Montenegro, storia di una piccola patria
Tredici/A Hermes Storie di geopolitica – Europa
Giulio Ferlazzo Ciano
Dottore di ricerca in Storia contemporanea
Giulio Ferlazzo Ciano nell’articolo “Nel cuore dei Balcani occidentali, tra sogni d’Europa e disillusione” propone un’analisi su Bosnia-Erzegovina e Montenegro suddivisa in tre momenti:
- Bosnia-Erzegovina, una Jugoslavia in miniatura. Passato e presente di una terra di confine senza dimenticare la lezione di Ivo Andric premio Nobel per la letteratura.
- Montenegro: Occidente balcanico o Serbia mediterranea? Storia di una piccola patria.
- Bosnia Erzegovina e Montenegro, due pezzi d’uno Stato mutilato. Conclusioni e linee di tendenza comuni ai due Stati
Segue la seconda parte.
23 aprile 2024
2. Montenegro: Occidente balcanico o Serbia mediterranea?
Risalendo il corso della Drina dalle arcate di pietra del famoso ponte di Višegrad, reso immortale dal romanzo di Ivo Andrić, superando strette forre e pareti scoscese ammantate di boschi, il fiume si divide in due bracci, detti Tara e Piva, che entrano in Montenegro, incuneandosi ai margini del massiccio montuoso del Durmitor, seconda cima del Paese, che nel nome conserverebbe ancora un residuo fossile dell’antica presenza latina, mediata in ere più recenti dalla cultura valacca, che un tempo dominava in questa regione. Il Montenegro è uno Stato di taglia decisamente piccola: 13.800 chilometri quadrati, equivalenti alla superficie della Venezia Tridentina/Trentino-Alto Adige, e con una popolazione di 620 mila abitanti, pari all’incirca agli abitanti di Palermo. Il censimento del 2011 (i dati del censimento del 2023 sono ancora in fase di elaborazione) mostra una popolazione in massima parte serba (73,7 per cento), la cui identità varia tuttavia tra quella dichiaratamente serba (28,7 per cento) e quella montenegrina (45 per cento), null’altro che una variante identitaria regionale di quella serba, ma che è capace di destare un certo orgoglio particolaristico. Il resto della popolazione si divide tra l’8,6 per cento di bosgnacchi, prevalenti nella regione a cavallo tra Montenegro e Rascia che un tempo fu detto Sangiaccato (rimasta sotto controllo ottomano fino al 1913), il 4,9 per cento di albanesi, concentrati a ridosso del confine con Albania e nella municipalità costiera di Dulcigno (Ulcinj/Ulqin), il 4,8 per cento di etnia non conosciuta (probabili identità miste jugoslave), il 3,3 per cento di musulmani di diversa origine balcanica, l’1 per cento di zingari romanì e altri gruppi minori1.
Storia di una piccola patria
L’origine della peculiare identità storica del Montenegro si ricollega alle fasi finali del primo Regno serbo, nella seconda metà del XIV secolo, Regno a cui la regione, prima con il nome di Duklja (Doclea) e in seguito di Zeta era appartenuta fin dalla fine del XII secolo. Alla morte del re Stefano Uroš IV Dušan, nel 1355, e ancor più in seguito alla morte dell’ultimo (seppur debole) esponente della dinastia dei Nemanjići (1371) la regione divenne di fatto autonoma sotto la signoria dei Balša, che nel 1396 furono costretti a cedere a Venezia il loro centro principale, Scutari (Shkodër, oggi in Albania), mentre l’ultimo dei Balša, privo di discendenti diretti, dovette lasciare il principato in eredità allo zio Stefan Lazarević, il figlio di quel principe Lazar Hrebeljanović che si era alleato con il re di Bosnia Tvrtko per tentare di fermare l’avanzata dei turchi, ma che era stato da questi sconfitto e ucciso sul campo di Kosovo Polje, nel 13892.
Dopo una pausa ventennale di combattimenti contro gli ottomani, in seguito alla sconfitta ad Ankara del sultano Bayezid ad opera delle armate mongole di Tamerlano (1402), il sultano Murad II riprese nel 1428 le operazioni di conquista nei Balcani, minando l’integrità dell’ultimo principato serbo indipendente, che nel frattempo aveva spostato il suo baricentro più a nord, sulle rive del Danubio. Nel 1439 cadde la fortezza di Smederevo, dove era la corte dell’ultimo despota serbo Djordje Branković, succeduto a Stefan Lazarević, e nel 1441 quasi tutto il Paese fu occupato dagli ottomani, che fino al 1459 e alla seconda e definitiva caduta di Smederevo avrebbero comunque continuato a combattere una sorta di guerriglia contro il despota serbo Branković. Una regione, tuttavia, sfuggiva al pieno controllo turco: la Zeta3. Dove nel frattempo stava emergendo il potere di una famiglia magnatizia di minore importanza, un tempo in lotta contro i più potenti Balša, quella dei Crnojevići. Quando, nel 1444, Djordje Branković riuscì brevemente a restaurare una parvenza di autorità sulle terre del despotato invase qualche anno prima dai turchi, Stefan Crnojević gli resistette e si pose sotto la protezione della Repubblica di Venezia, inaugurando una fortunata collaborazione politica tra la Serenissima e questa regione4.
