Ho sentito il dovere di offrire al più grande teologo del nostro tempo un modesto e umile omaggio, per ricambiare con la divulgazione tutta la ricchezza che la lettura delle sue opere mi ha donato nel tempo. Comincerò col noto testo intitolato Lo spirito della liturgia, che ancora oggi merita sicuramente di essere letto, meditato e interrogato. Raccogliere e sviluppare tutte le sollecitazioni di un testo tanto denso e ricco non è un compito semplice da prendere a cuor leggero. Proverò dunque a selezionare i concetti che sono risultati per me più stimolanti nella ferma convinzione, però, che tanta strada ancora c’è da fare per riuscire a cogliere integralmente la gran mole di raffinati pensieri che le opere del Papa emerito contengono.
Ratzinger imbastisce una riflessione assai significativa sulla dimensione relazionale della liturgia. È facile constatare come durante la celebrazione liturgica (se pure ancora esiste una dimensione relazionale della liturgia nel nostro tempo così desacralizzato e liquido nel quale è proprio la categoria di relazione ad essere scomparsa) una vera relazione difatti non si crea. Non si crea antropologicamente tra i presenti all’assemblea, ma non si crea teologicamente nemmeno con Dio. Basterebbe domandarsi quante persone, nella nostra società liquida e deprivata dei valori fondamentali, si riuniscono in assemblea sentendo visceralmente l’appartenenza comune alla fratellanza universale per ipotizzare, pur nella più rosea delle prospettive sperate, una risposta deludente. Allo stesso modo dovremmo poi domandarci quanti, invece, non considerando adeguatamente quel Dio che, a ben vedere, dovrebbe essere il fondamento dell’azione liturgica:
Che tipo di realtà troviamo allora nella liturgia? Possiamo dire anzitutto che chi elimina Dio dal concetto di realtà è solo apparentemente un realista. Egli astrae da Colui in cui noi «viviamo, ci muoviamo e siamo» (At 17,28). Ciò significa che solo se il rapporto con Dio è giusto anche tutte le altre relazioni dell’uomo – quelle degli uomini tra di loro e dell’uomo con le altre realtà create – possono funzionare. (p. 16).
Nel passo appena riportato Ratzinger esplicita in modo assai chiaro l’intersezione del piano umano con quello divino che dovrebbe realizzarsi nel culto, essendo quest’ultimo un certo tipo di rapporto con Dio. La perdita della dimensione relazionale orizzontale contribuisce ad una forma di desertificazione emotiva dell’uomo e alla radicalizzazione di un individualismo profondo e, in un certo senso, anche alla perdita di Dio. Gli uomini, cioè non amandosi gli uni con gli altri non riescono nemmeno a restare nell’amore di Dio. Senza la dimensione dell’amore, elemento centrale e costitutivo della religione cristiana neotestamentaria, Dio – e in particolare Cristo, che ne è la più perfetta manifestazione agapica – viene smarrito con il rischio che la liturgia collassi su sistema di pratiche, spesso incomprese e spiritualmente vuote. È ancora Ratzinger a ricordarlo:
L’uomo non può «farsi» da sé il proprio culto; egli afferra solo il vuoto, se Dio non si mostra. Quando Mosè dice al faraone: «noi non sappiamo con che cosa servire il Signore» (Es 10,26), nelle sue parole emerge di fatto uno dei principi basilari di tutte le liturgie. Se Dio non si mostra, l’uomo, sulla base di quell’intuizione di Dio che è iscritta nel suo intimo, può certamente costruire degli altari «al dio ignoto»; può protendersi con il pensiero verso di lui, cercarlo procedendo a tastoni. Ma la vera liturgia presuppone che Dio risponda e mostri come noi possiamo adorarlo. (p. 17).
