Sulla Fondazione Gramsci e l’intellettuale secondo David Bidussa
Sedici/A Hermes Storie di geopolitica – Italia
Salvatore Sechi
Docente universitario di storia contemporanea
In un articolo che parte da un commento secondo il quale, a causa della crescita dell’astensionismo, “Le elezioni regionali in Emilia-Romagna e Umbria lasciano debole la sinistra”, Salvatore Sechi prende spunto dal saggio di David Bidussa Pensare stanca. Passato, presente e futuro dell’intellettuale, per constatare come sia “venuta meno l’idea […] che gli intellettuali servano a qualcosa. Gli esponenti politici (da Giorgia Meloni a Matteo Salvini, con qualche signorile riserbo da parte di Antonio Tajani, per non parlare dell’opposizione mattacchiona e perennemente icona dell’antifascismo-che-non-passa) non se ne servono”. L’articolo “Stanco o non serve più?” analizza quello che lo storico sardo definisce “Il rifugio degli intellettuali nelle fondazioni” invitando nella fattispecie quelli dell’Istituto Gramsci: “fate i conti con la storia tragica del vostro partito”, da un lato e dall’altro fate i conti storicamente “con il tentativo di immissione nella cultura della sinistra italiana dello zdanovismo” e, infine, sul piano pratico, denunciando l’operato delle fondazioni, con “la riduzione della cultura a moneta di scambio per azioni, non di rado manifestazioni plateali di conformismo, incentivi e compensazioni per carriere”.
20 novembre 2024
Visto qui da Bologna, una città che ha allevato la grandezza del fascismo oceanicamente plaudente o (apparentemente) il suo pargolo opposto, il comunismo in fattezze sovietiche su scala casereccia, il ceto degli intellettuali ha cessato di essere tale. Non è sopravvissuto a nessuna delle narrazioni in cui David Bidussa, con mano sempre impeccabilmente colta e impietosa, ne ripercorre l’iter storico tra la fine dell’Ottocento e l’odierna massiccia frantumazione: Pensare stanca. Passato, presente e futuro dell’intellettuale[1].
Quale influenza hanno avuto gli intellettuali sull’élite politica? Molto meno di quanto si pensi. Al punto tale che si può rovesciare la domanda, cioè chiedersi quanto il potere politico dei comunisti abbia influenzato e condizionato la casta degli intellettuali.
Le elezioni regionali in Emilia-Romagna e Umbria lasciano debole la sinistra
Oggi, un giorno dopo le elezioni, un approccio di risposta possiamo leggerlo. Sono oltre il 50 per cento i cittadini di Bologna che si rifiutano di servirsi della scheda. Dunque, né la fitta rete delle scuole, degli istituti e dei centri culturali di ogni misura di cui i comunisti hanno seminato il territorio del capoluogo dell’Emilia-Romagna, né la leadership di una giovane intellettuale come Elly Schlein (cioè il Pd), due anni dopo le primarie che l’hanno incoronata alla testa del popolo della sinistra, sono riusciti a riportare al voto la maggioranza più uno di esso.
Infatti, in Emilia-Romagna, l’affluenza si ferma al 46,4 per cento rispetto al 67,6 per cento del 2020. In Umbria la sosta è al 52,3 per cento rispetto al 64,7 per cento delle ultime regionali.
Dunque, come due anni fa, la lotta politica ha cessato di avere come epicentro le elezioni, l’espressione del voto. Si è rassegnata a non rappresentare la maggioranza dell’elettorato.
Chi pratica questa forma di contestazione sia da destra sia da sinistra non si riconosce più nella forma della democrazia fondata sui partiti. Il futuro si gioca sulle scelte che rispetto alla scheda e al conteggio dei voti verranno fatti.
