Un “compromesso senza compromettersi” o una coppia di fatto con interessi convergenti?
Quindici/A Hermes Storie di geopolitica – Europa
Alberto Toscano
Giornalista e scrittore già Presidente dell’Associazione della stampa estera a Parigi
Alberto Toscano ricostruisce le tappe che dopo la dissoluzione del Parlamento in seguito alle elezioni europee, il risultato a sorpresa delle elezioni politiche ha portato alla scelta di un governo “Basato su una coalizione di centrodestra (l’area macronista più i gollisti del partito dei Républicains, con l’aggiunta di qualche deputato trovato per strada), il nuovo governo spera nel sostegno di almeno 220 deputati su un totale di 577. La maggioranza assoluta dell’Assemblea nazionale è a quota 289 e Barnier deve dunque cavarsela in condizioni particolarmente difficili, contando sul fatto che la Costituzione francese (a differenza di quelle di molti altri paesi democratici) non impone a un governo il voto di fiducia del Parlamento come condizione per assumere la pienezza dei propri poteri”.[1]
24 settembre 2024
Dunque la fumata è bianca, con qualche sfumatura di grigio. La Francia ha un primo ministro e tanti dubbi. Michel Barnier è un politico di grande esperienza, che in Europa ha gestito dossier complicati. Ma la sua nomina, da parte del presidente Emmanuel Macron, è germogliata su un terreno avvelenato da recriminazioni, anatemi e sospetti. Governo e maggioranza non sono tenuti insieme da chiare scelte strategiche né dalla fiducia reciproca tra i loro membri (alcuni dei quali non si darebbero appuntamento neanche per un pastis). Sono tenuti insieme dal desiderio di evitare il peggio e di prepararsi al dopo. Soprattutto sono tenuti insieme da un divieto costituzionale (Macron non può convocare altre elezioni legislative anticipate prima del giugno 2025) e da una necessità assoluta: trasmettere nel giro di pochi giorni a Bruxelles le scelte francesi in tema di bilancio.
Un governo bisognava pur trovarlo. I membri di quello nato il 21 settembre 2024 hanno preferito un compromesso tra loro che un viaggio (o una permanenza) all’opposizione. Dal canto suo, Michel Barnier è andato il 22 settembre alle 20 al telegiornale di France 2 per spiegare ai connazionali che la parola compromesso non ha niente a che vedere col verbo compromettersi. Affaire à suivre….
Basato su una coalizione di centrodestra (l’area macronista più i gollisti del partito dei Républicains, con l’aggiunta di qualche deputato trovato per strada), il nuovo governo spera nel sostegno di almeno 220 deputati su un totale di 577. La maggioranza assoluta dell’Assemblea nazionale è a quota 289 e Barnier deve dunque cavarsela in condizioni particolarmente difficili, contando sul fatto che la Costituzione francese (a differenza di quelle di molti altri paesi democratici) non impone a un governo il voto di fiducia del Parlamento come condizione per assumere la pienezza dei propri poteri.
Il primo ministro francese Michel Barnier
Ai due punti chiave del suo vero programma (sopravvivere il più a lungo possibile e preparare il prima possibile la legge finanziaria per l’esercizio 2025), Michel Barnier aggiungerà alcune idee gradite al suo popolo: misure contro il carovita e ritocchi alla legge sulle pensioni, voluta da Macron contro venti, maree e scioperi generali. La riforma è stata appena varata e siamo già alla riforma della riforma.
Il punto chiave è il bilancio. La Francia di oggi è un paese ben diverso da quello, poco indebitato, che al vertice europeo di Maastricht del dicembre 1991 si accordò con la Germania per proporre-imporre al resto dell’Europa comunitaria le condizioni per l’ingresso alla futura moneta unica.
