Incarnare i soggetti in guerra con i “nemici dell’Islam” senza esservi pienamente coinvolti
Tredici/A Hermes Storie di geopolitica – Mondo
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Riccardo Cristiano
Giornalista, collaboratore di Reset
Riccardo Cristiano, nell’articolo “Iran, un punto di vista esterno”, commenta l’attuale situazione geopolitica dell’Iran. Per comprendere gli ultimi accadimenti riguardanti l’Iran, è importante analizzare le sue scelte e intenzioni in un contesto più ampio. Con le sue azioni e politiche l’Iran ha svolto e continua a svolgere un ruolo significativo nel panorama geopolitico globale.
Le sue scelte e intenzioni sono state influenzate da una serie di fattori; tuttavia, è importante notare che le dinamiche interne ed esterne dell’Iran sono complesse e spesso sfumate, e le sue azioni possono essere soggette a interpretazioni diverse da parte degli osservatori internazionali. Pertanto, per comprendere appieno gli ultimi accadimenti riguardanti l’Iran, è essenziale considerare attentamente il contesto storico, politico e sociale in cui si inseriscono.
19 aprile 2024
Provo ad analizzare gli ultimi accadimenti (attacco massiccio ma quasi senza danni a Israele dopo la strage al consolato iraniano in Siria, contro-risposta risposta insolitamente blanda di Israele) guardando all’Iran, alle sue scelte e intenzioni. Ovviamente l’Iran non vuole una oggettiva e conclamata estensione del conflitto di Gaza, ma che la guerra ibrida venga percepita da tutti come una guerra tra Iran e chi lo segue, da una parte, e Israele e potenze occidentali, Stati Uniti in testa ovviamente, dall’altra.
Per capire quel che mi appare essere il punto di vista iraniano, dobbiamo immaginare che, per assurdo, domani, non dico in Iran ma nel mondo arabo, si voti realmente, con partiti impegnati in campagna elettorale. Cosa direbbero allora i filo-iraniani e cosa potrebbero dire i sostenitori dei governi “arabi moderati”? Questo punto, conquistare le menti e soprattutto le emozioni, ci può condurre ad un possibile passaggio decisivo rispetto a questa guerra ibrida: la guerra non è soltanto militare, ma è anche propaganda. Pur “non amando“ le libere elezioni, Teheran è sempre in campagna elettorale. Anche se non a casa sua, ma nelle case vicine.
Siccome le opinioni pubbliche arabe sembrano stanche di guerre e di islamismo ideologico, non penso che si farebbero incantare dai filo-Teheran: per via della scarsa credibilità dei leader e delle emozioni, le piazze dei partiti governativi sarebbero vuote.
Se fosse così, potremmo decifrare anche alcuni comportamenti militari iraniani. La vera difesa iraniana, quella con cui conta di evitare attacchi massicci, è Hezbollah, la cui presenza serve a dire
“se attaccate l’Iran, sarete colpiti a vostra volta”.
Dopo la spettacolare e sovente sottovalutata esibizione muscolare iraniana contro Israele, mentre si attendeva risposta – sottovalutando il valore politico della partecipazione giordana, saudita ed emiratina nel contrastarla (sauditi ed emiratini con l’impiego di radar) –, molti giornali libanesi non filo-Hezbollah hanno scritto che il partito di Hassan Nasrallah aveva bucato due volte Iron Dome, il sistema di intercettazione dei missili che protegge Israele. Sembra che Israele ne avrebbe preso atto con preoccupazione e che, quindi, starebbe studiano nuovi ordigni.
I droni iraniani, di nuova generazione, possono volare a bassa quota senza fare alcun rumore e portare addirittura 50 chili di esplosivo. Come mai Hezbollah ha aspettato tanto tempo – lo scambio di fuoco è quotidiano da ottobre – per usare questo ordigno? Molti dicono che fosse un messaggio in vista della reazione contro l’Iran: state attenti a quel che fate, abbiamo molte sorprese.
Cosa vuole l’Iran? Vuole quello che, in parte, ha avuto. Cioè essere riconosciuto come il vero nemico di Israele e dell’Occidente, un nemico senza il quale nessuno può rimanere tranquillo. È quindi un problema per la nuova economia post-petrolifera delle monarchie del Golfo ed è un problema per le speranze di ricostruzione per la Siria, lo Yemen, l’Iraq, il Libano, ossia i Paesi dove l’Iran controlla i governi perché controlla attraverso le milizie il territorio. Il messaggio è che dell’Iran non si può fare a meno, e i problemi causati alla navigazione nel Mar Rosso lo indicano in modo concreto a tutti.
Teheran intanto punta a conquistare le emozioni delle piazze, e questo non sarebbe possibile se i regimi arabi moderati raggiungessero il loro obiettivo: un cessate il fuoco a Gaza, la piena distribuzione degli aiuti alla popolazione stremata, la liberazione degli ostaggi e quindi un accordo per la creazione dello Stato palestinese accanto a Israele.
Questo metterebbe gli arabi nelle condizioni di gestire il proprio futuro, di pacificare le società e le emozioni; consentirebbe anche di trovare investimenti stranieri nelle nuove prospettive economiche post-petrolifere dei Paesi del Golfo. Cioè tutto quello che Teheran deve impedire, contribuendo ad allontanare la soluzione della questione palestinese: perché se questo accadesse, se per assurdo si votasse nel mondo arabo, sarebbe il campo filo-iraniano a non sapere che dire e la sua ricerca di un ruolo regionale sarebbe meno rilevante. Per questo capovolgere il corso degli eventi a Gaza sarebbe probabilmente cruciale.
Dunque il silenzio sulla rappresaglia israeliana non può sorprendere, al di là di ciò che operativamente abbia significato. Il silenzio realizza l’obiettivo iraniano: incarnare i soggett in guerra con i “nemici dell’Islam” senza esservi pienamente coinvolti. Se questo è il primo successo, il secondo è il voto del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che, per via del veto statunitense, non ha approvato il pieno riconoscimento dello Stato palestinese accanto ad Israele. E, come si sa, Teheran è contraria alla partizione.
Ma si potrebbe pensare che un riconoscimento del peso regionale dell’Iran aiuterebbe a risolvere i problemi? Questo è il punto.
Per costruirsi un’idea bisognerebbe dunque capire i rapporti di forza tra pragmatici e apocalittici nel regime. Sia Khomeini sia Khamenei hanno visto il problema in termini “politici”, ma vivendo formati in una cultura profondamente apocalittica. Su questo, forse, si dovrebbe tornare per capirne la profonda valenza. Il tempo per loro non è lineare ma è una serie di urti, il cui fine è portare – e l’uomo può accelerarne l’arrivo – alla battaglia finale tra il Bene e il Male. In questa visione si può operare con intelligenza tattica, con senso pratico, anche con realismo, ma in una prospettiva ideologicamente e teologicamente apocalittica. Gli emergenti la pensano così?
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