Un’anticipazione del contributo di Democrazia Futura per la rivista trimestrale di Il Mondo Nuovo
Gianfranco Pasquino
Professore Emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna
Con l’articolo “Il premierato dello Stivale” della firma più prestigiosa che collabora a Democrazia futura, Gianfranco Pasquino, Professore Emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna, anticipiamo online sul sito de Il Mondo nuovo il contributo della nostra rivista al secondo fascicolo della rivista trimestrale di Giampaolo Sodano. Si tratta di una vera e propria requisitoria contro il testo del Disegno di Legge n. 935 “Modifiche agli articoli 59, 88, 92 e 94 della Costituzione per l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri, il rafforzamento della stabilità del Governo e l’abolizione della nomina dei senatori a vita da parte del Presidente della Repubblica”, contro il quale l’Accademico dei Lincei invita le opposizioni ad impostare “i loro lavori in Parlamento in chiave pedagogica che sia e diventi la premessa politica e culturale dell’indispensabile referendum oppositivo: il padre della difesa della democrazia parlamentare”.
04 giugno 2024
Il testo del disegno di legge n. 935 “Modifiche agli articoli 59, 88, 92 e 94 della Costituzione per l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri, il rafforzamento della stabilità del Governo e l’abolizione della nomina dei senatori a vita da parte del Presidente della Repubblica” è approdato nell’aula del Senato. Il ministro per i Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani lo ha dichiarato non modificabile. La Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ne vorrebbe l’approvazione in prima lettura prima delle elezioni del Parlamento Europeo fissate per il 9 e 10 giugno. Quella che ha definito la “madre di tutte le riforme” sarebbe un successo tale da risultare portatore di voti aggiuntivi di elettori entusiasti e galvanizzati.
Non entro in nessuna delle polemiche politicistiche e non intendo ripercorre l’iter che ha portato al testo attuale, ma debbo menzionare alcuni elementi. Il primo è che sono state fatte circa 55 audizioni di esperti tutti, con la sola eccezione di uno storico, le cui conoscenze in materia di sistemi politici, di governi, di parlamenti, di leggi elettorali non (mi) sono note, provenienti dal mondo del diritto, nessuno da quello della Scienza politica. Sì, lo so, in quanto Professore emerito di scienza politica metto entrambi i piedi nel piatto del conflitto di interessi ovvero, meglio, del confronto delle conoscenze e delle competenze. Stabilire e regolamentare come procedere alla formazione del governo in una democrazia parlamentare è un’operazione che può essere fatta conoscendo quasi esclusivamente le norme giuridiche da cambiare e da formulare oppure facendo affidamento sulle molte conoscenze politologiche di base: sistema dei partiti, loro natura, compiti del Parlamento, a cominciare dal rapporto con il governo, distribuzione dei voti, conoscenze che sono ovunque nelle altre democrazie parlamentari assolutamente decisive? Per le mie credenziali mi limito a citare il libro da me curato Capi di governi che contiene tutto il materiale comparato necessario a qualsiasi riformatore e apparentemente quasi del tutto sconosciuto agli estensori del testo e agli “auditi” fra i quali sono emersi l’ex-Presidente della Camera che equiparò i ragazzi di Salò ai giovani della Resistenza e alcuni giuristi renziani(ssimi). L’indispensabile citazione di Giovanni Sartori
“chi conosce un solo sistema politico non conosce neppure quel sistema politico”
valga come epitaffio. Ma è anche un modo di indicare la necessità di guardare altrove per vedere con il confronto che cosa è “normale” e che cosa è anomalo e per imitare/importare quello che funziona.
