Quindici/B Techné Storie di media e società
Celestino Spada
Celestino Spada affronta analiticamente e con la solita ironia che lo contraddistingue la disamina delle recenti vicende che hanno caratterizzato il mondo dell’informazione e della comunicazione in Italia sino alla nomina a fine settembre del nuovo Consiglio di Amministrazione della Rai a fronte di quanto avvenuto in sede europea con l’approvazione della European Media Freedom Act. Secondo Spada “Le scelte del 26 settembre 2024 certificano l’alto grado di entropia della Rai attuale” mentre a suo parere “La costituzione materiale del servizio pubblico [deriverebbe da] intrecci e scambi fra pubblico e privato”. Prova ne siano “Le risorse da canone sottratte alla Rai nel silenzio dell’azienda, dei sindacati e della Commissione Parlamentare di Vigilanza”. Da qui quello che il Vice direttore di Economia della cultura chiama “Il Kombinat della fragilità dell’industria e della professione giornalistica in Italia” seguendo alchimie che ricordano “il sobrio e distaccato profilo di una tarda filiale di Piazzetta Cuccia”. L’articolo si conclude spiegando “Che cosa ci dice l’approvazione unanime dell’European Media Freedom Act da parte dell’Unione europea”: “Come mai – si chiede Spada – l’Unione “liberista”, “mercatista”, dei decenni trascorsi – e ancora oggi così chiamata dai sovranisti – cambia ora “casacca” in questo campo e si mette a “disciplinare, sorvegliare e punire” in un settore che attiene ai profili più intimi della sovranità di ciascun popolo, all’espressione e alla identità culturale, alla informazione e agli scambi comunicativi della radiotelevisione e della multimedialità?” Da questo interrogativo Spada tra la conclusione che “Di fatto, è come se l’Unione Europea dichiari il “fallimento del mercato” in questo settore”. Si potrebbe dire che “Bruxelles”, con l’EMFA […] affida “lo sviluppo di questi comparti, valido oggi e proiettato nel futuro, non alla creazione di uno o più “campioni” europei (come il Rapporto Draghi propone per altri settori e attività economiche), ma a quella che il generale De Gaulle ha chiamato a suo tempo “l’Europa delle Patrie”.
15 ottobre 2024
Prologo in terra
Il 24 luglio scorso, al termine della tradizionale cerimonia del Ventaglio, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha fatto presente ai giornalisti convenuti al Quirinale
“la lunga attesa della Corte costituzionale per il suo quindicesimo giudice. Si tratta di un vulnus alla Costituzione compiuto dal Parlamento, proprio l’istituzione che la Costituzione considera al centro della vita della nostra democrazia. Non so come lo si vorrà chiamare: monito, esortazione, suggerimento, invito. Ecco, invito, con garbo ma con determinazione, a eleggere subito questo giudice”.
La cosa naturalmente, riferita da tutti i media, si è saputa… ed è rimasta lì. Poi ci sono state le ferie d’agosto con la guerra in Ucraina, la siccità e la ricerca quotidiana di acqua in Sicilia nello sfascio delle infrastrutture civili regionali, la guerra in Medio Oriente…
Due mesi dopo, il 26 settembre scorso, la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica, riunite all’unisono, hanno eletto i componenti loro spettanti del Consiglio di Amministrazione della Rai. Lo stesso giorno, il Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’Economia e delle Finanze,
“ha deliberato di designare la nomina”
di altri due componenti del CdA, dei quali uno come nuovo Amministratore Delegato (Ad). Il 1° ottobre 2024 lo stesso CdA ha nominato il(la) presidente della Rai, mentre, come annunciato nei giorni precedenti dal suo Presidente, presso la 8ª Commissione del Senato sono stati
“incardinati tutti i disegni di legge che riguardano la riforma della Rai”.
I motivi di una performance istituzionale straordinaria per l’Italia
Sicché, in questo autunno 2024 è stato più facile mettere insieme la disponibilità ad horas e la volontà di “fare” delle istituzioni cui la legge affida la responsabilità del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale (Camera dei deputati, Senato della Repubblica, Governo – ministero competente e Consiglio dei ministri –, Commissione parlamentare competente), che convocare in seduta comune le Camere per eleggere un – uno – giudice costituzionale, e farlo. Come mai tanto coordinamento e tanto impegno istituzionale attorno e dentro la Rai, mentre continua il “vulnus alla Costituzione da parte del Parlamento” della Repubblica Italiana?