È un po’ ingenuo, fatuo e anche falso abbandonarsi a celebrazioni come ha fatto il neopresidente della Giunta regionale emiliana Michele De Pascale (lui sì esponente di una nuova generazione). L’esito delle elezioni non segna un cambiamento politico-antropologico, né offre un progetto alternativo di qualità di governo. Si può solo dire che, dopo le regionali in Sardegna, la sinistra ha visto confermato al minimo storico il proprio insediamento (e, si può dire, per l’Emilia-Romagna, conservatore, trattandosi di una replica dell’esistente da circa tre decenni) e ha strappato alla destra una vecchia conoscenza come l’Umbria.
Questo esito, né per gli intellettuali, né per i politici, in nessun modo lo si può scambiare per una proposta di innovazione programmatica alternativa alla maggioranza di Palazzo Chigi.
Oltre il successo a Bologna e a Perugia c’è una strategia da mettere a punto. La crisi dei Cinquestelle è diventata inesorabile, la presenza di Matteo Renzi e Carlo Calenda non assomiglia a un atto di rifondazione. Tutti e tre i leader, con lo scarsissimo consenso registrato, hanno offerto con queste elezioni une messaggio di debolezza nella costruzione di una opposizione unita e solidale.
Un trumpismo all’Italiana? Per l’opposizione è un cantiere aperto (non può essere identificato nell’attestarsi tenacemente alla difesa di Volodymyr Zelen’skyj), e anche per diversi esponenti della destra (a cominciare dalla Lega, il partito che Matteo Salvini sta portando al naufragio) il cambio di casacca nelle alleanze internazionali non può prescindere da un dato ineliminabile: l’Europa per gli Stati Uniti è un mercato di 450 milioni di consumatori.
Il rifugio degli intellettuali nelle fondazioni
È venuta meno l’idea, è anzi diventato un pregiudizio, che gli intellettuali servano a qualcosa. Gli esponenti politici (da Giorgia Meloni a Matteo Salvini, con qualche signorile riserbo da parte di Antonio Tajani, per non parlare dell’opposizione mattacchiona e perennemente icona dell‘antifascismo-che-non-passa) non se ne servono.
A dire il vero, vi ricorrono sempre meno frequentemente, per calibrare qualche citazione o inscenare qualche esorcismo.
Coerentemente tutti i governi, locali e nazionali, investono sempre meno nella scuola di ogni ordine e grado. Gli istituti cadono a pezzi e garantire una stabile scorta di docenti non è un rovello politico straziante.
Le stesse università, dove in genere non si è mai discusso, tantomeno polemizzato, vegetano curando la rendita spartitoria tra patriarcati e camarille. Diciamo pure che muoiono di una poco invidiabile nobiltà per mancanza di fondi e sempre più, non di rado, di micidiale e straripante penuria di idee.
A Bologna non è mai stato in agenda, e ha avuto occasioni assolutamente contingenti, lo scambio e il confronto di idee tra l’ateneo a quattro stelle della John’s Hopkins University e la locale Alma Mater. Una dialettica necessaria e proficua, clamorosamente mancata.
I membri del ceto intellettuale hanno, dunque, per destino (assai fortunato se c’è qualche amorazzo con qualche signora di visibile presenza) quello di infilarsi in qualche talk show televisivo o fare la coda o la ruota come in angiporti come le fondazioni private. La si spunta più facilmente non all’Istituto De Gasperi o alla Fondazione Luigi Einaudi, ma alla sezione locale della Fondazione Istituto Gramsci di Roma.
Se, oltre a curare i buoni rapporti con la burocrazia politica – gustando il piacere del lecca-lecca – sopravvissuta all’estinzione del Pci, si è stati qualche stagione all’estero, si può ambire a scalarne la presidenza. Non per migliorare la qualità del servizio culturale offerto agli elettori e soprattutto alla gran massa dei non votanti, ma per non correre il rischio di perdere la risorsa conquistata, si è creata una bella copertura chiamata comitato scientifico.
Gli archivi del PCI
Chi ne fa parte, anche a Roma, non risulta prendano mai la parola per esprimere una critica o marcare compiacimento e adesione. La loro virtù più apprezzata è, come nelle riunioni di partito, il silenzio. Perciò, nominarli è un look per far sapere in giro di avere molta autorevolezza e godere di consenso. Assomigliano ai santi che in statue lignee nei paesi del sud e delle isole si usava portare in giro per avere meno siccità e prevenire un’invasione massiccia di cavallette.