Ivan Crnojević, dopo essersi scontrato con i turchi e avendo trovato riparo in Italia, ritornò nella Zeta nel 1481 e, fondandovi un monastero, fissò la sua corte a Cettigne (Cetinje), una località strategica da cui, risalendo le cime attorno alla vetta del vicino monte Leone (Lovćen), si potevano scorgere le possenti fortificazioni veneziane di Càttaro (Kotor), centro abitato che, assieme a gran parte dell’articolata vasta insenatura delle Bocche, dal 1420 apparteneva alla Serenissima e che, in caso di estremo bisogno, avrebbe potuto offrire rifugio. La condizione di Ivan Crnojević fu tuttavia molto difficile, dovendosi barcamenare tra i tentativi ottomani di penetrare nella regione e di assoggettarla e l’ingombrante tutela veneziana. Dopo aver accettato il vassallaggio ottomano, alla sua morte scoppiarono dissidi familiari che agevolarono la conquista turca nel 14995. Fu in questo periodo che a Venezia iniziò a diffondersi la denominazione Montenegro: che si trattasse di una regione montagnosa è un fatto assodato e per di più era dominata da una famiglia il cui nome derivava dal vocabolo serbo che significa “nero” (crn), per cui divenne spontaneo definire questa regione confinante con le veneziane Bocche di Cattaro e dietro al monte Leone, a sua volta ammantato di oscure boscaglie, il nero monte. La nuova denominazione avrebbe riscosso così fortuna che, con il passare dei secoli, anche l’endonimo in lingua serba sarebbe mutato in Crna Gora, letteralmente “montagna nera”, mentre in quasi tutte le lingue europee prevalse il vocabolo in lingua italiana Montenegro.
Pur sotto formale dominio ottomano, in realtà la vita a Cettigne continuò come prima: la regione circostante era una pietraia quasi sterile, buona per far pascolare le greggi, il resto era invece costituito da selve molto fitte, pertanto non in grado di riscuotere l’attenzione del sultano per introdurvi l’insediamento feudale ottomano, come avvenne invece in Bosnia. Qui peraltro la popolazione, in massima parte formata da contadini liberi, non si convertì in massa all’islam, come avvenne da parte dei bogomili bosniaci, ma rimase fedele alla cristianità ortodossa, con l’unico obbligo di versare il testatico (cizya) dovuto dai cristiani a un funzionario ottomano, che per secoli rimase l’unico turco autorizzato a introdursi nella regione6. Nel frattempo nel territorio intorno a Cettigne si era riorganizzata una vita politica e culturale autonoma basata su una sorta di teocrazia che faceva perno sull’autorità di un vescovo ortodosso, denominato vladika, eletto dal popolo e dal clero fra i monaci del monastero di Cettigne, che dal 1515 assunse il titolo di principe-vescovo della Crna Gora7.
La Quinta guerra turco-veneziana, detta anche guerra di Candia (1645-1668) perché combattuta prevalentemente per difendere l’isola di Creta (Candia) dall’occupazione ottomana, ebbe delle ripercussioni lungo tutti i confini dei domini veneziani in Adriatico, in Dalmazia così come attorno alle Bocche di Cattaro. Durante l’intera durata del conflitto i sudditi del principe-vescovo mantennero contatti con le autorità veneziane a Cattaro, configgendo a loro volta nel 1645 un contingente militare ottomano inviato a sottomettere l’irrequieta comunità contadina ortodossa agli ordini del vladika. Nel 1649 i montenegrini parteciparono a un’incursione veneziana sulla stessa Cettigne e nel 1657 scesero dalle montagne per difendere Cattaro da un attacco ottomano8. Dal 1696, durante la fase terminale della Sesta guerra turco-veneziana, coeva alla guerra della Lega santa che portò le truppe del principe Eugenio di Savoia a Sarajevo, il vladika di Cettigne fu scelto nella cerchia familiare dei Petrović, clan della tribù Njegoš, proveniente da un’area non distante dal villaggio assurto a sede della comunità teocratica9.
Da allora e per tutto il XVIII secolo i montenegrini divennero gli alfieri, nell’antico spazio nazionale serbo, della lotta contro gli ottomani, alleandosi con Venezia e l’Austria e infine con la Russia. Malgrado il tentativo veneziano di tenere legata Cettigne alla Serenissima, con la nomina a Cattaro, a partire dal 1717, di un guvernadur civile per il Montenegro, affidato anch’esso a esponenti di un clan della tribù Njegoš, alla fine della Settima e anche ultima guerra turco-veneziana (1714-1718), che mostrò tutta la limitatezza del potere politico e militare dell’ormai declinante Serenissima, alla corte di Cettigne il semi-protettorato veneziano andò progressivamente perdendo vigore a favore dell’influenza russa. L’ultimo breve momento di gloria per l’autorità dei guvernaduri appoggiati da Venezia fu tra il 1773 e il 1781, quando per un breve periodo vi fu incertezza sulla successione dell’ultimo vladika. Ma l’ascesa di Pietro I Petrović-Njegoš determinò una sterzata definitiva della politica di alleanze, avvicinando il Montenegro come mai prima alla corte di Pietroburgo10. Da allora, venuta peraltro meno l’indipendenza di Venezia nel 1797, il Montenegro poté indirizzare la sua politica verso la costituzione di uno Stato indipendente retto da una monarchia ereditaria legittimata da tradizioni ancora teocratiche.
Già nel Settecento, tuttavia, il processo ormai avviato di costruzione di un pur minuto Stato monarchico accentrato (fino al 1796 il vladika di Cettigne “regnava” su un territorio vasto un po’ meno di un migliaio di chilometri quadrati) aveva superato i limiti di autonomia finora concessi dalle autorità ottomane. Ora, infatti, i montenegrini avevano il coraggio di spingersi a operare razzie nelle regioni di pianura attorno al lago di Scutari per integrare le magre risorse di un territorio povero e con una parte della popolazione affamata. Il giorno di Natale del 1702, addirittura, i diversi clan della regione si allearono tra loro per compiere un massacro di musulmani, turchi, albanesi e serbi rinnegati, così che dall’anno successivo il piccolo territorio sotto l’autorità del vladika era privo di popolazione islamica11.