Considerati lo stato dell’impresa Rai in questa fase, con il CdA venuto a scadenza in giugno e le posizioni delle diverse parti politiche in Parlamento e nel Governo, si deve constatare che l’impulso maggiore a realizzare questa straordinaria performance istituzionale è venuto dall’Europa. In specie, per l’approvazione nello scorso mese di aprile del Regolamento 2024/1083 del Parlamento Europeo e del Consiglio – cosiddetto Media Freedom Act – che
“istituisce un quadro comune per i servizi di media nell’ambito del mercato interno”,
che entrerà in vigore l’8 agosto dell’anno prossimo. Basta leggere l’articolo 5 di questo Regolamento – “Garanzie per il funzionamento indipendente dei fornitori di media di servizio pubblico”[1] – per comprendere che da quella data verranno a valere anche nel nostro Paese una normativa e un quadro di riferimento molto diversi dalla legge e dalle prassi istituzionali e aziendali da anni consolidati attorno e dentro la Rai. Il rinnovo del CdA e l’avvio, nello stesso giorno, dell’iter parlamentare di riforma della legge vigente vengono a confermare il ruolo dell’Europa in questa vicenda.
Il primo Consiglio di Amministrazione composto solo da persone di provenienza Rai o di secondo mandato
Come di consueto, l’informazione relativa all’esito della votazione della Camera e del Senato ha associato il nome degli eletti ai relativi “partiti di riferimento”, quelli, cioè, che li hanno candidati. Che questa sia la caratteristica socioculturale saliente degli amministratori responsabili del servizio pubblico radiotelevisivo è da decenni acquisito nell’opinione, nei media e nelle istituzioni. Un dato cui, in questa circostanza, si è aggiunto un fatto segnalato dal nuovo amministratore delegato Giampaolo Rossi nella prima riunione del nuovo Consiglio di Amministrazione Rai:
“Questo è il primo da composto solo da persone di provenienza Rai o di secondo mandato, il che crea ‘un legame profondo con l’azienda’”[2].
Sicché, non solo la ragion d’essere e gli obbiettivi istituzionali politico-culturali e produttivi del servizio pubblico, affidati dalla legge al Parlamento e al Governo, sono l’affare dei partiti, di ciascun partito e continuano ad essere privatizzati nel rapporto fiduciario fra i partiti e gli eletti, ma la Rai, con questo CdA, viene a configurarsi oggi come una struttura di democrazia corporata in cui il ruolo e il mandato istituzionale – l’impegno e la responsabilità del perseguimento degli obbiettivi del servizio pubblico – si intrecciano con i profili e le relazioni professionali personali privati, acquisiti e mantenuti all’interno della stessa impresa che sono chiamati a governare.
C’è un profilo interno alla Rai di questa scelta del Parlamento e del Governo che stride non poco. Non più tardi dello scorso mese di aprile la Rai ha riconosciuto formalmente un nuovo sindacato di giornalisti, l’Unirai, rompendo il monopolio “sovietico” della rappresentanza di quei ruoli professionali da sempre detenuto dall’Usigrai: una conquista liberale e una buona notizia per il sindacato dato che
“il pluralismo delle voci può solo far bene a tutti”,
nel commento del suo segretario Francesco Palese[3]. Eleggere nel nuovo CdA un rappresentante storico dell’Usigrai colpisce e affonda la scelta di pluralismo sindacale appena fatta dalla Rai.
Ora, mentre per il gruppo parlamentare Alleanza Verdi Sinistra questo effetto collaterale dell’elezione del suo “candidato di riferimento” (come lo qualifica Rainews nel darne notizia) è stato e resta irrilevante, per l’impresa Rai (per i suoi dirigenti) tale non avrebbe dovuto essere. Sicché, per un verso, si è confermato in che conto il Parlamento e i responsabili Rai tengono oggi le ragioni dell’impresa pubblica (e della democrazia che di esse vive e della quale vivono) e, per l’altro, si è indotti a chiedersi che tipo di “superiore interesse” abbia spinto i partiti in Parlamento – almeno quelli che hanno votato – e anche il Governo, a compiere o a condividere di fatto quella scelta. Che, se non fosse chiaro, dà a una componente professionale – già rilevante nell’impresa di servizio pubblico: i giornalisti – e ad una particolare loro rappresentanza, l’Usigrai, la presenza diretta nel CdA Rai, con il potere quanto meno di condizionare le scelte di gestione e strategiche del servizio pubblico.
