Pestaggio di un ragazzo di 15 anni nel carcere minorile Beccaria di Milano, ripreso da una telecamera di sicurezza l’8 marzo 2024 (ANSA)
Il 6 Aprile 2020, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, 300 agenti, oltre ai medici del penitenziario, sono stati protagonisti e responsabili di un pestaggio, durato quattro ore, di numerosi detenuti del reparto Nilo che il giorno precedente, dopo che fu accertato un primo caso di positività al sars-cov-2, avevano chiesto mascherine e altri dispositivi di protezione individuale per tutti, così da contenere il rischio di contagio; si erano inoltre rifiutati di rientrare in cella e chiesto un incontro con i responsabili della struttura. Secondo quanto ricostruito dalle indagini della magistratura, furono organizzate dagli agenti “perquisizioni personali arbitrarie e abusi di autorità”.
Le chat WhatsApp tra i membri della penitenziaria erano esplicite: ”Li abbattiamo come vitelli”.
Nei giorni successivi, i detenuti raccontarono l’accaduto ai propri familiari e alle associazioni che si occupano dei loro diritti. Così la vicenda è arrivata alla magistratura che, dopo mesi di indagini, ha emesso una ordinanza cautelare a carico di 52 persone.
In questi giorni tutti i media, ma i telegiornali nazionali con particolare efficacia e risonanza, hanno documentato, attraverso filmati, la violenza perpetrata sui detenuti di Santa Maria Capua Vetere, fra i quali un disabile sulla sedia a rotelle: gli agenti, in fila, prendevano a calci, pugni, schiaffi, ginocchiate i detenuti che passavano davanti a loro.
L’ordinanza del giudice che a suo tempo portò a giudizio i responsabili di questo pestaggio, definì la violenza “Una orribile mattanza”, perpetrata attraverso atti “degradanti e inumani, contrari alla dignità”. L’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia la definì “Un tradimento della Costituzione”.
I rinviati a giudizio venivano accusati di tortura e della morte di un detenuto algerino pestato e ritrovato morto in cella.
Oggi, a distanza di quattro anni, si viene a conoscenza della “riammissione in servizio” (forse con cambio di sede) degli indagati, già chiesta più volte, ma finora sempre respinta. Alcuni sindacati di polizia, che hanno perorato la loro causa, sostenendo che la sospensione dal servizio e la conseguente riduzione dello stipendio avevano una ricaduta negativa sulle famiglie, scrivono che la sentenza “riabilitativa” “è stata ottenuta grazie alla determinazione del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Del Mastro”, personaggio discusso di questo governo, rinviato a giudizio per rivelazione di segreto d’ufficio (art. 326 c.p.): dati sensibili e riservati concernenti i contenuti delle conversazioni intercorse tra Alfredo Cospito, detenuto al regime del 41 bis nel carcere di Sassari, ed esponenti della criminalità organizzata.
Ricordiamo che nel 2017 nel nostro ordinamento è stato introdotto il reato di tortura. La norma prevede la reclusione da quattro a dieci anni per chiunque, con violenze o minacce gravi o con crudeltà, provochi a una persona privata della libertà o affidata alla sua custodia “sofferenze fisiche acute” o un trauma psichico verificabile. La pena sale da cinque a 12 anni se a commettere un reato è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio.
Il provvedimento, dopo un iter travagliato durato quattro anni, è stato il frutto della sintesi di diverse proposte di legge. Ne fu promotore il Partito Democratico che si è scontrato con l’opposizione della destra, in particolare la Lega e Fratelli d’Italia, che hanno giudicata la legge punitiva nei confronti delle forze dell’ordine, nonché limitante il loro operato (?).
Nel 2021 ci sono state le prime sentenze per gli agenti penitenziari: il 5 gennaio un poliziotto è stato condannato a tre anni di reclusione per aver ammanettato e pestato un detenuto dopo averlo costretto a inginocchiarsi durante una perquisizione. Il 17 febbraio è stata la volta di dieci agenti responsabili di un “brutale pestaggio” a S. Gimignano che ha avuto per vittima un tunisino.