In seguito, con l’avvento delle guerre napoleoniche e poi nel corso dell’Ottocento, con l’Impero ottomano ormai diventato nell’accezione comune il “malato d’Europa”, fu agevolata una politica di espansione territoriale e il graduale processo di riconoscimento internazionale del Montenegro come Stato autonomo e poi indipendente dall’Impero ottomano12. Già nel 1799 il vladika Pietro I, con una breve campagna vittoriosa contro le forze ottomane dislocate nella regione, aveva quasi raddoppiato la superficie del suo dominio e aveva persino ottenuto una dichiarazione, poi in seguito ritrattata, che riconosceva ai montenegrini di non essere mai stati sudditi ottomani. Il nipote, Pietro II Petrović-Njegoš, vladika tra il 1830 e il 1851, modernizzatore e riformatore, rinsaldò ancor di più le relazioni con la Russia e, consapevole del fatto che i montenegrini fossero serbi a tutti gli effetti e che fosse pertanto necessario rinsaldare i legami politici e culturali tra i due Paesi, si avvicinò anche alla Serbia, che stava allora compiendo lo stesso percorso in direzione dell’indipendenza, avendo nel frattempo ottenuto l’autonomia. Pietro II fu anche l’autore, nel 1845, di un poema epico destinato ad avere grande fortuna nel contesto della rinascita della letteratura serba, il Serto della montagna13, opera che narrava in forma di esaltazione il massacro compiuto più di un secolo prima dai suoi avi ai danni dei montenegrini convertiti all’islam, così da ricollegare idealmente quella stagione “eroica” con il nuovo corso politico volto a liberare totalmente il Paese dalla tutela ottomana14.
È senz’altro un elemento divisivo il fatto che il Serto della montagna sia considerato ancora oggi una pietra miliare della moderna letteratura serba perché, se da una parte non si può escludere la qualità letteraria e stilistica del poema, risulta arduo comprendere come le storiche minoranze musulmane di lingua serba residenti in Montenegro, in Serbia e nella Repubblica Srpska (due Stati indipendenti e un’entità federata dove la figura del vladika Pietro II Petrović-Njegoš è tuttora esaltata con una doppia valenza culturale e storico-politica) possano accettare di sentirsi parte di una comunità nazionale (a cui appartengono a tutti gli effetti) in cui i loro stessi correligionari siano dipinti da un autore letterario di quasi due secoli addietro come dei rinnegati meritevoli di subire lo sterminio. Eppure, nella stessa Višegrad immortalata dal romanzo di Andrić (attualmente cittadina della Repubblica Srpska dove la popolazione bosgnacca, attestata al 50 per cento nel censimento del 1991, è calata al 9,8 per cento secondo il censimento del 2013) proprio al vladika poeta è stata recentemente (2014) dedicata la piazza principale di un complesso architettonico revivalista-folklorico, fortemente voluto dal regista Emir Kusturica, chiamato appunto Andrićgrad, che si richiama nelle forme a quelle di un centro fortificato medievale serbo15.
Il successore di Pietro II, il nipote Danilo (1852-1860), educato a Pietroburgo, volle separare per la prima volta la carica religiosa di vladika da quella politica e si proclamò pertanto gospodar (principe), non rassegnandosi inoltre ad accettare che l’Impero ottomano, uscito formalmente vittorioso dalla guerra di Crimea (1853-1856), il cui esercito aveva partecipato al conflitto assieme alle unità alleate franco-britanniche (compresa quella sardo-piemontese), potesse tornare ad estendere la sua autorità sul principato montenegrino. Si appellò pertanto all’imperatore francese Napoleone III per far riconoscere il suo Stato, senza tuttavia ottenere nulla, così che non gli rimase che sollevare il Paese e condurlo in guerra contro le forze armate ottomane. Il breve conflitto non portò ad alcun risultato definitivo da entrambe le parti, così che le Potenze, nel novembre 1858, imposero l’instaurazione di una autonomia montenegrina sotto tutela di una commissione internazionale. Il Montenegro diventava pertanto un Principato autonomo riconosciuto dall’Impero ottomano e dai principali Stati europei16.
La guerra russo-turca del 1877-1878, vinta dalle armate russe, a cui si affiancarono gli eserciti alleati dei principati romeni, della Serbia e, in misura minore, del Montenegro, comportò nella sede del congresso di Berlino il riconoscimento, nel luglio 1878, della piena indipendenza della Serbia e del piccolo Principato montenegrino dall’Impero ottomano. La superficie dello Stato si accrebbe fino a circa due terzi di quella attuale, compresa una fascia di litorale adriatico con il porto di Antìvari (Bar). Le Bocche di Cattaro e una striscia di litorale estesa verso sud-est oltre il borgo di Bùdua (Budva), rimasero invece all’Austria-Ungheria, essendo state ereditate dalla Repubblica di Venezia. Fu solo simbolica la trasformazione del Montenegro da Principato a Regno (1910), cui non fu estraneo il matrimonio della figlia del principe Nicola I Petrović-Njegoš, Jelena, nell’ottobre 1896, al futuro re d’Italia Vittorio Emanuele III di Savoia, divenuta essa stessa regina col nome di Elena. Questione di prestigio, insomma. Infine vennero le guerre balcaniche (1912-13) che fruttarono al Montenegro il raggiungimento dell’attuale confine con la Serbia, verso nord, e verso est persino l’annessione di una piccola porzione di Kosovo con la città di Peć, popolato da albanesi musulmani cari al vladika Pietro II, che ricambiarono la simpatia.