Le scelte del 26 settembre 2024 certificano l’alto grado di entropia della Rai attuale
Sono cambiate molte cose da quando la legge n. 103/1975 affidava la Rai al Parlamento e alle Regioni, considerati interpreti migliori, di quanto potesse essere il governo, dell’interesse nazionale connesso al servizio pubblico di radiotelevisione – sedici erano i consiglieri di amministrazione, quattro dei quali indicati dalla Conferenza delle Regioni[4]. Non solo perché la legge oggi in vigore, n. 220/2015, che la affida al Parlamento e al Governo, ha ridotto a sette i componenti del CdA, ma per l’assenza, fra i consiglieri eletti il 26 settembre scorso, di esponenti delle professioni e della cultura nazionale scelti perché capaci di contribuire a meglio misurare l’adeguatezza del servizio reso alla cittadinanza alle necessità attuali e di sviluppo della società italiana. Con le scelte del 26 settembre 2023 i partiti in Parlamento e il Governo hanno di fatto registrato la difficoltà attuale dell’azienda di servizio pubblico a sostenere incontri ravvicinati con, e ad essere guidata da, competenze e sensibilità sviluppate in altri settori della società italiana. Vale a dire: l’alto grado di entropia che caratterizza oggi la produzione e la comunicazione radiotelevisive in mano pubblica – il “servizio”, appunto, affidato alla Rai. Scelte di conservazione – negli scacchi si direbbe un “arrocco” – non di innovazione e rilancio in vista dei cambiamenti che l’entrata in vigore fra dieci mesi del Media Freedom Act verrà ad imporre.
Ruoli e titoli dei componenti gli organi dirigenti della Rai appena rinnovati
Alcune informazioni circa il merito delle scelte fatte il 26 settembre sono state date dalla stessa Rai sui ruoli professionali e i titoli degli eletti dal Parlamento: in un caso (giornalista Rai) la
“presidenza dell’Associazione della stampa romana, articolazione della Federazione Nazionale della Stampa Italiana (FNSI)”,
in un altro (ancora giornalista Rai) la presidenza nazionale della stessa FNSI dal 2007 al 2012, un terzo
“ha maturato una ventennale esperienza in Rai dove ha diretto Rai2 per poi diventare vicedirettore generale del Servizio pubblico”
e un quarto
“nel luglio 2021 è stato eletto dal Senato componente del CdA Rai uscente … e dal gennaio 2022 è membro del Consiglio di Presidenza e del Consiglio Generale di Confindustria Radiotelevisioni”.
Mentre, dei due consiglieri indicati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, Simona Agnes, figlia del non dimenticato direttore generale Rai Biagio Agnes, indicata per la presidenza, dopo esperienze di lavoro in imprese private e pubbliche è stata componente del CdA Rai uscente (eletta dalla Camera dei Deputati), mentre Giampaolo Rossi, il nuovo Amministratore Delegato, dal 2023 direttore generale di Rai Corporate, dopo aver svolto dal 2004 ruoli dirigenti in Rai, dal 2018 al 2021 è stato nel CdA Rai (anch’egli eletto dalla Camera dei Deputati) e dal dicembre 2018 è anche lui membro del Consiglio di Presidenza di Confindustria Radio Televisioni.
È singolare che, di tutte le professioni e competenze culturali di cui dispone un paese avanzato come l’Italia e fra tutte le candidature
“presentate nell’ambito di una procedura di selezione di cui all’art. 2 c. 6-bis della legge n. 220/2015”,
nel 2024 siano scelti soltanto giornalisti Rai e dirigenti Rai e di radiotelevisioni private a governare un servizio pubblico che sia all’altezza delle sfide culturali, produttive e di mercato che l’universo multimediale pone e sempre più porrà alla nazione italiana. Basta scorrere i mestieri e le professioni delle persone scelte dal 1976 a questa bisogna dal Parlamento e anche, dal 2015, dal Ministero dell’Economia e delle Finanze – economisti, scienziati, giuristi, storici, letterati, imprenditori, specialisti della comunicazione, magari anche con significative esperienze manageriali – per misurare il cambiamento intercorso in questi decenni nella considerazione della “società civile” da parte della politica e delle istituzioni responsabili. E il punto di arrivo che queste nomine costituiscono.
La costituzione materiale del servizio pubblico: intrecci e scambi fra pubblico e privato[5]
Come mai si è determinata una tale “riduzione della complessità” sociale e culturale? Escluso un accordo politico che coinvolgerebbe il Consiglio dei ministri, nella singolare convergenza delle scelte dei partiti in Parlamento e del Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) viene allo scoperto la “costituzione materiale” centrata sui partiti in Parlamento che da oltre quarant’anni regge le sorti della Rai: la costituzione materiale che è quanto di sociale e di culturale rimane oggi a connotare le persone cui è data la responsabilità istituzionale del
“servizio pubblico radiotelevisivo e multimediale”.
Anche a costo, come si può constatare, di determinare la situazione di conflitto di interessi in cui le nomine pongono alcuni degli eletti o indicati il 26 settembre scorso, dal momento che essere consigliere o addirittura Amministratore Delegato della Rai e membro del Consiglio di Presidenza di Confindustria Radio Televisioni implica la responsabilità di imprese fra loro concorrenti[6].
