RIPENSANDOCI

di Beppe Attene

Evento: CAGLIARI, 24 giugno, ore 18

Erano gli anni ’50 quando nacque e si diffuse il concetto di “familismo amorale”.

Nato dalle ricerche di un sociologo americano in un paesino della Basilicata metteva in luce il disinteresse (se non il rifiuto) per i bisogni di carattere collettivo cui corrispondeva un’attenzione sistematica e quasi morbosa per gli obiettivi dell’ambito privato e famigliare.

Le cause di questo atteggiamento diffuso, considerato tipico del Mezzogiorno d’Italia, si ritrovavano nella Storia d’Italia e nella arretratezza economica e sociale.

Ovviamente il familismo amorale si trasformava, alla luce di questa analisi, da effetto in causa rendendo più difficili le forme di sviluppo generale che avrebbero generato miglioramenti anche sul piano delle condizioni individuali.

Per restare alle formule tipiche della analisi si creava un percorso di “causazione cumulativa” in cui scompare la distinzione fra causa ed effetto.

Anche su questa base Aldo Moro, in un discorso non casualmente tenuto a Bari, esplicitò organicamente la teoria della Democrazia Cristiana come grande e necessario ponte fra questa diffusa arretratezza e le Istituzioni.

La DC, anche in virtù del suo organico rapporto con la Chiesa di Roma, si poneva dunque come garante del progressivo inserimento e riconoscimento dello Stato da parte di una gran parte del popolo italiano che veniva, per la prima volta nella sua Storia, chiamato ad una esposizione democratica.

A questa funzione di rappresentanza e di guida il partito cattolico aggiungeva, anche in virtù di solidi rapporti internazionali, la assoluta non discutibilità del proprio rapporto con la giovane Repubblica e le sue codificazioni istituzionali.

Molto importante era questo punto anche perché altre cospicue porzioni di elettorato erano altrettanto negativamente orientate, per quanto non a causa del familismo amorale.

La base del Partito Comunista continuava in gran parte a vivere e a riconoscersi nell’Unione Sovietica, guardata con amicizia e speranza.

E, se è ben vero che i vertici nazionali si sforzavano di dare prova di attaccamento alla nuova Italia, generalmente le strutture intermedie coccolavano silenziosamente i sogni dei militanti di base.

D’altra parte, quando nel ’56 i carri armati russi invadevano Budapest l’Unità titolava “Da una parte della barricata in difesa del socialismo”.

Cosa doveva pensare il compagno di base? Quella era la vera linea strategica, il resto era solo tattica.

Un’altra parte, fortunatamente minore, di elettorato italiano riteneva anch’essa di avere validi e ideali motivi per non riconoscersi nello Stato Italiano nato il 2 Giugno del ’46.

Reduci della Repubblica Sociale e della Carta di Verona, fascisti sinceramente mussoliniani convinti di avere operato nel ventennio per il bene dell’Italia, giovani e giovanissimi portati a condannare quel “tradimento” commesso da un popolo che in un giorno abbandonò il capo sino a quel momento osannato.

Un universo non vastissimo ma diversificato che incontrava nel volersi distinguere quella parte di popolo italiano che non aveva abbandonato il campo monarchico e sabaudo.

Un quadro assai complesso, insomma, in cui fortunatamente l’Italia ricavava dalla contrapposizione fra il blocco sovietico e quello statunitense una sorta di protezione che la difendeva dalle “attenzioni “della Francia e della Gran Bretagna.

Poco propense, queste due Nazioni, a riconoscere all’Italia che le aveva aggredite il passaggio da Nazione sconfitta ad alleata da non disturbare.

Per complicare ulteriormente le cose PCI e PSI, alleati in questo con gli odiati fascisti, avevano sconfitto l’eroico tentativo portato avanti da De Gasperi per dotare l’Italia di un sistema elettorale non soltanto democratico ma anche funzionale e insieme rappresentativo.

En passant, molto più democratico delle schifezze in cui faticosamente navighiamo oggi.

Ma che importa? C’era un grande Paese da ricostruire.