La Prima guerra mondiale vide il piccolo Montenegro soccombere all’occupazione austro-ungarica (1916-1918) e, in seguito al patto costitutivo jugoslavo firmato a Corfù il 20 luglio 1917, ne furono decise le sorti all’interno del più vasto Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, in seguito Regno di Jugoslavia, costituito ufficialmente il 1 dicembre 1918 sotto la dinastia serba dei Karađorđević. Persa l’indipendenza e anche l’autonomia, integrato nella compagine centralista del nuovo Stato jugoslavo, il Montenegro ritrovò una blanda forma di autonomia come Stato fantoccio dell’Italia durante la Seconda guerra mondiale, tra il 1941 e il 1943, con la vuota denominazione di Regno di Montenegro, priva tuttavia di qualsiasi reale effetto, dato che la famiglia Petrović-Njegoš non fu restaurata. Alla fine del conflitto, dopo una breve occupazione tedesca, il Montenegro fu integrato nella nuova Jugoslavia federale-socialista con la denominazione di Repubblica socialista del Montenegro, con il medesimo rango di Serbia, Croazia, Slovenia, Bosnia-Erzegovina e Macedonia. Figura chiave a cavallo tra gli anni della guerra partigiana e il primo decennio dopo la liberazione fu il montenegrino Milovan Đilas, divenuto col tempo un dissidente interno al sistema che lo portò ad essere estromesso dal governo, quindi arrestato tra il 1956 e il 1961 e tra il 1962 e il 1966, rimanendo in disparte fino al fine del comunismo.
Il Montenegro post dissoluzione della Jugoslavia: l’era Đukanović
Il processo di dissoluzione della Jugoslavia ha inizialmente lasciato in disparte la regione dove, nella Lega dei comunisti montenegrina (sezione locale della Lega dei comunisti jugoslava), si fece strada il giovane Milo Đukanović, il quale, grazie a un certo talento retorico, aveva fatto carriera nel ramo montenegrino dell’Alleanza della Gioventù Socialista fino a essere eletto, appena ventiseienne, membro del comitato centrale del XIII congresso della Lega dei comunisti jugoslava. Frattanto a Titograd (come era allora chiamata Podgorica) il governo montenegrino era oggetto dell’interesse del segretario della Lega dei comunisti serba, Slobodan Milošević, il quale aveva intenzione di portare sotto la sua direzione le sezioni della Lega dei comunisti della Vojvodina e del Montenegro, così da poter controllare più efficacemente lo spazio serbo. La cosiddetta “rivoluzione antiburocratica” fu un movimento popolare guidato da Milošević che indusse i cittadini a protestare contro i locali vertici del partito, indicati come corrotti ed inefficienti. L’operazione iniziò in Vojvodina, nell’ottobre 1988, e proseguì in Montenegro dove la marea crescente delle proteste indusse nel gennaio 1989 alle dimissioni sia del segretario della Lega dei comunisti montenegrina che del presidente della Repubblica socialista montenegrina.
Tra i giovani sostenitori di Milošević che avevano orchestrato l’operazione in Montenegro vi era una sorta di triumvirato composto giustappunto da Milo Đukanović, Momir Bulatović e Svetozar Marović, figure centrali nel seguente decennio politico montenegrino, a cominciare dallo stesso Đukanović che avrebbe avuto un avvenire anche in seguito. La rinnovata Lega dei comunisti montenegrini, guidata ora dal neosegretario Bulatović, fu così in grado di vincere le elezioni generali del dicembre 1990, formalmente le prime elezioni multipartitiche in Montenegro dall’instaurazione del regime comunista. Lo stesso Bulatović divenne presidente montenegrino e nel febbraio 1991 chiamò a guidare il governo l’amico Đukanović. Qualche mese dopo la Lega dei comunisti montenegrina cambiava nome in Partito Democratico dei Socialisti (DPS) e, contemporaneamente, la Jugoslavia andava in frantumi: in giugno Slovenia e Croazia si proclamavano indipendenti, in settembre la Macedonia, nel marzo 1992 la Bosnia-Erzegovina. Iniziava così il conflitto in Bosnia e nelle regioni limitrofe della Croazia, lasciando indenne tuttavia il Montenegro, dove non vi erano spinte secessioniste e gli organi di governo rimanevano saldamente in mano a fiduciari di Milošević, che agivano assecondando la visione nazionalista di colui che, nel frattempo, era stato eletto presidente della Serbia.
Serbia (e con essa le province non più autonome della Vojvodina e del Kosovo) e Montenegro, ormai rimaste le sole due ex repubbliche jugoslave sotto il controllo di Belgrado, l’una guidata direttamente da Milošević, l’altra dal fido Bulatović, convennero di celebrare il funerale ufficiale della Jugoslava titina per costituire una nuova compagine statale denominata Repubblica Federale di Jugoslavia, nata ufficialmente il 27 aprile 1992. Negli anni successivi avvennero alcuni assestamenti nella linea ufficiale che spostarono progressivamente l’asse del governo locale da Belgrado verso alcuni attori internazionali. A partire dal 1995, infatti, si assistette a una sempre maggiore presa di distanza del governo montenegrino dalle politiche di Milošević e addirittura, nel novembre 1995, Đukanović e Marović effettuarono una visita ufficiale negli Stati Uniti d’America, intessendo da allora una rete di relazioni politiche che sarebbero state utili negli anni a seguire. Bulatović, invece, rimanendo fedele a Milošević, lo seguì nelle incipienti avversità, che allora si andavano palesando con un’impennata dell’inflazione, finendo anche per doversi allontanare dal partito di cui si era impossessato con l’aiuto degli altri due sodali, proprio a causa del contrasto con Đukanović. Il quale nel frattempo era stato accolto una seconda volta negli Stati Uniti per ottenere una sorta di prestigiosa investitura in vista delle elezioni presidenziali montenegrine dell’ottobre 1997.
Che naturalmente furono vinte da Đukanović. Da allora l’ex sodale di Milošević iniziò una politica parallela e in contrasto con il nazionalismo serbo, spostandosi su posizioni sempre più filo-occidentali, per esempio criticando la crescente militarizzazione del Kosovo e la repressione da parte serba della popolazione albanese, e vagheggiando di fatto una restaurazione di un Montenegro indipendente, riuscendo così a risparmiare alla Repubblica federata i bombardamenti della NATO tra il 23 marzo e il 9 giugno 1999. Iniziò forse in quel contesto storico il momento più difficile per Milo Đukanović, con un Milošević che si sentiva tradito da una sua creatura e di cui conosceva tutti gli affari illeciti. A tal proposito l’allora ministro della Difesa jugoslavo, Pavle Bulatović, anch’esso di origine montenegrina, avrebbe minacciato di porre fine alle attività di contrabbando che fiorivano all’ombra della presidenza montenegrina e di cui si stava interessando anche la giustizia italiana per i legami criminali tra le due coste dell’Adriatico. Bulatović tuttavia fu colpito da colpi di pistola in un ristorante di Belgrado il 7 febbraio 2000 e c’è chi ha potuto leggere in questo omicidio, rimasto ancora oggi irrisolto, una pista che conduceva a Podgorica, alla corte di Đukanović17.