O, almeno, così è indotto a pensare chi limitasse la sua conoscenza delle “cose come stanno” in questo settore della vita nazionale all’offerta quotidiana delle reti e dei servizi di Rai, Mediaset, Sky, La7, Discovery Italia, Eutelsat, TV locali, Radio Locali, Telecom, Viacom, Rtl 102.5, Radio Italia, TV2000, Qvc, TIVU, Elemedia, HSE24, Prima Tv Dfree, Digicast, Giglio Group e SES S.A. (socio aggregato): imprese notoriamente in competizione fra loro sulle stesse risorse di produzione e sullo stesso pubblico. Le cose, evidentemente, non sono così semplici. Tutte queste (21) imprese sono riunite dal 2013 nell’associazione “Confindustria Radio Televisioni” di cui è presidente dal 2015 il giornalista Franco Siddi, dal 2007 al 2015 segretario nazionale della FNSI ed eletto dal Parlamento nel CdA della Rai nel periodo 2015-2018.
Sicché le nomine dei nuovi responsabili del servizio pubblico radiotelevisivo, con ruoli di responsabilità in quella associazione, si collocano nel solco di un’esperienza consolidata di intrecci e scambi fra pubblico e privato. Nei ruoli dirigenti e anche nelle risorse, se è vero come è vero che, a seguito dell’approvazione della legge n. 220/2015, dal 2016 una quota del canone televisivo[7] (cosiddetto canone Rai, la tassa pagata con la bolletta elettrica da chiunque possegga apparati di ricezione audiovisiva e multimediale) è dallo Stato data ai privati[8].
Le risorse da canone sottratte alla Rai nel silenzio dell’azienda, dei sindacati e della Commissione Parlamentare di Vigilanza
È singolare che questo storno di risorse pubbliche a favore di imprese private – rinnovato ogni anno dal 2015 nelle leggi finanziarie di tutti i governi che si sono succeduti da allora (Renzi, Gentiloni, Conte 1, Conte 2, Draghi, Meloni) – non abbia suscitato obiezioni di opinione sulla stampa e nelle radiotelevisioni, nessuna reazione sociale e neppure sindacale interna alla Rai o di confederazioni generali. Evidentemente la distribuzione di soldi pubblici ai privati in questo settore della vita nazionale non turba l’opinione condivisa degli italiani e delle loro rappresentanze sociali e politiche.
Ancor più singolare è che una tale assenza di reazioni, costante nel tempo, si sia registrata perfino da parte della Commissione Parlamentare “per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi (comunemente nota come Vigilanza Rai)” in presenza della sottrazione ogni anno di 270 milioni di introiti da canone alla Rai (sono le stime della Area Studi Mediobamca[9]) – che non solo compromette la capacità di investimenti in nuove produzioni, ma perfino l’equilibrio annuale dei conti dell’impresa pubblica di radiotelevisione. Quello che ha fatto osservare fra il 2021 e il 2023 alla stessa Commissione, che lo ha convocato in diverse audizioni, l’Amministratore Delegato Carlo Fuortes, indicato dal Governo Draghi. Le registrazioni di quegli incontri, disponibili online sul sito Commissioni-Web Tv Camera, danno l’opportunità, anche oggi, di cogliere l’imbarazzo e il silenzio dei parlamentari di fronte alle osservazioni sullo stato dei conti Rai da parte di un manager di provata esperienza in altre strutture della cultura. Per il Parlamento e per la Rai un’esperienza recente, che offre ulteriori possibilità di interpretazione di quanto detto dall’Amministratore Delegato Giampaolo Rossi circa la composizione del nuovo CdA Rai nel suo discorso di investitura del 1° ottobre, già ricordato.
Intermezzo necessario sui “corpi estranei” nella Rai… e che cosa ne è seguito
Ci sono già stati in questi decenni nel CdA e alla direzione generale della Rai altri “corpi estranei” ed è opportuno richiamare qui almeno un caso perché può dirci qualcosa del “qui e ora” dell’affaire Rai. Soprattutto le vicende successive al luglio 2014 quando, come
“logica evoluzione del progetto di digitalizzazione e del piano industriale già approvato”,
il CdA Rai – Presidente Anna Maria Tarantola – approvò le linee-guida del
“riposizionamento dell’offerta di news nel nuovo mercato digitale”,
il piano di ristrutturazione presentato dal Direttore Generale Luigi Gubitosi che prevedeva l’accorpamento delle testate e funzioni giornalistiche televisive (nella radio era già stato fatto) in due “news room” – mantenendo nel rapporto con il pubblico i marchi e i conduttori abituali dei telegiornali. Un cambiamento già programmato:
“Nella prima fase, nel 2015 e 2016, due news room, nella seconda, nel 2017, ‘Rai-informazione’, un’unica struttura”.