Il boom degli anni ’50 era largamente in grado, grazie al miglioramento delle condizioni di vita, di trattenere ed esprimere al suo interno gran parte delle forme di non riconoscimento che l’Italia si portava dentro e dietro.

Ma nell’entanglement della Storia nulla si perde e nel modificarsi delle condizioni riappaiono gli effetti dei percorsi non elaborati.

Con gli anni ’60 arrivano i primi grandi rinnovi contrattuali. La dinamica dello scontro di classe riprende, nelle nuove condizioni, quel ruolo che fascismo e postfascismo avevano fattualmente ridotto.

’63, ’66 e ’69. Già, alla “lotta operaia” si aggiunge (al grido di “Ma che colpa abbiamo noi”) l’espressione del non riconoscimento nel contesto esistente delle cosiddette masse giovanili.

È un attimo. Il non riconoscimento diventa adesione alla lotta armata sia di destra che di sinistra.

Si tratta di un fenomeno assai più vasto di quanto non ci dica ancora oggi la formalizzazione giudiziaria.

Una sera di molti anni fa tentammo, Enrico Deaglio ed io, di calcolare quante persone conoscevamo che avrebbero aiutato o coperto un eventuale brigatista rosso in fuga o in difficoltà.

A metà del territorio italiano eravamo già ad oltre 15.000. A quel punto decidemmo di andare a mangiarci una pizza. Quell’ acqua, che pure conoscevamo, era troppa anche per noi.

Il rapimento di Aldo Moro è, al di là del suo aspetto meramente militare, il turning point di questo complesso percorso. Quello in cui tutto poteva succedere, o almeno così sembrava.

Nasce lì il cuore della azione craxiana.

Nasce alla luce della consapevolezza di quanto sinora velocemente raccontato.

Esprime in forma politica ed istituzionale l’esigenza di unire la rappresentanza dei bisogni e delle istanze presenti nel Paese con il riconoscimento effettivo nelle strutture collettive.

Craxi, in un colpo, cancella la strumentalità con cui i vari Partiti di massa (compreso il PSI) si erano rapportati le complessità e le contraddizioni italiane per sfruttarle a fini elettorali.

È una splendida, e insieme drammatica, corsa frenetica. Il segno generale è che gli interessi peculiari e particolari vanno gestiti nel quadro e nel senso degli interessi generali.

Tutto indica quella direzione.

“W l’Italia” di Francesco De Gregori che conclude un vittorioso congresso socialista.

Il Decreto di San Valentino, che trasforma un automatismo salariale in una strategia economica a favore di tutti.

Sigonella, certamente, a mostrare al mondo che il suolo italiano è gestito ed affidato al controllo delle Istituzioni Italiane.

E così via, sempre sino alla fine e al discorso sui meccanismi di finanziamento dei Partiti italiani.

Condannato a vedere e dire la verità, insomma.

Come sia andata a finire ben lo sappiamo.

Con la caduta del Muro di Berlino si estingue quella sorta di area protetta in  cui all’Italia era stato permesso vivere in quegli anni difficili.

Il golpe giudiziario abbatte la Prima Repubblica per sostituirla con un susseguirsi di situazioni in cui riprendono forza le prassi di rappresentazioni di parte prive di uno schema basato sull’interesse generale e sul bene comune.

L’Italia dei particolarismi torna ad essere il terreno di gioco e di auspicata conquista delle più vicine nazioni europee.

L’abbandono delle urne da parte dei cittadini – elettori diventa la nuova forma espressiva del familismo amorale. Ma, tanto, alle nuove forze politiche non gliene può importare di meno.

Cittadini e rappresentanza democratica paiono nuovamente destinati ad incontrarsi solo su bisogni parziali e su istanze negative rivolte contro altri.

Ripensandoci sembra di capire che forse non poteva che finire così.

Ma, come abbiamo già detto, la Storia è come la Casa: nasconde ma non ruba.

Nulla impedisce di pensare che la testimonianza di quella quindicina di anni (dal ’76 ai primi anni ’90) non possa riemergere ad indicarci ancora una volta che un altro mondo è possibile.