La Francia di allora pensava di poter rispettare senza particolari difficoltà i nuovi precetti collettivi: debito al 60 per cento del Pil e deficit della finanza pubblica al 3 per cento. Invece no. Oltrepassata la linea rossa, la Francia di oggi fa compagnia all’Italia nel gregge delle pecore nere. Ha un debito superiore al 110 per cento del Pil e un deficit dalle parti del 5,5 per cento. In termini assoluti, il debito pubblico francese, che si aggira sui 3.100 miliardi di euro, è persino superiore a quello italiano, che sfiora i 3.000 miliardi (ma che in rapporto al Pil supera il 137 per cento). Al di là del rispetto o meno delle regole europee, questa litania di cifre pesa sulle spalle del contribuente, visto che la perdita di credibilità di un governo (e dunque di uno Stato) viene pagata a caro prezzo al momento di rifinanziare il debito pubblico attraverso l’emissione di buoni del tesoro. L’Italia paga ogni anno circa 85 miliardi di euro di interessi ai suoi creditori, mentre la Francia (finora considerata più affidabile dalle agenzie di rating e dai mercati finanziari) ne paga circa 50 miliardi. È inutile studiare i possibili tagli alla spesa pubblica o riformare le pensioni se poi si buttano via i miliardi per pagare una valanga di interessi sul debito pubblico.
Qualunque governo francese, di qualsivoglia colore, avrebbe in questo momento il compito fondamentale di cimentarsi (come ogni governo italiano ed europeo) con i problemi del bilancio. Solo che il governo minoritario di Michel Barnier deve farlo in modo particolare. Non potendo sottoporre la legge di bilancio al voto dei deputati, che la boccerebbero all’istante, deve usare l’astuto metodo del «49/3», facendo approvare il budget con lo stratagemma incastonato nell’articolo 49 della Costituzione.
Probabilmente la legge di bilancio non sarà neanche votata dall’Assemblea. I deputati potranno solo votare una mozione di censura in condizioni per loro molto complicate. La «fiducia parlamentare» (meglio dire sfiducia) alla francese è un aggeggio istituzionale congegnato per mettere in difficoltà le opposizioni. Votano solo i deputati favorevoli alla censura, che devono raggiungere la maggioranza assoluta dei membri dell’Assemblea. In questo modo, e solo in questo modo, i governi macronisti (che potevano contare su 250 deputati su 577) hanno fatto approvare le leggi più controverse degli ultimi due anni. In questo modo, e solo in questo modo, il governo del nuovo primo ministro Michel Barnier (ancor più debole) potrà presumibilmente far approvare la fondamentale legge di bilancio e quasi tutte le sue altre proposte politicamente significative.
E poi? Per immaginare il dopo occorre ripensare al «prima». La nascita del governo Barnier è l’ultimo atto di una prova di forza ingaggiata da Macron la sera di domenica 9 giugno. Macron ha preso il microfono mentre le tv stavano ancora diffondendo i risultati elle elezioni europee: un colpo durissimo per la coalizione fedele all’Eliseo e composta dai macronisti storici di Ensemble, dal MoDem di François Bayrou e da Horizons di Edouard Philippe. Quel discorso presidenziale, con cui Macron ha annunciato a sorpresa lo scioglimento dell’Assemblea e la convocazione di elezioni legislative anticipate a brevissima scadenza, è un momento chiave dell’attuale bufera politica francese.
Dopo aver denunciato la
«febbre che ha colto il dibattito pubblico e parlamentare negli ultimi anni nel nostro Paese, un disordine che, lo so, vi preoccupa, a volte vi sconvolge, e al quale non intendo cedere»,
il Presidente ha affermato che le sfide del momento, ovvero
«le sfide che dobbiamo affrontare, siano essi i pericoli esterni, il cambiamento climatico e le sue conseguenze, o le minacce alla nostra stessa coesione»
esigono
«chiarezza nei nostri dibattiti, ambizione per il paese e rispetto per ogni francese».
Di qui le elezioni legislative anticipate: per «chiarire».
Su un punto – forse uno solo – è stata costruita una «chiarezza nel dibattito»: l’intesa che lo schieramento macronista e quello di sinistra (Nouveau Front Populaire, composto dalla France Insoumise, socialisti, comunisti e Verdi) hanno raggiunto tra i due turni delle elezioni anticipate (30 giugno e 7 luglio) per ostacolare insieme, con un accordo sulle desistenze, l’avanzata del Rassemblement national (RN) di Marine Le Pen.
Poi gli sviluppi politici hanno rimesso in discussione anche quel punto.
Tra luglio e agosto Parigi e la Francia hanno ospitato le riuscitissime Olimpiadi. I sogni d’oro dello sport hanno compensato ogni frustrazione dei popoli, finalmente esaltati dalla gloria dei loro campioni e dalle note dei loro inni nazionali.
Vien da chiedersi perché mai l’Eliseo non abbia sciolto l’Assemblea nazionale dopo i Giochi, il cui successo avrebbe potuto avvantaggiare la coalizione macronista.