Una scelta che si imponeva considerando i punti di riferimento del progetto e la distanza che già allora si era scavata fra la Rai e i maggiori servizi pubblici europei, che avevano già ridotto la loro offerta di informazione broadcasting
“per affrontare meglio e con linee produttive e professionalità adeguate le sfide dell’informazione 2.0: della produzione originale e dell’offerta di contenuti digitali (anche di archivio) su social network, web e piattaforme per cellulari, i-Pad, eccetera”[10].
Alla decisione del CdA seguirono le proteste dell’Usigrai e l’immediata convocazione del Presidente e del Direttore Generale presso la Vigilanza Rai (Presidente Roberto Fico, poi, dal 2018 al 2022, Presidente della Camera dei Deputati)[11] che ne ascoltò la relazione sui costi di gestione, sulla moltiplicazione degli incarichi e l’entità degli organici giornalistici, l’offerta quotidiana di tg delle maggiori tv europee di servizio pubblico – 6 in Gran Bretagna, 7 in Francia e 12 in Italia) – le sfide della multimedialità e l’esigenza di rivedere le priorità nella allocazione delle risorse a disposizione della Rai. Il confronto Vigilanza/Rai durò mesi, fino alla scadenza del mandato del CdA e del Direttore Generale nel 2015 e non se ne fece nulla (il CdA successivo lasciò cadere il “Progetto 15 dicembre” com’era stato chiamato il piano). In compenso, come ricordato, il Governo e il Parlamento hanno ridotto le risorse da canone a disposizione del servizio pubblico dal dicembre 2015 (un anno davvero fatale per la Rai) dirottandole (in tutto o in parte?) all’associazione “Confindustria Radio Televisioni”.
Il Kombinat della fragilità dell’industria e della professione giornalistica in Italia
Tornando a oggi, è difficile ignorare – o considerarlo un effetto collaterale secondario – il fatto che le scelte dei partiti in Parlamento e del Consiglio dei ministri, circa i nuovi responsabili Rai, in qualche modo hanno riflessi nel gruppo dirigente di “Confindustria Radio Televisioni” (CRT), e questo ormai da un decennio senza risentire, a quanto pare, del frequente mutare delle maggioranze parlamentari e dei relativi governi. In sostanza, se non ci fossero tra i soci anche le filiali italiane di imprese mediali estere – Sky Italia, Discovery Italia, Viacom, eccetera – si potrebbe definire CRT un Kombinat dell’industria della comunicazione e della professione giornalistica italiane, che non ha la pompa e il carattere di una Corporazione integrata in un Regime, ma il sobrio e distaccato profilo di una tarda filiale di Piazzetta Cuccia, quali che siano i posizionamenti e l’alchimia di governo della rappresentanza politica democratica.
Poche cose come l’esistenza e il ruolo di questa associazione, la composizione dei suoi organi dirigenti e le risorse che riceve a questa maniera dallo Stato danno conferma dell’estrema fragilità attuale dell’editoria giornalistica italiana, imprese e addetti, nella carta stampata come nella radiotelevisione privata e nella multimedialità, dopo i decenni dell’affermazione competitiva – le imprese estere: per tutte Sky – e dell’adattamento, per i più, al dominio del duopolio pubblico/privato del broadcasting televisivo nel mercato italiano[12]. Tutte in affanno, proprio nell’ultimo decennio, per la competizione sulle risorse produttive e sul pubblico nazionale (e il relativo valore pubblicitario) delle piattaforme audiovisive internazionali online con i loro programmi e servizi e al contempo, a livello individuale e capillare, via dispositivi mobili, per il dilagare dell’accessibilità e dell’uso del tempo delle persone fin da bambini nei social network e nell’esperienza dei contenuti, prodotti e servizi dell’economia digitale (ad esempio i videogiochi), con le connesse ricadute pubblicitarie.
Finora, nonostante l’impegno in questa associazione di dirigenti “storici” della Federazione Nazionale della Stampa Italiana e di rappresentanti sindacali dei giornalisti, con i relativi imprenditori, il declino delle imprese e dei mercati dell’audiovisivo italiano non ha subito battute d’arresto e la prospettiva di cedimenti in questo comparto fondamentale della nostra vita nazionale è più che probabile. Sicché si capisce che sia prioritario vigilare sui livelli occupazionali e cercare di assicurare il versamento all’INPS dei contributi necessari a pagare le pensioni dei giornalisti oggi e nei prossimi anni[13].
