VINCENZO BELLINI 1801 – 1835

Il Bellini è un cocktail a base di frullato di pesca e prosecco creato nel 1948 da Cipriani, proprietario dell’Harry’s Bar di Venezia, per l’inaugurazione della mostra del pittore Giovanni Bellini. Questo Bellini è buono ma non ci serve.

Poi c’è il Bellini delle cinquemila lire, andate fuori corso nel 2002. Questo invece fa al caso nostro: è lui, Vincenzo, un compositore italiano tra i più celebri dell’Ottocento.

E, collegato al suo nome, c’è di più: un conservatorio, un teatro e un aeroporto a Catania. Un teatro anche a Napoli. Un piatto della cucina regionale siciliana (la pasta alla Norma). Una varietà di fungo (il suillus bellinii). Un film intitolato “Casta diva”. Un asteroide (il 18509 Bellini).

Ultima curiosità: quasi tutto quello che sappiamo di lui ci viene dalle moltissime lettere che scrive per tutta la vita al suo amico e compagno di studi Francesco Florimo.

Cominciamo. Vincenzo nasce a Catania, figlio e nipote d’arte: papà compositore minore, nonno rinomato autore di musiche sacre. Nel ’19 il comune di Catania (segno che fin dall’inizio è riconosciuto meritevole) gli dà una borsa di studio per il conservatorio di Napoli. Arriva al porto stremato da cinque giorni di navigazione tempestosa, avendo rischiato il naufragio.

Nel ’26 il primo successo operistico con la prima delle dieci opere che compone in dieci anni: “Bianca e Fernando”, reintitolata “Bianca e Gernando, per non mancare di rispetto al re Ferdinando di Borbone (il che dimostra che la stupidità cortigiana era fiorente anche allora).

Questo successo gli porta le commissioni del famosissimo impresario Barbaja per il Teatro alla Scala, (puntualmente seguite da altrettanti clamorosi trionfi). E Vincenzo se ne parte per Milano dando il via alla sua brillantissima e brevissima carriera, ma lasciandosi alle spalle Maddalena Fumaroli, la ragazza di cui era innamorato e il cui padre gliela aveva negata; non gli piaceva questo matrimonio con un “suonatore di cembalo”. Poi, quando arrivano la fama e i soldi, il papà furbacchione cambierà idea, ma è troppo tardi: Vincenzo ormai non pensa che alla musica.

Ma la vera svolta è Parigi. Qui Bellini sale al massimo livello. Conosce Chopin e Liszt, diventa il pupillo di Rossini; con loro raffina tecnica e gusto. Verdi gli riconosce originalità rispetto ai suoi contemporanei e lo colloca in una nicchia solo per lui. Wagner, che raramente apprezza qualcuno che non sia sé stesso, è affascinato dalla sua capacità di abbinare la musica al testo e alla psicologia. Produce un gioiello dopo l’altro, la Norma, la Sonnambula, i Puritani. Entra nelle case di tutti i francesi e poi di tutti gli europei. Ma ci rimane davvero poco, perché, ad appena 34 anni se ne va stroncato da un’infezione intestinale, anche se c’è un sospetto, sicuramente infondato, di avvelenamento. A testimonianza della sua fama, i concittadini non lasceranno il suo corpo a Parigi: qualche anno dopo lo rivogliono a Catania, dove oggi si trova.

Bellini ha il merito di essere fra i primi a dare importanza e a intervenire sul libretto dell’opera, che fino ad allora veniva imposto al compositore, insieme al soggetto, dall’impresario e spesso affidato a un qualche immeritevole e scadente dilettante locale.

Tanto è vero che, una volta trovato nel poeta Felice Romani il compagno perfetto di un’intesa creativa, non lo abbandona più e in questo modo rende indispensabile e obbligatorio salire a un livello sempre più raffinato della parte letteraria, per sé e per gli altri operisti. Finalmente si comincia a stare attenti prima di mettere in musica testi che fino a quel momento erano stupide accozzaglie di parole antiquate, ridicole, squilibrate da accenti spostati, se non inventate per l’occasione.

Per Vincenzo “il dramma per musica deve far piangere, inorridire, morire cantando”. E infatti, tanto perfetta è questa unione che Romani, morto Bellini, non scriverà mai più una riga per il teatro d’opera.

All’epoca non c’era la fotografia e le banconote o i ritratti sono poco fedeli. Ma abbiamo una descrizione di Heine che ci pare abbastanza precisa, comunque suggestiva: “Egli aveva una figura alta e slanciata e si muoveva graziosamente e in modo civettuolo. Viso regolare, piuttosto lungo, di un rosa pallido, capelli biondi, quasi dorati, pettinati a riccioli radi, fronte alta, molto alta e nobile. Naso dritto, occhi azzurri, bocca ben proporzionata, mento rotondo. Anche il suo passo era virginale, elegiaco, etereo”. Fin qui tutto bene, ma ecco la punzecchiatura. “Bellini parlava francese molto male, anzi orribilmente, scelleratamente, catastroficamente, da cane dannato. Mentre lui era convinto di dire le cose più serie ed innocenti un silenzio di morte e nello stesso tempo una voglia convulsa di ridere regnava nei saloni”.

L’egocentrico, ipocondriaco Rossini sarà colui che, con sorpresa di tutti, (ne sarebbe stato sorpreso anche lo stesso Bellini che non valutava più di tanto il loro rapporto di amicizia) uscirà dalla sua proverbiale pigrizia per occuparsi dell’imbalsamazione del corpo e del cuore dell’artista e per aprire una sottoscrizione per il funerale che, celebrato nella Cappella degli Invalidi, il luogo più solenne di Parigi, riesce imponente, con il feretro seguito e il defunto pianto da tutti gli artisti della città e da migliaia di cittadini comuni.

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