Ma per la fortuna del presidente montenegrino, al quale il trovarsi a distanza di sicurezza dal covo di vipere belgradese, nel suo fidato Montenegro, garantiva una certa sicurezza, la stagione delle vendette incrociate durò poco. La caduta di Milošević, il 5 ottobre 2000, lo privò di fatto del suo nemico più pericoloso, mentre il nuovo ordine politico che andava instaurandosi a Belgrado avrebbe senz’altro ignorato la sua svolta filo-occidentale, visto che quella era proprio la direzione in cui anche la Serbia intendeva muoversi. Tuttavia l’ambizione di staccare il Montenegro dalla Serbia trovava nel nuovo corso una battuta d’arresto, visto il clima di buone relazioni instauratosi tra le due Repubbliche federate che, nel 2003, decisero di rinnovare in via provvisoria il patto federativo con il varo di una nuova carta costituzionale e il cambio della denominazione ufficiale dello Stato, non più Jugoslavia ma Serbia e Montenegro. Frattanto nel 2002 si palesavano i primi accertamenti giudiziari esteri sulle attività illecite favorite da Đukanović, con un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Bari coordinata dal pubblico ministero Giuseppe Scelsi che intendeva dimostrare i legami criminali tra Đukanović e un cittadino svizzero, già noto alle procure, che sarebbe stato il tramite di una lucrosa attività di contrabbando di sigarette, durata dal 1994 al 2002, sottraendo allo Stato italiano alcuni miliardi di euro di mancate imposte18.
Nel frattempo, alla scadenza del mandato presidenziale, Đukanović intraprese il classico gioco dell’alternanza delle cariche di governo per rimanere al potere, passando con destrezza dalla presidenza all’ufficio di primo ministro: nel novembre 2002 si dimise da presidente, con qualche mese d’anticipo, per assumere la carica di primo ministro che era stata di Filip Vujanović, a sua volta candidato del Partito Democratico dei Socialisti (DPS) alle elezioni presidenziali del 2003, che furono vinte da Vujanović, permettendo così a Đukanović di conservare la carica di primo ministro fino al 2006. Il 21 maggio di quell’anno si è tenuto in Montenegro il referendum per l’indipendenza, vinto con un margine non molto ampio (55,4 per cento) dai fautori (e tra questi in prima fila Đukanović) della secessione da Belgrado. Il 3 giugno 2006 il Montenegro si è dichiarato indipendente, rimanendo fino all’anno scorso un feudo personale di questo scaltro politico capace di sopravvivere a qualsiasi stagione. In seguito alle elezioni parlamentari dell’ottobre 2006 il primo ministro ha persino rassegnato le dimissioni e si è limitato ad un’attività da deputato nel parlamento (Skupština) di Podgorica.
Nelle successive elezioni presidenziali del 2008 il deputato Đukanović ha lasciato che il fido Filip Vujanović corresse per il secondo mandato presidenziale, accettando la nomina a primo ministro e comparendo in marzo, dotato di immunità parlamentare, davanti ai magistrati di Bari per rispondere alle loro domande, in un colloquio durato sei ore che, tuttavia, non è stato decisivo per l’indagine, essendo la posizione del primo ministro inscalfibile da un punto vista giurisdizionale: l’indagine si è conclusa pertanto nell’aprile 2009 con l’archiviazione, per via dell’immunità diplomatica dell’uomo di Stato montenegrino. Nel dicembre 2010 il primo ministro ha potuto rassegnare le dimissioni dall’incarico, all’indomani del riconoscimento ufficiale per il Montenegro dello status di Paese candidato ad essere ammesso nell’Unione Europea. Candidato del DPS alle elezioni parlamentari anticipate nel 2012 con la coalizione Montenegro Europeo (Evropska Crna Gora), Đukanović è riuscito ad assicurarsi un settimo mandato da primo ministro, lasciando al sempre fidato Vujanović di correre per il terzo mandato presidenziale nel 2013.
La posizione del primo ministro in quegli anni è stata sempre più chiacchierata. La rete di giornalismo investigativo OCCRP (Organized Crime and Corruption Reporting Project) lo ha insignito per l’anno 2015 del poco ambito premio di governante mondiale più coinvolto in attività di criminalità organizzata19. In seguito alle elezioni parlamentari del 2016 che hanno confermato la supremazia politica del DPS, Đukanović si è ritirato ancora dalla carica di primo ministro, lasciandola a un altro suo uomo di fiducia, decidendo di correre questa volta per la presidenza. In quell’occasione peraltro il Montenegro ha attraversato una fugace ma intensa crisi istituzionale creata da un tentativo sventato di colpo di Stato, che avrebbe dovuto tenersi il 16 ottobre 2016 e che sarebbe stato orchestrato da esponenti dell’opposizione legati ai governi serbo e russo. Il movente, oltre alla rimozione-assassinio di Đukanović, sarebbe stato quello di prevenire l’ingresso del Montenegro nella NATO, avvenuto effettivamente l’anno successivo, nel giugno 2017. Il colpo di Stato non ha mancato di suscitare polemiche negli ambienti dell’opposizione al governo e nell’opinione pubblica montenegrina. Non sono mancate illazioni su una possibile montatura20, ma al momento non ci sono elementi per confermare queste ipotesi, a parte il fatto che la Corte d’appello del Montenegro il 5 febbraio 2021 ha annullato il verdetto di colpevolezza emesso in primo grado per tutti i capi di imputazione riservati agli imputati accusati della cospirazione, rimettendoli in libertà e rinviando ad altra data il processo.