Che cosa ci dice l’approvazione unanime dell’European Media Freedom Act da parte dell’Unione europea
L’attenzione finora dedicata all’European Media Freedom Act (EMFA) – tutta centrata sulla Rai e le scadenze che la riguardano (dieci mesi nella vita pubblica italiana possono essere anche nulla) – ha fatto trascurare l’aspetto più significativo delle scelte che vi sono sancite. Si tratta, come recita il testo, di
‘a new set of rules to protect media pluralism and independence in the EU’ – “Ancora regole, sempre regole dall’Europa!”
che, volte al prossimo futuro e oltre, tirano le somme dell’esperienza ormai secolare del broadcasting radiotelevisivo nei paesi europei e, per quanto attiene all’Unione, di quanto è seguito alla scelta fatta a Maastricht, nel 1992, di confermare la pertinenza della cultura e della comunicazione sociale alla primaria ed esclusiva competenza degli Stati nazionali.
Trent’anni dopo si cambia rotta e tutte le istituzioni dell’Unione europea si trovano d’accordo sulle regole cui attenersi d’ora in poi in questa materia. Regole che riguardano professioni e attività economiche (produzione e scambio sul mercato), ne indicano caratteri e condizioni di esercizio.
Che cosa è successo? Come mai l’Unione “liberista”, “mercatista”, dei decenni trascorsi – e ancora oggi così chiamata dai sovranisti – cambia ora “casacca” in questo campo e si mette a “disciplinare, sorvegliare e punire” in un settore che attiene ai profili più intimi della sovranità di ciascun popolo, all’espressione e alla identità culturale, alla informazione e agli scambi comunicativi della radiotelevisione e della multimedialità?
Non solo. Oltre a fissare regole in questo campo, l’Unione Europea intende
“ensure the independent functioning of public service media”:
cioè non esclude affatto – anzi, parte dal fatto[14]– che lo Stato in ciascun paese gestisca un’impresa appunto “pubblica” e si impegna ad
“assicurare l’indipendenza della sua attività”.
Di fatto, è come se l’Unione Europea dichiari il “fallimento del mercato” in questo settore, qualunque cosa intendano con questa espressione gli economisti delle varie scuole attivi e vigili a Bruxelles, a Strasburgo e a Francoforte. Sono minacciati – se si lasciano non governate le dinamiche dei mercati mediali e della multimedialità affidate finora alla pubblicità commerciale – il “pluralismo” e “l’indipendenza” delle imprese europee: vale a dire rischiano di essere comprate o fortemente condizionate – nelle loro attività di produzione e di offerta, come nei loro obbiettivi e scelte di gestione e sviluppo – da imprese più grandi che, nel libero mercato, possono essere europee come non europee, come oggi accade con le piattaforme digitali statunitensi e cinesi a livello continentale, la cui offerta, satellitare e via dispositivi mobili di comunicazione, raggiunge case e persone anche oltre i confini dell’Unione.
“Pluralismo” e “indipendenza” che in questo settore riguardano l’informazione come lo spettacolo e l’intrattenimento, i linguaggi e i formati della creazione artistica e professionale in tutti i campi, con i modi e i caratteri della loro comunicazione e interazione con il pubblico. Tutto ciò che nel corso dell’ultimo secolo ha sfidato e impegnato, in Europa e nel mondo, la tradizione e l’identità culturale di ciascun popolo alle prese con la modernizzazione dell’economia e della società e con gli sviluppi che le produzioni, gli scambi e i processi culturali e sociali così attivati hanno indotto nella vita di ciascuno e di tutti.
L’“Europa delle Patrie”, non uno o più “campioni europei” dell’audiovisivo e della multimedialità
Si potrebbe dire che “Bruxelles”, con l’EMFA, mentre (dopo la Brexit) si impegna a tutelare in ciascun paese il modello inglese di governo e gestione dell’impresa pubblica del broadcasting e della multimedialità, affida lo sviluppo di questi comparti, valido oggi e proiettato nel futuro, non alla creazione di uno o più “campioni” europei (come il Rapporto Draghi propone per altri settori e attività economiche), ma a quella che il generale De Gaulle ha chiamato a suo tempo “l’Europa delle Patrie”. Ciascuna con la propria lingua e cultura e identità nazionale – qualunque cosa questa espressione voglia o riesca a dire – e con i liberi apporti e nuovi che i creativi, le professioni e i produttori di ciascuna di esse saranno capaci di proporre giorno per giorno – con le news locali e nazionali (anche rilanciate nel mondo con canali internazionali) e con i formati, i linguaggi e gli stili comunicativi delle narrazioni nazionali, affidate alla cronaca, alle testimonianze, ai documentari, alla fiction proposte al pubblico nazionale e offerte negli scambi in Europa e nel mondo – una produzione e un’offerta plurale, emancipate dalla pubblicità che da oltre un trentennio in Italia disciplina anche le scelte editoriali e produttive dell’impresa di servizio pubblico[15] e sottratte allo spirito pubblico dell’“O di qua! O di là!”, l’orizzonte mentale della “seconda repubblica”, fossilizzato nella tripletta lottizzata dei tg, che ha escluso dagli obbiettivi e impedito fino ad oggi la coltivazione quotidiana, presso gli italiani, del sentimento della nostra comune cittadinanza[16]. Tg1, Tg2, Tg3, come simboli e come realtà, sono questo.