Esistono in sostanza due percorsi paradigmatici che conducono l’uomo alla dimensione della trascendenza. Quello che si basa esclusivamente sulle forze dell’uomo e sulla spinta che la consapevolezza della mancanza e del difetto genera in modo propulsivo. Tale spinta propulsiva è l’eros, vale a dire l’amore cosiddetto greco-platonico che trova nel Simposio del grande filosofo ateniese la sua descrizione più alta e pregnante. Esiste poi un altro percorso che conduce l’uomo alla Trascendenza, ma la spinta questa volta non è antropocentrica ma teocentrica, e prende il nome di ἀγάπη. Il cristianesimo non contempla la staticità della divina che per essere raggiunta necessita di uno sforzo tutto umano. Sebbene già Platone nel Fedone auspicava prima della seconda navigazione un aiuto divino per meglio percorrere la strada verso la trascendenza, è solo con la religione cristiana, e in particolare con l’evento epocale della Rivelazione che l’uomo viene raggiunto da Dio che, in Cristo, manifesta la sua spinta agapica infinita. Cristo è dunque centro della Rivelazione, centro della storia della salvezza, centro della Chiesa e centro, infine, della liturgia. È la comunione con Cristo il fondamento spirituale della liturgia che, sotto questa luce, più che ortoprassi banalmente reiterata, assume invece la fisionomia di una relazione viva e continuamente vivificante. Il culto, pertanto, altro non è che la risposta umana all’automanifestazione di Dio, sotto il segno di una relazione viva, intensa e reciproca (per l’appunto personale):
Se dunque tutto deve essere ricondotto all’alleanza, allora è importante riconoscere che l’alleanza è relazione: è un donarsi di Dio all’uomo, ma anche un rispondere dell’uomo a Lui. La risposta dell’uomo a un Dio che è buono con lui si chiama «amore», e amare Dio significa adorarlo. Se la creazione è intesa come uno spazio dell’alleanza, luogo dell’incontro tra Dio e l’uomo, ciò significa anche che è pensata come luogo dell’adorazione. (p. 22)
La cifra caratteristica del culto cristiano, pertanto, è quella di essere una risposta viva e consapevole all’interno di una relazione d’amore con Dio. Non si tratta di una reiterazione mnemonica e ritualistica bensì di una risposta sempre nuova e sempre identica allo stesso tempo. Ogni cristiano, non assiste ma dovrebbe invece partecipare alla celebrazione eucaristica e condividere, in quel preciso momento, l’esperienza di Cristo. Anzi, ogni cristiano dovrebbe diventare Cristo sobbarcandosi, nella misura del possibile, della stessa croce che Lui ha dignitosamente portato per la salvezza dell’umanità. La celebrazione eucaristica non è assimilabile ad altri ben noti rituali di sacrificio nei quali si sacrifica qualcosa d’importante per onorare la potenza della divinità. Nel quadro della relazione tra Dio e l’uomo la celebrazione liturgica ha invece un altro significato: essa si configura come libera donazione di sé a Dio. L’uomo ritrova veramente se stesso, in quanto creatura, quando riconosce Dio come fondamento del creato e riferimento ultimo di tutta la realtà. Per ritrovare veramente se stesso l’uomo deve prima perdere se stesso, cioè deve travalicare quei confini dell’individualismo che erroneamente gli danno la percezione di indipendenza rispetto a Dio:
L’appartenenza a Dio non ha nulla a che fare con la distruzione o il non essere: essa significa l’uscita dallo stato di separazione, di apparente autonomia, dell’essere solo per se stesso e in se stesso. Essa significa quel perdere se stessi che è l’unico modo per ritrovare se stessi (cfr. Mc 8,35; Mt 10,39). Per questo Agostino poteva dire che il vero «sacrificio» è la civitas Dei, cioè l’umanità divenuta amore, che rende divina la creazione ed è la consegna di tutto a Dio: Dio tutto in tutti (1 Cor 15,28) – è questo lo scopo del mondo, è questa l’essenza del «sacrificio» e del culto. (p. 24).
In conclusione del capitolo primo della parte seconda intitolato Osservazioni preliminari sul rapporto della liturgia tra lo spazio e il tempo Ratzinger fa delle riflessioni assai significative sulla collocazione temporale della liturgia. Si tratta di una riflessione assai importante non soltanto dal punto di vista teologico ma, come lo stesso Cardinale puntualizza, anche da quello antropologico. Il momento della celebrazione liturgica o, meglio, nel momento della celebrazione liturgica non si ricorda soltanto il passato, ma lo si rivive fino in fondo:
Proprio per questo nella liturgia cristiana non solo si partecipa del passato, ma vi è contemporaneità con ciò che fonda questa liturgia: è questo il vero nucleo e la vera grandezza della celebrazione eucaristica, che è sempre più che una cena: è l’essere coinvolti nella contemporaneità con il mistero pasquale di Cristo, nel suo passaggio dalla tenda della transitorietà al cospetto del volto di Dio.