Per migliorare il testo nella sua versione in Senato abbiamo a disposizione quanto fatto e poi abbandonato in Israele, 1996, 1999, 2001, utile solo per tenersi alla larga da una soluzione che non ha funzionato. Alcuni volenterosi portatori d’acqua al mulino del premierato, sopravvissuti, ma non istruiti dal loro renzismo pancia a terra nel 2016, hanno offerto un pacchetto di riformette razionalizzatrici, tutte respinte dalla maggioranza. Interessante è che per fare brecci a nel Partito Democratico e immagino in Italia Viva e Azione hanno resuscitato Maurice Duverger (1917-2014). Chi era costui?
Giurista più che politologo, con un ambiguo e oscuro passato di vicinanza politica negli anni trenta del secolo scorso a gruppi di estrema destra sostenitori del Maresciallo Philippe Pétain, negli anni Cinquanta il Professor Duverger argomentò vigorosamente dalle pagine dell’allora prestigioso quotidiano progressista Le Monde per l’appunto l’elezione popolare diretta del Primo ministro come modalità di uscita dall’eterna palude (parole sue) della politica francese, in particolare quella della Quarta Repubblica. I premieratistini italiani tentano di rafforzare le loro credenziali ricordando che nel 1989 Duverger fu eletto al Parlamento europeo come indipendente nelle liste del Partito Comunista Italiano. Da tempo i volonterosi colpevolmente trascurano che Duverger, sconfitto dai riformatori gollisti che nel 1958 avevano installato la Quinta Repubblica, era rapidamente diventato e tuttora rimane il più autorevole cantore del semipresidenzialismo voluto e ottenuto dal Generale Charles de Gaulle. Quasi nessuno, poi, ricorda una frase rivelatrice pronunciata dal Generale-Presidente in occasione di una oscura crisi di governo italiana: “L’Italie en est à la Cinquième”, segnalazione di come risolvere le difficoltà della Repubblica parlamentare più simile nelle istituzioni e nel sistema dei partiti alla Quarta Repubblica francese, vale a dire passando al semi-presidenzialismo. Meloni ha rivelato di averne intrattenuto l’idea, abbandonandola poiché criticata in quanto sarebbe stato necessario cambiare il ruolo del Presidente italiano. Ripetutamente lei e i suoi corifei affermano che con la loro riforma il Presidente non perde i suoi attuali poteri.
A fronte di questa brutta e cattiva menzogna istituzionale trasecolo e barcollo. Appare innegabile e inevitabile che con il Premierato il Presidente della Repubblica perda i suoi due cruciali poteri istituzionali: nomina del Presidente del Consiglio e scioglimento/non scioglimento del Parlamento. Pena clamorosi e pericolosi scontri, dovrà nominare l’eletto/a dal popolo e, senza nessuno spazio di discrezionalità, dovrà accettare la richiesta di scioglimento proveniente dal capo del governo. Insomma, la fisarmonica dei suoi poteri perderà le due note qualificanti. Logica conseguenza di una riforma che introduce il premierato.
Secondo elemento: i due bersagli che il disegno di legge Meloni vuole colpire sono, rispettivamente, l’instabilità dei governi e la possibilità di governi cosiddetti tecnici. Sappiamo che l’Italia dal 1945 ad oggi ha avuto 68 governi, ma “solo” 31 capi di governo, alcuni in carica per molti anni come Alcide De Gasperi e Silvio Berlusconi, detentore del record di durata consecutiva, ma destinato a essere superato da Meloni. Uno sguardo comparato suggerisce che, da un lato, la stabilità in carica dei capi dei governi parlamentari non dipende affatto dall’elezione popolare diretta: Helmut Kohl 1982-1998; Angela Merkel 2005-2022; Felipe Gonzales 1982-1996; Margaret Thatcher 1979-1990; Tony Blair 1997-2007. Dall’altro, che la stabilità politica può facilmente diventare immobilismo, cioè può portare ad una situazione nella quale il capo del governo si limita a decidere il minimo possibile per non agitare le acque e per non rischiare di essere sostituito. Immobilismo.