Nell’aprile 2018, infine, Đukanović è stato eletto presidente del Montenegro al primo turno con il 54 per cento dei suffragi. Frattanto anche il centro di ricerca Freedom House, con base a Washington, nel rapporto per l’anno 2020 ha dovuto constatare che il sistema politico controllato de facto dal presidente Đukanović non avesse promosso alcun processo di affinamento dei metodi di governo democratici, ma al contrario stesse portando il Paese a perdere i requisiti di una liberaldemocrazia, non tanto per la mancanza delle tradizionali libertà democratiche (libere elezioni), ma per il progressivo indebolimento dei contrappesi giudiziari e sociali (sistema giudiziario e mediatico indipendenti, attività di contrasto alla corruzione, efficace attività parlamentare, ecc.), oltre a denunciare, nel caso specifico del Montenegro, una sempre più marcata dipendenza economica da Paesi retti da regimi autoritari, come nel caso della Cina, che sarebbe detentrice del 39 per cento del debito estero di Podgorica21. Il Montenegro peraltro, con la crescita del turismo e l’ondata di privatizzazioni, è diventata una piattaforma internazionale per il riciclaggio di denaro da parte di autocrati e oligarchi stranieri (molti dei quali originari dell’ex spazio sovietico), gruppi finanziari e persino criminali, che hanno investito i proventi di attività illecite e dell’evasione fiscale in complessi residenziali e alberghieri di lusso, casinò e marine da diporto22. Un ulteriore addebito alla gestione spregiudicata del potere nell’era Đukanović e un problema che affligge ancora oggi il Paese.
Fine di un regno corrotto e neopatrimoniale: da Đukanović a Milatović
Frattanto alle elezioni parlamentari del 2020 il partito di opposizione conservatore e filo-serbo Per il futuro del Montenegro (Za Budućnost Crne Gore; ZBCG) è riuscito, per la prima volta dall’indipendenza, a insidiare il primato del partito DPS del presidente Đukanović, ottenendo il 32,5 per cento dei voti a fronte del 35,1 per cento del DPS. Più in generale le elezioni del 2020 hanno garantito una solida maggioranza a tutti i partiti di opposizione. Al successo della piattaforma politica filo-serba non è stata estranea la cosiddetta legge sulla libertà di culto del dicembre 2019, immediatamente seguita da un’ondata di proteste. La legge avrebbe trasferito le proprietà della Chiesa serbo-ortodossa (immobili e terreni) allo Stato, facendo per questo sospettare che il movente fosse da ricercare nella volontà del governo di alienare alcuni terreni costieri a speculatori stranieri23. Secondo i critici del governo, inoltre, la legge avrebbe potuto far scaturire tensioni tra le componenti religiose ed etniche del Paese. In primo luogo perché avrebbe inevitabilmente creato contrasti identitari tra la Chiesa ortodossa montenegrina (non toccata dalla legge), formalmente dotata di autocefalia dal 1993 ma minoritaria nel Paese, e quella serba, spaccando così una società etnicamente e culturalmente in prevalenza serba tra nazionalisti serbi e pseudo-nazionalisti montenegrini. In secondo luogo perché l’appoggio all’iniziativa del governo, assicurato da parte di alcune formazioni politiche in rappresentanza delle minoranze bosgnacca, croato-cattolica e albanese, avrebbe potuto provocare pericolose tensioni intercomunitarie prodotte dal risentimento verso quelle stesse minoranze da parte dei nazionalisti serbi, sentitisi minacciati dalla legge.
Contro la legge è sceso in campo anche il governo serbo, rintuzzato prontamente da Đukanović che ha accusato di indebite interferenze Aleksandar Vučić, presidente serbo espresso da un partito di aperte simpatie nazionaliste, rievocando il ritorno di una politica volta a far rivivere la Grande Serbia e provocando per questo nel settembre 2020 una seria crisi nelle relazioni tra i due Stati confinanti. Nel frattempo i partiti di opposizione sono riusciti a convergere sulla decisione di formare un governo di coalizione guidato dal leader della ZBCG Zdravko Krivokapić, che dal dicembre 2020 è stato investito dal parlamento della carica di primo ministro. Questi, nell’assumere l’incarico, ha con senso di responsabilità rinunciato ad appoggiare le istanze delle frange più radicali del nazionalismo serbo in Montenegro, che chiedevano il cambiamento dei simboli nazionali montenegrini (stemma, bandiera, inno nazionale), il disconoscimento dell’indipendenza del Kosovo (che effettivamente il Montenegro aveva riconosciuto, non senza una certa coerenza, già nel 2008), così come l’uscita del Paese dalla NATO.
Intanto l’anno successivo lo scandalo legato ai cosiddetti Pandora Papers (documenti segreti prelevati dal consorzio di giornalisti d’inchiesta ICIJ da diversi paradisi fiscali, nonché da centri finanziari internazionali come Svizzera, Panama ed Emirati Arabi Uniti) investiva direttamente il presidente montenegrino, accusato di aver spostato enormi somme di denaro assieme al figlio Blažo presso conti esteri in almeno cinque Paesi (Regno Unito, Svizzera, Isole Vergini britanniche, Panama, Gibilterra)24. Il primo ministro d’opposizione Krivokapić non ha perso tempo a chiedere all’autorità giudiziaria di indagare sulle attività illecite correlate ai membri della famiglia Đukanović. Il quale non ha potuto fare a meno di far leva sullo pseudo-nazionalismo montenegrino per alimentare proteste, nei dintorni di Cettigne, contro la nomina del nuovo vescovo metropolita del Montenegro e del Primorie appartenente alla Chiesa ortodossa serba, garantendosi così l’opportunità di rilanciare le accuse contro il governo serbo e serrare i ranghi dell’opinione pubblica25.