Il nervosismo politico è comunque riesploso dopo le deliziose notti mezza estate all’ombra della mongolfiera delle Tuileries. La nuova Assemblea (riunitasi nel corso dell’estate solo per l’elezione della sua presidenza) è divisa in tre blocchi tra loro ostili:
- Nouveau Front populaire (NFP) con 193 seggi,
- coalizione macronista con 166 seggi
- e coalizione lepenista (RN più ex Républicains di Eric Ciotti) con 142 seggi.
La sola vera prova di forza dell’aritmetica elettorale è venuta il 18 luglio con la rielezione, quale presidente dell’Assemblea, della macronista Yaël Braun-Pivet, che allo scrutinio decisivo ha raccolto anche i voti dei Républicains (47 seggi), sconfiggendo il candidato delle sinistre.
Lucie Castets candidata del Nouveau Front Populaire
È stata la prova generale della nuova coalizione di governo.
In un primo tempo, Macron ha rifiutato di nominare prima ministra Lucie Castets, la candidata scelta per questo posto dal NFP. La domanda s’impone. Perché il presidente non ha dato la sua fiducia alla coalizione che, avendo ottenuto più seggi, poteva legittimamente considerarsi come vincitrice delle legislative?
Prima risposta: perché questa coalizione non aveva la maggioranza assoluta.
Replica: ma nessuno l’aveva e il NFP aveva comunque la maggioranza relativa.
Seconda risposta: perché gli altri partiti avevano già annunciato il loro voto a una mozione di censura, che sarebbe dunque passata, rimandando a casa Lucie Castets.
Questo è probabilmente vero, ma c’è dell’altro. Il voto di censura a Lucie Castets sarebbe venuto alla ripresa dei lavori parlamentari, ossia in ottobre 2024, ma nel frattempo la prima ministra del NFP avrebbe potuto varare disposizioni e decreti invisi a Macron. Di qui il «niet » del presidente della Repubblica e dei suoi consiglieri.
Il ragionamento è discutibile, ma una cosa non lo è affatto: le urne del 7 luglio hanno portato più confusione che chiarezza. Per di più, lo scioglimento dell’Assemblea ha privato Macron di una fondamentale arma politica, visto che la Costituzione gli impedisce di ripetere quella mossa prima di un anno. Il solo risultato positivo delle elezioni anticipate è stata la mancata maggioranza lepenista all’Assemblea. Ma per ottenerlo sarebbe bastato non sciogliere l’Assemblea.
Il «niet» di Emmanuel Macron a Lucie Castets è stato accompagnato dalla ricerca sempre più affannosa di un potenziale primo ministro, mentre il malcapitato Gabriel Attal continuava a fare i bagagli al suo ufficio all’Hôtel Matignon.
Macron ha tentato di spaccare la Gauche, isolando Mélenchon e approfittando del radicalismo di alcuni esponenti della France insoumise. L’ipotesi di un governo di centrosinistra, che appunto spaccasse la Gauche, era plausibile e c’era anche l’uomo giusto per incarnarla: l’ex primo ministro socialista Bernard Cazeneuve, ideale per rianimare la sinistra pragmatica in contrapposizione con quella radicale. Il vertice socialista ne ha discusso e si è espresso con un voto. Pollice verso all’ipotesi Cazeneuve con 38 voti contro 33. Un «niet» da una parte e un «niet» dall’altra. Uno a uno e palla al centro.
L’ipotesi seguente è stata quella di un governo di centrodestra guidato dal gollista Xavier Bertrand, uomo di destra che Marine Le Pen considera come un suo nemico giurato. Questo ha segnato il destino della candidatura Bertrand perché la censura a un suo eventuale governo avrebbe ottenuto uno tsunami di voti, di sinistra e di estrema destra.
Emmanuel Macron e Marine Le Pen
In questo clima si è fatta avanti l’ipotesi Barnier, contro il quale il RN non sembra per ora deciso a votare la censura. Dal punto di vista di Marine Le Pen, che nel corso di questo autunno sarà sotto processo a Parigi per «appropriazione indebita di fondi europei», non sarebbe una buona cosa se la crisi politica precipitasse proprio adesso, portando magari alle dismissioni di Macron e a presidenziali anticipate. Le recenti legislative sono state un campanello d’allarme per la Le Pen. Hanno mostrato i problemi del RN, che adesso ha bisogno di tempo per migliorare un apparato politico ancora rudimentale, da cui spuntano manifestazioni ideologiche deleterie sul piano della comunicazione preelettorale (oltre che su quello morale).