Dal 1949, grazie ai Costituenti tedeschi, fra i quali non mancavano alcuni politologi, sappiamo che il voto di sfiducia costruttivo, è un efficacissimo strumento per, da un lato, evitare crisi di governo al buio, vero e proprio deterrente e, dall’altro, la chiave per produrre cambi di maggioranze e del Cancelliere senza vuoti di potere. Nella loro Costituzione fine anni Settanta, gli spagnoli brillantemente procedettero ad una razionalizzazione semplificatrice. Diventa Presidente del Governo il primo firmatario della mozione di sfiducia votata da una maggioranza contraria al Presidente del governo in carica. Incomprensibilmente, di questo non c’è traccia nel discorso sul premierato.
L’elezione popolare diretta serve anche a dare legittimità politica e istituzionale a chi viene eletto. Ma quale legittimità potrebbe avere un capo di governo eletto con il 30 per cento dei voti o poco più (anche meno)? La non previsione di una percentuale minima di voti, che comunque non dovrebbe essere inferiore al 40-45 per cento, è una ferita profonda.
Ancora, è ingiustificabile il rigetto del ballottaggio, previsto in sostanzialmente quasi tutti i sistemi politici nei quali si pratica l’elezione popolare diretta. Tuttavia, non può bastare, come sembra credere Antonio Polito, l’introduzione del ballottaggio, per accettare una mala riforma. Grave ferita alla legittimità politica deriva dalla previsione che il capo del governo possa essere sostituito da un altro esponente della sua stessa maggioranza già in Parlamento. Costui potrebbe addirittura minacciare e chiaramente ottenere lo scioglimento del Parlamento. Né può confortarci che bizantinamente si sia giunti alla regola simul stabunt simul cadent, mentre la regola dei presidenzialismi vigenti è declinata tutta al contrario: il Presidente non può sciogliere il Congresso, il Congresso non può sfiduciare il Presidente. Insieme stanno insieme rimarranno fino alla fine dei rispettivi mandati.
Da ultimo, in maniera del tutto impropria e inappropriata il disegno di legge costituzionale sull’elezione popolare del capo del governo pretende di dettare, alla faccia del principio della separazione delle istituzioni, anche la legge per l’elezione del parlamento stabilendo che alla coalizione che ha espresso e sostenuto la candidatura vincente andrà il 55 per cento dei seggi. Sulla costituzionalità di questa assegnazione di premi e di seggi non prevista e mai attuata da nessuna parte al mondo, in nessuna dei modelli di governo esistenti, lascio la parola al Presidente della Repubblica e alla Corte costituzionale.
La mia notazione finale è che né i premieratisti né i loro affannati followers sembrano consapevoli che il pregio maggiore delle democrazie parlamentari consiste nella loro adattabilità, nella capacità di affrontare in maniera flessibile le sfide al loro funzionamento grazie ad una mutevole distribuzione del potere politico e istituzionale fra i partiti che rispondono all’elettorato e danno vita a coalizioni parlamentari e grazie ai governanti e ai rappresentanti che sfruttano i loro ambiti di autonomia. Qualsiasi irrigidimento, come quello inevitabilmente derivante dall’elezione diretta del capo del governo, è pericoloso. Mentre non è detto che la rigidità ne rafforzi carica e azione, sicuramente lo espone a sfide esistenziali.
Come spesso capita a chi, non sapendone abbastanza e quindi non essendo in grado di valutare le alternative, è costretto a difendere l’esistente, il centro-destra si è arroccato.
Tutto considerato, il premierato si configura come una bruttissima innovazione, con forte sapore populista, ma qualitativamente inferiore ai pur già criticabili e criticati presidenzialismi, e nient’affatto un superamento delle democrazie parlamentari.
Le opposizioni impostino i loro lavori in Parlamento in chiave pedagogica che sia e diventi la premessa politica e culturale dell’indispensabile referendum oppositivo: il padre della difesa della democrazia parlamentare.
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