[1] Regolamento PE 2024/1083 cd. Media Freedom Act, art. 5: “l’indipendenza dal punto di vista editoriale e funzionale”, “l’imparzialità nell’offerta di una pluralità di informazioni e opinioni al loro pubblico”, “procedure di nomina e di licenziamento del direttore e dei membri del CdA finalizzate a garantire l’indipendenza” dei fornitori di media di servizio pubblico … che siano trasparenti, aperte, efficaci e non discriminatorie… e criteri trasparenti, oggettivi, non discriminatori e proporzionati stabiliti in anticipo a livello nazionale”, “procedure di finanziamento basate su criteri trasparenti e oggettivi stabiliti in anticipo e risorse finanziarie adeguate, sostenibili e prevedibili per adempiere la loro missione, assicurarne la relativa capacità di sviluppo e salvaguardarne l’indipendenza editoriale”.
[2] Antonella Baccaro, “Rai, staffetta ai vertici”, Corriere della sera, 2 ottobre 2024, p. 14.
[3] “Rai, accordo con Unirai: riconosciuto formalmente il nuovo sindacato dei giornalisti”, Rainews.it, 19 aprile 2024. L’8 ottobre l’Unirai ha annunciato per il 16 ottobre “una manifestazione sotto la sede di Viale Mazzini a Roma intesa a riaprire immediatamente le trattative per la regolarizzazione di tutti i colleghi giornalisti che operano nei programmi, inquadrati con contratti a partita Iva” (LaPresse, 8 ottobre 2024).
[4] La presenza nel CdA Rai di consiglieri designati dalle Regioni è stata eliminata dalla legge n. 10/1985 (di conversione del decreto cd. Berlusconi bis). In tempi di “autonomia differenziata” delle Regioni può essere interessante ricordare che nel 1992, richiesto dei motivi alla base della fondazione della Lega Nord affermatasi nelle elezioni di quell’anno, l’onorevole Umberto Bossi indicava fra essi quel cambiamento dell’organismo dirigente della Rai, una riprova per lui del carattere centralistico, “romano”, delle istituzioni nazionali.
[5] Un fatto ricorrente negli ultimi trent’anni in questo settore. Cfr. Celestino Spada, “Broadcasting: intrecci e scambi tra pubblico e privato”, Economia della Cultura, n. 1, gennaio-marzo 2003.
[6] La legge vigente, n. 220/2015 all’art. 2. “Disciplina della governance della RAI-Radiotelevisione italiana Spa”, che modifica il decreto legislativo 31/7/2005, n. 177, al comma 4 bis stabilisce per i componenti del CdA, “tenendo conto dell’autorevolezza richiesta dall’incarico, l’assenza di conflitti di interesse o di titolarità di cariche in società concorrenti”.
[7] Più volte nel corso dei decenni la Corte di Cassazione ha definito il canone per le radiodiffusioni una “imposta di scopo” – vale a dire un’imposta il cui gettito non può essere destinato se non agli obbiettivi specifici per i quali è stata istituita.
[8] È appena il caso di osservare che questa materia è rilevante per almeno un paio di Autorità, ma non risultano, in questi dieci anni, rilievi in materia da parte dell’Antitrust e di Agcom.
[9] L’Area Studi di Mediobanca valuta che la Rai incassa oggi circa l’86 per cento di quanto pagato dall’utente (era il 93 per cento nel 2013). In termini assoluti vuol dire una trattenuta di 270 milioni all’anno, dal 2016 data dallo Stato alle imprese private concorrenti. La Rai, intanto, continua a presentarsi ai cittadini come unica percettrice delle risorse da canone. V. online il “Decalogo” Rai.
[10] Per le informazioni e i dati Rai qui ripresi v. Celestino Spada, “Rai. Conflitti d’interesse”, Mondoperaio (9), settembre 2015. Quello che il Voce direttore di Economai della Cultira chiama
[11] Per la cronaca di quei mesi v. gli articoli di Goffredo De Marchis nella Repubblica del 7 agosto 2014 e di Maurizio Caverzan nel Giornale 18 nov. 2014: “Risparmi impossibili in Rai: vietato accorpare le testate”.