Frattanto il mandato presidenziale Đukanović è andato verso la naturale scadenza e la società montenegrina, quasi risvegliata dal torpore prodotto dal trentennio di malversazioni e corruzione alimentati dall’ineffabile uomo forte locale, ha incoronato al secondo turno delle elezioni presidenziali del 2 aprile 2023 il candidato dell’opposizione per il Movimento Europa Adesso! (Pokret Evropa sad!; PES!), Jakov Milatović, trentaseienne laureato in economia e già ministro dello Sviluppo economico nel governo Krivokapić, che ha battuto il presidente uscente con un incoraggiante 58,9 per cento dei suffragi. Milatović peraltro, come il suo predecessore, ha maturato una certa consuetudine con il nostro Paese, ma se per Đukanović tale consuetudine si concretizzava in attività illegali e conseguenti indagini da parte della magistratura barese, per Milatović si tratta invece dell’esperienza maturata dopo aver frequentato un anno all’università La Sapienza, collaborando peraltro con l’ambasciata montenegrina a Roma. Anche per l’Italia, quindi, l’elezione di Milatović ha rappresentato un significativo e vantaggioso cambio di prospettiva. Persino un po’ più giovane è il primo ministro Milojko Spajić, candidato trentacinquenne del PES! alle elezioni parlamentari dell’11 giugno, laureato in Economia in Giappone, borsista all’università Tsinghua di Pechino e all’École des hautes étude commerciales (HEC) di Parigi.
Senz’altro il cambio della guardia ha giovato soprattutto allo stesso Montenegro. Al di là dell’auspicabile definitiva chiusura della stagione politica dominata da Đukanović, le relazioni tra la Serbia e il Montenegro sono sensibilmente migliorate e non sono mancati segnali di una maggiore attenzione al tema della corruzione. Recenti mandati d’arresto (aprile 2024) spiccati contro la direttrice dell’Agenzia per la prevenzione della corruzione, Jelena Perović, e l’ex procuratore capo speciale del Montenegro fino al 2022, Milivoje Katnić, accusato di associazione a delinquere26, fanno pensare a una probabile sincronizzazione tra attività di governo e sistema giudiziario, ma anche a un regolamento di conti interni, considerando che le indagini di Katnić erano sospettate di una certa selettività, non avendo mai toccato ad esempio Đukanović e la sua cerchia di uomini di fiducia.
Tuttavia il cambio della guardia in Montenegro non è stato esente da situazioni imbarazzanti. Una in particolare è degna di menzione. Milorad Dodik, il presidente della Repubblica Srpska, al ritorno dal viaggio a Kazan, dove il 24 febbraio 2024 aveva incontrato il presidente russo Vladimir Putin, si è fermato a Podgorica, invitato dal presidente del parlamento del Montenegro Andrija Mandić, esponente del partito conservatore e nazionalista serbo Nuova Democrazia Serba (NOVA-NSD), già coinvolto nel tentato colpo di Stato nel 2016 e ritenuto colpevole nel processo di primo grado, poi annullato nel 2021. Immediatamente il presidente Milatović e il primo ministro Milojko Spajić si sono affrettati a dichiarare di non essere stati informati, scaricando la responsabilità interamente su Mandić, il quale peraltro guida un partito fondamentale per poter tenere unita la coalizione di governo. Ad ogni buon conto durante l’incontro Dodik avrebbe condiviso con Mandić l’idea di Srpski mir, coniato sulla falsariga del concetto di Russkij mir, intendendo come “mondo serbo” qualunque territorio abitato da serbi e bisognoso di essere protetto qualora i suoi abitanti, stando alle parole di Dodik, siano «perseguitati e privati dei diritti fondamentali». La proposta per la costruzione in comune della centrale idroelettrica di Buk Bijela, lungo il corso superiore della Drina, è stata peraltro lasciata cadere pochi giorni dopo dal ministero per l’Energia montenegrino motivata da ragioni di protezione ambientale27. Nel complesso, se la visita di Dodik ha suscitato più imbarazzo al governo e alla presidenza e non è stata apportatrice di alcun vantaggio per il presidente della Repubblica serba di Bosnia, segnala tuttavia una debolezza intrinseca alla nuova coalizione politica che guida il Montenegro, ispirata da un nazionalismo serbo-montenegrino espresso su varie gradazioni, da quelle più moderate di Milatović e Spajić, che possono iscriversi nel più vasto obiettivo di far collaborare Podgorica e Belgrado al fine di portare all’ingresso dei rispettivi Paesi nell’Unione Europea, a quelle più radicali espresse dal presidente del parlamento Mandić, che rievocano con inquietudine una stagione che si riteneva conclusa. A proposito di Unione Europea, il Montenegro, dopo aver risposto al questionario presentato dalla Commissione nel 2009, è stato ufficialmente riconosciuto Paese candidato ad essere ammesso nell’Unione nel 2010 e i negoziati per l’ingresso, sulla base di 33 capitoli (chapters), sono stati ufficialmente aperti nel 2012. Al momento solo tre di questi capitoli sono stati chiusi, ovvero l’Unione ha riconosciuto che ad oggi soltanto tre criteri siano soddisfacenti per l’accoglimento del Paese nell’Unione: Scienza e ricerca, educazione e cultura, relazioni esterne. Tra i criteri che necessitano ancora di “ulteriori notevoli sforzi necessari” ricadono gli ambiti relativi alla giustizia, alle libertà e i diritti fondamentali, alla legislazione finanziaria e alla politica regionale. Insomma, c’è ancora molto lavoro da fare per cancellare il brutto ricordo della gestione neo-patrimoniale di Đukanović.