Si potrebbe dire che ciò che accade durante la celebrazione eucaristica ha un’ontologia reale, intendendo con ciò che la partecipazione della comunità all’actio liturgica non si riduce affatto ad una mera rappresentazione della memoria, ma ad un evento che continuamente riaccade. La Pasqua storica di Gesù è l’evento storico reale, nel quale confluiscono i due piani, storico e divino, e che segna un momento di svolta nella storia della salvezza. Nella celebrazione liturgica il piano divino e quello umano sempre nuovamente si incontrano. Non si tratta di un «culto sostitutivo» in cui qualcosa sta per qualcos’altro ma un’azione reale di Dio nella storia che ci coinvolge fino in fondo rendendoci realmente partecipi della gloria e della redenzione operata da Cristo. «La liturgia», scrive Ratzinger, «introduce il tempo terreno nel tempo di Gesù Cristo e nella sua presenza»: è questa l’apertura al futuro dell’actio liturgica, la sua dimensione escatologica che ci permette di godere parzialmente e per frammenti di quella pienezza salvifica e celeste che soltanto alla fine dei tempi sarà la nostra definitiva condizione:
Si è quasi tentati di dire che questa terza dimensione della liturgia, il suo essere protesa tra la croce di Cristo e il nostro procedere vitale verso colui che ci ha rappresentati e che vuole essere «uno» con noi (Gal 3,18.28), esprima la sua pretesa morale. E senza dubbio nel culto cristiano è contenuta una pretesa morale, ma si tratta di molto più che un puro moralismo. Il Signore ci ha anticipati, ha già fatto la nostra parte, ha aperto la strada che noi non potevamo aprire perché la nostra forza non era sufficiente a costruire il ponte fino a Dio. Lui stesso è divenuto questo ponte. E ora si tratta di lasciarci assorbire in questo essere «per», di lasciarci accogliere dalle sue braccia aperte che ci portano verso l’alto. (pp. 56-57).
Due elementi, infine, meritano di essere sottolineati in questo passo. Il primo, già segnalato più sopra, è l’aspetto ontologico. Il nostro incedere verso la croce di Cristo non ha una dimensione soltanto morale (sebbene essa sia presente) ma è soprattutto un’azione salvifica reale. Ratzinger inoltre, e veniamo così al secondo elemento, sottolinea opportunamente che non si tratta di un’opera soltanto umana. Al contrario la liturgia percorre un ponte, ontologico e soteriologico, costruito da Cristo. È un ponte tra la morte, che nella storia è entrata per mezzo del peccato, e la redenzione, resa possibile soltanto grazie all’azione salvifica di Gesù. Nell’actio liturgica l’uomo percorre questo ponte rendendo grazia devotamente al suo Costruttore:
Egli, il Santo, ci santifica con la santità che non potremmo mai darci da soli. Veniamo inclusi nel grande processo storico in cui il mondo procede verso la promessa del Dio «tutto in tutti». In questo senso, quella che da principio appare come dimensione morale è al tempo stesso la dinamica escatologica della liturgia: la «pienezza» di Cristo, di cui parlano le lettere della prigionia di san Paolo, diventa realtà, e solo così l’evento pasquale si compie attraverso la storia: sino alla fine dura «l’oggi di Cristo» (Eb 4,7 ss).
Con questa densa citazione chiudo questo primo articolo (dei tre totali previsti) sul tema della liturgia nel pensiero di Ratzinger, accompagnato da una consapevolezza e da una speranza. La consapevolezza circa la pochezza di questo contributo rispetto alla ricchezza della riflessione dell’illustre teologo, e la speranza che da questa piccola fiamma segua un grande interesse (parafrasando il Sommo Poeta) nella platea di lettori.
SEGNALIAMO