Ma si cambia, e in quello di Bologna, al di là del presidente Paolo Capuzzo, non si conta la presenza di molti altri storici. Alla loro assenza si è voluto rimediare attingendo a studiosi poco o nulla conosciuti o a vecchie nicchie dell’estrema sinistra, non solo italiana. È un investimento fiduciario appena avviato, da cui potrebbero venire anche sorprese finora mancate.
Il Gramsci come gli altri istituti intitolati a Palmiro Togliatti, Alcide De Gasperi, Luigi Sturzo, Luigi Einaudi, Ugo La Malfa, Aldo Moro, eccetera sono sul mercato. Vanno, perciò, valutati per il loro rendimento, cioè programmi di ricerca, pubblicazioni, attività seminariale, convegnistica e rapporto con un mondo che si trasfigura in mille modi.
In realtà questo metro di giudizio non può essere loro applicato per una ragione. Mi riferisco al fatto che la selezione dei gruppi dirigenti (direttori, presidenti, comitati scientifici) non avviene per concorso pubblico, ma solo per cooptazione. A operarla sono strutture politiche, cioè i partiti di afferenza dei soggetti istituzionalizzati in fondazioni.
Poiché sono finanziati dallo Stato, dalle Regioni e dai Comuni, è un esempio di sopraffazione partitocratica di elementari regole che la gestione di risorse pubbliche non venga regolata da una selezione in qualche forma e misura super partes del personale dirigente.
Grazie a questa deformazione di elementari principi di buona amministrazione e di trasparenza, mediante i quali si cerca di salvaguardare l’uguaglianza dei cittadini, la tendenza dei direttori e dei presidenti, come degli assolutamente ininfluenti comitati scientifici, è di privilegiare attività volte al passato, al come eravamo. Per lo più corrispondono alle attese e alle domande politiche di chi li ha nominati.
Una proposta agli intellettuali dell’Istituto Gramsci: “fate i conti con la storia tragica del vostro partito”
Pertanto, piuttosto che un convegno su un tema cruciale negli anni Trenta come il totalitarismo sovietico e Victor Serge, Hannah Arendt, Ignazio Silone e lo stesso Gramsci, si preferisce imbandire la tavola preannunciando qualche ricognizione sull’ex sindaco Renato Zangheri.
Mi chiedo, essendo malizioso quanto basta, se si avrà il coraggio di denunciare la sua lealtà filosovietica quando volle liquidare – in quanto “eroe negativo” – il suicidio dello studente cecoslovacco Jan Palach di fronte all’aggressione dell’Armata rossa.
Rispetto ad un convegno sul genocidio del popolo ucraino (studiato esemplarmente da Andrea Graziosi) e sulla spartizione coloniale degli Stati sul mar Baltico in seguito al patto – benedetto da Togliatti – tra Molotov e il ministro degli esteri hitleriano von Ribbentrop organizzati da Stalin verso la fine degli anni Trenta (al centro delle importanti ricerche di Antonella Salomoni[2]), non sembra un’alternativa la riflessione recentissima sul più modesto ancora Antonello Trombadori.
La sua biografia, e il rilievo che ha avuto per un certo periodo nel gruppo dirigente è uno specchio doppio. Da una parte della scarsa considerazione che Togliatti aveva del ceto dei colti, e, dall’altro, dell’estrema pervasività che le informazioni e le proposte di un funzionario di partito avevano presso i suoi componenti.
Gli intellettuali dell’Istituto Gramsci non sono mai riusciti a fare i conti con la storia tragica del loro partito di riferimento e la storia del socialismo riformista e in generale del liberal-socialismo. Al pari dei socialisti che rischiano di vedere finire nel nulla il loro passato (di qui la necessità di un convegno comune), e non hanno mai dato una giustificazione non solo dell’alleanza, ma addirittura del fronte comune con i comunisti.