- Monstat – Uprava za Statitstiku: https://monstat.org/eng/page.php?id=393&pageid=57 ↩︎
- Mihailo Dinić, I Balcani (1018-1499), op.cit., p.630 ↩︎
- L’antico nome Zeta deriva da quella del breve fiume omonimo, non certo il maggiore della regione, ma che ne rappresenta il baricentro geografico, confluendo poco a monte del lago di Scùtari nella Morača. A sua volta la pianura che separa il lago dalla città di Podgorica è nota come piana di Zeta (Zetska ravnica). In questo c’è un’analogia con il toponimo Bosnia (in serbo-croato Bosna), derivato anch’esso da un fiume. ↩︎
- Mihailo Dinić, I Balcani (1018-1499), op.cit., pp.631-632, 637 ↩︎
- Ivi, p.637 ↩︎
- Jože Pirjevec, Serbi, croati, sloveni, op.cit, pp.20-21 ↩︎
- Gilles Veinstein, Le province balcaniche (1606-1774), in Storia dell’Impero Ottomano, op.cit., p.324 ↩︎
- Ivi, p.348 ↩︎
- Georges Castellan, Storia dei Balcani, XIV-XX secolo, op.cit, p.347 ↩︎
- Jože Pirjevec, Serbi, croati, sloveni, op.cit, p.29 ↩︎
- Georges Castellan, Storia dei Balcani, XIV-XX secolo, op.cit, p.347 ↩︎
- Ivi, p.348 ↩︎
- L’opera (in serbo Gorski vijenac) apparve per la prima volta tradotta in italiano dallo spalatino Giacomo Chiudina (Jakov Ćudina), che lo incluse nella raccolta di Canti del popolo slavo (1878), lodata da Niccolò Tommaseo. Cfr. Giacomo Chiudina, Canti del popolo slavo, tradotti in versi italiani con illustrazioni sulla letteratura e sui costumi slavi, Firenze, M.Cellini e C., 1878, 280 p. ↩︎
- Jože Pirjevec, Serbi, croati, sloveni, op.cit, pp.38-39 ↩︎
- Peter Aspen, The town that Emir Kusturica built, in “Financial Times”, 27 giugno 2014, consultato in rete: https://www.ft.com/content/6bdd13b8-fbaf-11e3-aa19-00144feab7de#slide0
Nell’articolo Kusturica, intervistato dall’autore, afferma che Andrićgrad dovrebbe essere «a symbol of pacifism…the heart that has to beat a great idea, to encourage eastern Bosnia as a symbol of peace». ↩︎ - Paul Dumont, Il periodo dei Tanzimat (1839-1878), in Storia dell’Impero Ottomano, op.cit., p.549 ↩︎
- “Bivši šef policije: Milo Đukanović stoji iza ubistva ministra Bulatovića?”, Vidovdan.org, 27 dicembre 2021. https://vidovdan.org/info/bivsi-sef-policije-milo-djukanovic-stoji-iza-ubistva-ministra-bulatovica/ ↩︎
- Mustafa Canca, Đukanović e il processo a Bari, in “Osservatorio Balcani e Caucaso”, 15 febbraio 2011; https://www.balcanicaucaso.org/aree/Montenegro/Dukanovic-e-il-processo-a-Bari-88919 ↩︎
- https://www.occrp.org/en/poy/2015/ ↩︎
- Francesco De Palo, Djukanovic, Bozovic e il golpe farsa, il triangolo delle menzogne in Montenegro, in “Il Fatto Quotidiano”, 14 novembre 2016, https://www.ilfattoquotidiano.it/2016/11/14/djukanovic-bozovic-e-il-golpe-farsa-il-triangolo-delle-menzogne-in-montenegro/3190770/ ↩︎
- Sintesi del rapporto Nations in Transit 2020, Freedom House (a cura di Zselyke Csaky);
https://freedomhouse.org/sites/default/files/2020-04/05062020_FH_NIT2020_vfinal.pdf ↩︎ - Il problema del riciclaggio di capitali in Montenegro è stato segnalato fin dal 2015 da Moneyval (Comitato di esperti sulla valutazione delle misure contro il riciclaggio di capitali e il finanziamento del terrorismo), organismo nato per iniziativa del Consiglio d’Europa. Per una più dettagliata analisi della questione e delle misure (scarsamente efficaci) fino ad oggi prese dal governo montenegrino per contrastare il fenomeno, si veda il rapporto redatto da Moneyval: Anti-money laundering and counter-terrorist financing measures. Montenegro. Fifth Round Mutual Evaluation (dicembre 2023); https://rm.coe.int/montenegro-for-publication/1680ae59a5 ↩︎
- Zoran Arbutina, Montenegro: identità nazionale, religione e politica, in “Osservatorio Balcani e Caucaso”, 10 gennaio 2020; https://www.balcanicaucaso.org/aree/Montenegro/Montenegro-identita-nazionale-religione-e-politica-198791 ↩︎
- MANS: Đukanović i sin osnivali kompanije u više od pet država (traduzione: MANS [organizzazione non governativa montenegrina che si batte contro la corruzione e il crimine organizzato]: Đukanović e il figlio hanno creato società in più di cinque Paesi), “Radio Slobodna Europa”, 3 ottobre 2021; https://www.slobodnaevropa.org/a/djukanovic-milo-blazo-pandora-papiri-/31490742.html ↩︎
- Montenegro in fiamme per le proteste antiserbe: scontri e arresti per il nuovo metropolita, “RaiNews.it”, 5 settembre 2021; https://www.rainews.it/archivio-rainews/media/Montenegro-proteste-scontri-arresti-anti-Serbia-nuovo-metropolita-Cetinje-c390230f-e791-41fc-a270-c823a30fea2e.html#foto-1 ↩︎
- https://www.agenzianova.com/a/661ffc604538d4.89802631/5171234/2024-04-15/montenegro-arrestato-ex-procuratore-capo-katnic-accusa-di-associazione-a-delinquere ↩︎
- Andrea Mercurio, Bosnia: Dodik incontra Putin e il leader dei serbi in Montenegro. Cosa c’è dietro?, in “Eást Journal”, 19 marzo 2024; https://www.eastjournal.net/archives/135916 ↩︎
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