Riflessioni su un agosto caldo non solo climaticamente
Quindici/A Hermes Storie di geopolitica – Mondo
Guido Barlozzetti
Conduttore televisivo, critico cinematografico, esperto dei media e scrittore
Guido Barlozzetti analizza “La guerra a combustione lenta”. Un contributo di riflessioni su un agosto caldo non solo climaticamente con l’omicidio a Teheran del leader di Hamas Ismail Haniyeh, seguito dall’annuncio dell’Iran “di una dura risposta nei confronti della “gang criminale sionista (che) non rispetta alcuna regola o legge”. “Assistiamo cioè a un gioco delle parti – commenta Barlozzetti – per cui si attacca e dunque ci si deve aspettare una risposta e tutto ciò accade in una dislocazione temporale, con una separazione netta tra un prima e un poi che ricorda, sia detto nella consapevolezza delle differenze, una pratica della comicità del cinema muto.
Vi ricordate Stan Laurel e Oliver Hardy che se la prendono con un vicino che assiste alla loro provocazione, li lascia fare per tutto il tempo che è necessario per concluderla e poi a sua volta reagisce, mentre i due che pure sono le vittime restano immobili. E così via, nel cinema di quel tempo questa tecnica si chiamava slow burn, una combustione lenta, una spirale che via via si accentua fino a raggiungere un punto limite”.
29 agosto 2024
Una volta si chiamava guerra ma sta diventando qualcosa di diverso. Ne ha le manifestazioni, terribili e spietate, i comportamenti, i palazzi sventrati, i morti, spesso civili e inermi esposti alla crudeltà di un attacco che non discrimina nulla. E però sono le procedure che stanno cambiando. Se cioè i contenuti continuano a essere drammaticamente gli stessi, sono i modi che cambiano e i modi non sono un accessorio, sono sostanza.
Assistiamo infatti a una sorta di rituale inedito e sorprendente che porta a domandarsi come si stiano riorganizzando le relazioni anche quelle più frontali e contrapposte fra le nazioni, e se e come questo cambiamento venga a modificare il concetto stesso di “guerra”.
Prendiamo quello che sta succedendo tra Iran e Israele.
Il primo atto è un’esplosione che a Teheran uccide Ismail Haniyeh, capo dell’ufficio politico di Hamas. Nessuno rivendica, gli Stati Uniti si dissociano, in ogni caso per il regime degli ayatollah è un affronto inaccettabile non solo che qualcuno venga a eliminare il rappresentante di un’organizzazione politica che viene riconosciuta e sostenuta contro il nemico giurato di Israele, ma che ciò sia accaduto nel territorio di per sé inviolabile di un Paese che come tale dovrebbe assicurare protezione e sicurezza.
Il secondo atto è conseguente, l’Iran annuncia “una dura risposta” nei confronti della “gang criminale sionista (che) non rispetta alcuna regola o legge”. Non dice né come, né quando. Fa un annuncio che resta sospeso, una minaccia incombente di cui non si conoscono scadenze. Arriverà, sicuramente, perché a azione deve corrispondere reazione, come se ci fosse un tacito codice, condiviso da entrambi i contendenti.
Assistiamo cioè a un gioco delle parti per cui si attacca e dunque ci si deve aspettare una risposta e tutto ciò accade in una dislocazione temporale, con una separazione netta tra un prima e un poi che ricorda, sia detto nella consapevolezza delle differenze, una pratica della comicità del cinema muto.
Vi ricordate Stan Laurel e Oliver Hardy che se la prendono con un vicino che assiste alla loro provocazione, li lascia fare per tutto il tempo che è necessario per concluderla e poi a sua volta reagisce, mentre i due che pure sono le vittime restano immobili. E così via, nel cinema di quel tempo questa tecnica si chiamava slow burn, una combustione lenta, una spirale che via via si accentua fino a raggiungere un punto limite.
Israele e Iran stanno facendo lo stesso, sanno ciascuno che l’altro reagirà, lo mettono in conto e aspettano il proprio turno. Non è un caso che Israele abbia già annunciato una reazione a quella che sarà la reazione dell’Iran. Insomma, non siamo in presenza di una guerra frontale, non c’è uno scontro diretto e tutto accade nella distanza consentita dall’uso dei droni, degli aerei e dei missili, adesso tocca a me e poi a te e poi a me.
D’altronde, era già successo qualche mese fa. Gli Israeliani avevano bombardato il consolato dell’Iran in Siria, sedici persone erano morte, l’intera catena in Siria del Corpo delle Guardie della Rivoluzione islamica, i cosiddetti pasdaràn, e poi avevano replicato con una base nello stesso territorio iraniano. Non succede nulla, monta una situazione di tensione che prelude a una reazione che infatti arriva tredici giorni dopo, quando trecento tra droni e missili vengono lanciati contro il territorio israeliano. È un attacco massiccio ma non ultimativo, come se si fosse decisa una misura oltre la quale non si doveva andare, una manifestazione simbolica che non doveva oltrepassare il limite, uno spettacolo doveva dire di una potenza che non resta inerte e tuttavia si trattiene.
Adesso ci stiamo a domandare quale sarà l’entità della risposta che Teheran darà all’uccisione di Haniyeh, se e quanto salirà di livello, se si conterrà in una misura o se invece produrrà un’escalation.
“Stiamo proseguendo verso la vittoria. Siamo preparati sia per la difesa che per l’attacco”
ha affermato intanto e preventivamente il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu. La guerra a combustione lenta continua e si cadenza secondo un vero e proprio rituale in cui il valore simbolico è altrettanto e forse più importante della stessa efficacia delle azioni che si compiono. Si continua a morire, a Gaza, in Cisgiordania, sulle alture del Golan, bambini, civili e militari, e il paradosso è che tutto avviene all’interno di una cerimonia: un ping pong in cui si mostrano i muscoli all’avversario e si tira un elastico. Fino a quando?
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