Per Marine Le Pen, i prossimi mesi sono un’occasione di «normalizzazione» dopo la tempesta del 7 luglio, quando il RN è stato messo all’indice da gran parte degli altri partiti.
Oggi Marine Le Pen ha bisogno di due cose: limitare i danni del suo imminente processo e soprattutto mandare in pezzi il «soffitto di cristallo», che continua a impedire al suo partito di incassare i dividendi dalla propria popolarità in seno alla società profonda (quasi undici milioni di elettori al primo turno delle ultime legislative e primo partito nazionale per numero di suffragi espressi). Il soffitto di cristallo non è scritto nelle leggi, ma al momento cruciale ci si accorge dei suoi effetti e il RN si sente isolato dalla politica che conta.
Marine Le Pen vuole cambiare questa situazione.
In parte è già riuscita a far dimenticare il colpo ricevuto il 7 luglio a seguito dell’intesa sinistra-macronisti. Barnier non può essere in alcun modo accusato di simpatie lepeniste, ma è comunque stato nominato da Macron all’Hôtel Matignon anche grazie al fatto che Marine Le Pen ha rinunciato a promettergli un voto di censura.
Ha rinunciato fino a quando? Questo nessuno lo sa, ma è chiaro che la nuova situazione politica rimette l’estrema destra dentro i giochi di potere.
Immaginiamo lo scenario di una mozione di censura presentata dalle sinistre contro il governo Barnier nei primi mesi del 2025. A Marine Le Pen basterebbe votarla per scatenare una crisi politica nazionale, che potrebbe concludersi – dopo mesi di consultazioni e discussioni – con nuove elezioni legislative nella seconda metà dell’anno.
Se per contro il RN continuasse a non votare le mozioni di sfiducia, si configurerebbe una situazione di vero sostegno oggettivo al governo.
Un conto è non votare la prima censura, dicendo di voler dare a Barnier il tempo di mettere in pratica le proprie scelte. Un altro sarebbe non votarne mai nessuna. In ogni caso è chiaro che, con un’Assemblea divisa e quasi ingovernabile, un blocco di 142 voti non può che esercitare un peso reale nelle dinamiche parlamentari.
Tutto questo interessa chi scrive e chi legge i giornali. Interessa però relativamente poco alla coppia di timonieri del transatlantico Francia. Emmanuel Macron e Michel Barnier nutrono tra loro una certa diffidenza, ma sanno che in questo momento possono solo vincere insieme o perdere insieme. Sono una coppia di fatto con interessi convergenti.
Le eventuali dimissioni di Michel Barnier prima della fine di quest’anno innescherebbero una crisi politica che provocherebbe problemi di ordine sia finanziario sia istituzionale. Più passeranno i mesi e più l’impatto di quella ipotetica crisi sarà ridimensionato dalla possibile uscita di sicurezza del nuovo scioglimento dell’Assemblea nazionale. A quel punto gli interessi di Macron e Barnier potrebbero anche cominciare a divergere.
Certo questo contesto politico non aiuta né la Francia né l’Europa.
La Francia è forse entrata in una sorta di campagna elettorale permanente: europee del 9 giugno 2024, legislative anticipate (30 giugno – 7 luglio 2024), legislative anticipate nel 2025, municipali nel 2026 (con una battaglia molto aperta per il controllo di Parigi e delle altre metropoli) e, dulcis in fundo, presidenziali nel 2027.
Macron non può ricandidarsi.
Per Marine Le Pen e Jean Luc Mélenchon sarà probabilmente l’ultima occasione per realizzare il sogno di una vita. Avranno una possibilità presidenziale soprattutto se saranno proprio loro a qualificarsi per il secondo turno delle presidenziali. Anche i loro destini potrebbero essere legati. Fantapolitica? Può darsi, ma intanto ogni scenario merita di essere immaginato.
Parigi val bene una messa in guardia.
[1]“L’appunto di Alberto Toscano”, Altritaliani.net, 23 settembre 2024. Cfr. https://altritaliani.net/lappunto-di-alberto-toscano-settembre-2024-francia-e-nuovo-governo-barnier/.
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