A fronte della riammissione in servizio dei responsabili delle violenze perpetrate nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, il “Garante dei detenuti della Campania” Samuele Ciambriello intravvede il pericolo che questa “sanatoria” possa essere considerata una sorta di assoluzione rispetto a precise e gravi responsabilità penali. Ma la preoccupazione dovrebbe coinvolgere tutta l’opinione pubblica, il dibattito politico, le istituzioni democratiche del nostro Paese. Infatti la violenza, considerata come mezzo o meglio metodo di dissuasione e repressione, sta assumendo dimensioni sempre più allarmanti, sia che venga perpetrata nei confronti dei detenuti, anche quelli reclusi nelle carceri minorili, sia degli studenti, sia di chi in genere scende in piazza per manifestare il proprio dissenso, secondo le libertà sancite dalla Costituzione.
Oggi, 28 luglio, il telegiornale serale de La7 ha riferito del dilagare delle proteste, da Sud a Nord, nelle carceri italiane, situazione che potrà rivelarsi esplosiva e ingestibile nel rispetto dei diritti fondamentali di ciascuna persona, in quanto tale, che l’ordinamento giuridico si impegna a garantire.
È appena il caso di sottolineare che le carceri sono luogo di detenzione, ma anche e soprattutto di rieducazione.
Ma quale recupero si può ottenere con la violenza se non un incremento della aggressività e del rifiuto delle regole, che stanno alla base di una società democratica? La detenzione avviene in spazi che dovrebbere contenere un terzo della attuale popolazione carceraria, situazione che non consente di attivare forme di recupero, di riabilitazione, di formazione e di avviamento a un lavoro con cui, una volta scontata la pena, un cittadino ormai libero si possa ricostruire una vita dignitosa nella legalità. La disperazione, sentimento diffuso nelle carceri italiane, è documentata da un numero impressionante di suicidi: nel 2024, uno ogni tre giorni!
Ci si può chiedere il perché di tanto nostro orrore rispetto ai metodi applicati sotto il regime di Orban, in Ungheria, a Ilaria Salis, la quale, benché in odiose e umilianti catene appariva in buona salute, se le immagini che ci vengono dai luoghi di detenzione italiani sono ancora più terrificanti.
La violenza sui detenuti, che vivono situazioni inaccettabili per un paese che vuole definirsi civile, ci richiama anche a quella che gli immigrati in attesa di verifica amministrativa o di un eventuale rimpatrio, stanno subendo per ben diciotto mesi, nei CPR italiani o in quello futuribile in Albania, ancor più “lontano dagli occhi e dal cuore”. Diversi servizi televisivi e in particolare la trasmissione “Cento Minuti” di Corrado Formigli e Alberto Nerazzini, che hanno presentato “Welcome to Italy”, documentario di Chiara Proietti d’Ambra, andata in onda il 13 maggio 2024, hanno rivelato, oltre alle speculazioni economiche di grandi società finanziarie sui CPR, gli abusi di psicofarmaci, le violenze, il suicidio del ventenne Ousmane Sylla; gli ambienti alienanti dove risuonano grida strazianti, ignorate; le gabbie detentive e i letti di cemento in cui vengono imprigionati e costretti esseri umani, senza alcun reato a loro carico, che vengono deprivati di tutto anche della speranza.
Le immagini apparse ai nostri occhi in questi giorni, non sono certo inedite, ma ci riportano in particolare al caso del diciottenne ferrarese Federico Aldrovandi e a quello del giovane Stefano Cucchi, il primo ucciso il 25 settembre 2005 da quattro poliziotti durante un controllo, mentre forse smaltiva una sbronza disteso sotto un albero vicino a casa; il secondo il 22 ottobre 2009, mentre era sottoposto a custodia cautelare, da otto carabinieri, fra cui un generale, e da medici dell’ospedale “Sandro Pertini” di Roma.
I colpevoli sono stati condannati in formula definitiva nel caso Aldrovandi a tre anni e sei mesi per omicidio colposo, anche se per l’indulto hanno scontato 6 mesi e sono rientrati in servizio; nel caso Cucchi a complessivi dodici anni. Le condanne, per le quali si sono battuti i familiari delle vittime, hanno allora restituito fiducia a una opinione pubblica scossa dall’abuso di potere messo in atto da soggetti delle istituzioni, in cui, invece, deve poter essere riposta la fiducia incondizionata dei cittadini.
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