Microcosmo. L’Europa centrale nella storia di una città, Milano, Bruno Mondadori, 2008, 625 p. Storia d’Europa, Milano, Bruno Mondadori, 2006, 1438 p.
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