Negli anni Trenta era noto a tutti che a Mosca era stato installato un regime assolutamente oppressivo, una macchina micidiale e inesorabile di dispotismo che Stalin puntava ad esportare ovunque, servendosi dei socialisti.
L’antifascismo – non solo da Togliatti ma anche da Pietro Nenni – fu la bandiera usata per esorcizzare, anzi esecrare, ogni analisi che raffrontasse la natura di fratelli siamesi che era comune ai regimi di Hitler e Mussolini come di Stalin.
Basterebbe riflettere sul congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura, tenuto a Parigi nel 1935 (sul quale Bidussa si sofferma con continui ed efficaci richiami) per datare un esempio di tradimento in grande stile degli intellettuali. Non fu una scelta facile, ma non si tenne in gran conto la testimonianza impetuosa di Victor Serge sul carattere distruttivo di ogni libertà e di ogni progresso arrecato dai bolscevichi in Urss.
Scelsero di diventare se non ascari, vittime non certamente inconsapevoli dei comunisti sovietici, nell’illusione che libertà e ricerca della verità fossero state spente per un breve lasso di tempo e potessero avere un qualche asilo nell’immenso territorio che dai confini europei si spingeva verso la Cina. A dominare fu, se non la convinzione tortuosa, la quasi disperata speranza che la gigantesca e infernale macchina russa della repressione e dello spionaggio fosse da preferire a quella non meno orrenda del nazi-fascismo
“Fate i conti con il tentativo di immissione nella cultura della sinistra italiana dello zdanovismo”
Un’altra pagina di scarsa e nulla autonomia fu il tentativo di immissione nella cultura della sinistra italiana dello zdanovismo. Davvero non vale la pena di parlarne?
A carico dei bilanci delle fondazioni si suole stampare gli atti presso editori che diano nell’occhio e quindi costosi (come il Mulino, Viella, Laterza, Carocci eccetera).
Il referente non sembra essere l’opinione pubblica, tantomeno il mercato. Piuttosto il cerchio ristretto della leadership locale o nazionale delle forze e delle istituzioni politiche che stanziano i bilanci e coprono le spese.
Dunque, la riduzione della cultura a moneta di scambio per azioni, non di rado manifestazioni plateali di conformismo, incentivi e compensazioni per carriere.
Per restituire i favori, gli intellettuali assecondano due malvezzi.
Il primo è la prassi invalsa, ripresa dai riti dei partiti, di far seguire le cosiddette “conclusioni” a convegni in cui sono esposti i risultati di ricerche. Com’è inevitabile, esse sono seminate non di rado non da giudizi uniformi, ma da dubbi, e quindi incertezze, anche contraddizioni o soluzioni aperte. La riflessione storica è sempre un cantiere aperto, in movimento. Non produce certezze, verità indiscutibili.
Il secondo si chiama politica delle porte girevoli. Si tratta di un’accusa mossa dai comunisti ai democristiani. In realtà è una sindrome ossessiva per cui i parlamentari alla fine dell’attività politica ad ogni livello delle assemblee elettive vengono cooptati negli organismi dirigenti di istituzioni culturali. È il caso dell’Istituto Parri di Bologna, dove è stato collocato l’ex sindaco di Bologna on. Virginio Merola. A Piacenza, presso l’Istituto per la storia della Resistenza, è stato alloggiato un noto un ex presidente della Regione Emilia-Romagna ed ex parlamentare comunista che vive a Roma come Pierluigi Bersani. Non pare che gli manchino gli spazi e le risorse personali, cioè la capacità, per impiegare bene il tempo libero dall’azione parlamentare.
[1] David Bidussa, Pensare stanca. Passato, presente e futuro dell’intellettuale, Milano, Feltrinelli, 2024
[2] Antonella Salomoni, Il protocollo segreto. Il patto Molotov-Ribbentrop e la falsificazione della storia, Bologna, il Mulino, Bologna, 2022
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