[12] Il sottosviluppo delle imprese e dei mercati dell’editoria giornalistica, dell’audiovisivo e della multimedialità italiana sul mercato interno è un dato strutturale da almeno quarant’anni. Cfr. Celestino Spada, “L’industria culturale italiana alla prova della modernità”, Economia della cultura, n. 4/, ottobre-dicembre 2007.
[13] La frequentazione quotidiana e la collaborazione fra giornalisti ed editori in quella sede potrebbero aiutare a evitare ogni tanto delle strane cose. Per esempio, quanto notato di recente da Carmelo Caruso a proposito della siccità in Sicilia e della situazione che ne conseguita. V. “La Sicilia di Meloni”, Il Foglio, 5/6 ottobre 2024: “In Sicilia si può dire che la destra ha finora beneficiato del silenzio della stampa”.
[14] Poiché in tutti i paesi dell’Europa continentale dagli anni Venti del Novecento opera un servizio pubblico del broadcasting – radiofonico prima e anche televisivo dagli anni 1950 –, la novità dell’EFMA è, appunto, che l’Unione Europea viene per la prima volta dal 1957 a normare in questa materia.
[15] Dal 1994 anche l’offerta radiotelevisiva della Rai – servizio pubblico di radiotelevisione – è stata decisa e disciplinata dal “palinsesto pubblicitario”.
[16] V. Celestino Spada, “L’Italia Unita nel broadcasting radiotelevisivo”, Economia della cultura, n. 4 ottobre-dicembre 2011.
SEGNALIAMO
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La caccia ai voti negli Stati in bilico, di Giampiero Gramaglia
Le campagne elettorali di Harris e Trump nella seconda decade di ottobre Giampiero Gramaglia Giornalista,co-fondatore…
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Scriviamo insieme una nuova narrazione sui migranti, di Pier Virgilio Dastoli
Un parere e un invito ad agire contro corrente Pier Virgilio Dastoli Presidente Movimento Europeo…
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Un caos europeo politicamente preorganizzato dal centro-destra, di Pier Virgilio Dastoli
Verso la formazione della seconda Commissione europea von der Leyen Pier Virgilio Dastoli Presidente Movimento…
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Brand Italia. L’indice di reputazione di una nazione
STEFANO ROLANDO PER DEMOCRAZIA FUTURA 1.Brand Italia. Quale è oggi il nostro posto in classifica?[1]…
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Il bastone di Sinwar
Emblema della guerra della connettività mobile1 Michele Mezza Docente di Epidemiologia sociale dei dati e…
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Il Centro estero del Partito Comunista d’Italia a Parigi, di Salvatore Sechi
Perché Sraffa si rifiutò di consegnare la corrispondenza di Gramsci Salvatore Sechi Docente universitario di…
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Una farsa classicamente comunista
Per Gramsci e il Comintern a uccidere Matteotti fu la politica dei “capi riformisti” Salvatore…
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Da cosa dipende la forza del governo di Giorgia Meloni, di Carlo Rognoni
Il governo Meloni ha fatto bene a Meloni. Ma non ha fatto altrettanto bene all’Italia…
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Il Mondo le rovina intorno, ma l’Europa s’accontenta di fare cabotaggio sui migranti, di Giampiero Gramaglia
Giampiero Gramaglia Giornalista,co-fondatore di Democrazia futura, già corrispondente a Washington e a Bruxelles Con un’insolita…
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Un risultato poco confortante, di Giulio Ferlazzo Ciano
I risultati del referendum e del primo turno delle elezioni presidenziali in Moldavia Giulio Ferlazzo…
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Un pioniere degli studi storici sulle forze armate, di Mimmo Franzinelli
La scomparsa di Giorgio Rochat (Pavia 1936 -Torre Pellice 2024) Mimmo Franzinelli, Storico del periodo…
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Alla ricerca dell’ultimo voto per conquistare i grandi elettori degli Stati in bilico, di Giampiero Gramaglia
Giampiero Gramaglia Giornalista,co-fondatore di Democrazia futura, già corrispondente a Washington e a Bruxelles Secondo florilegio…
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Luigi Einaudi e il neoliberismo. Un ossimoro?, di Salvatore Sechi
Salvatore Sechi Docente universitario di storia contemporanea Anticipiamo la relazione che il nostro collaboratore, Prof. Salvatore…
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Forse a un punto di svolta il conflitto in Medio Oriente, di Giampiero Gramaglia
Situazione di stallo in Ucraina mentre a Taiwan crescono le tensioni1 Giampiero Gramaglia Giornalista,co-fondatore di…