Le “istituzioni” come espressione del sapere pratico-politico
La politica come scienza filosofico-sociologica parte 16esima
A riepilogo totale e a conclusione di queste riflessioni schematiche sulla politica come scienza filosofico-sociologica, ai fini di una sua definizione integrale si possono sottolineare i seguenti punti: 1) la scienza politica, in quanto protesa alla comprensione scientifico-oggettiva della realtà politica, mentre si pone sia come premessa sia come risultato riflesso della prassi politica, non può ignorare due impliciti presupposti: che la conoscenza “scientifica” deriva, oggi, la sua importanza dalla più generale convinzione (dotta e comune) che essa rappresenti, se non l’unica, la migliore, o la meno peggiore possibile e utilizzabile forma di conoscenza “oggettiva” (non in senso metafisico) e, quindi, “universale”, cioè non solo gnoseologico/ideologico/soggettiva; ma che l’opzione della e per la conoscenza scientifica, della e per la scienza in genere, a sua volta, implica una più vasta e profonda concezione dell’uomo: presupposto che, in definitiva, rimanda alla finitezza e limitatezza dell’uomo stesso e del suo conoscere sempre fallibile e sempre provvisorio ma, anche, sempre perfettibile; quello della scienza e della tecnologia, insomma, rimane un presupposto antropologico (come in passato lo è stato l’antropologia etico-religiosa – più precisamente “metafisica” – unitariamente e pacificamente condivisa, ad esempio, nel Medioevo); 2) tale implicita concezione antropologica investe anche la prassi politica, nel senso che l’arte politica, oggi, va associata alla scienza politica analogamente (ma l’analogia non è perfetta) al rapporto, all’inizio esemplificativamente richiamato, tra “arte” medica e “scienza” medica.
Tutte affermazioni che presuppongono il principio basilare dell’azione politica sotteso alle considerazioni, pur sommarie, svolte nelle pagine che precedono e che possiamo così sintetizzare: l’agire politico, in quanto agire (in) pubblico, rientra nell’orizzonte dell’azione umana, e precisamente dell’uomo fra gli altri uomini. Rimanda, dunque, all’uomo in quanto soggetto sensibile, sentimentale-razionale, libero. Anche l’azione politica, come qualunque altro comportamento umano, rimanda a quella libertà razionale che opera nel contesto sensibile-istintuale-sentimentale proprio dell’uomo, pluralisticamente (socialmente) inteso (sicché, in considerazione di questa duplicità/ complessità della natura umana, non è davvero casuale che possiamo assumere a immagine speculare della politica il simbolo mitologico del centauro, mezzo uomo e mezzo cavallo).
Se, in conclusione, dovessimo, a questo punto e a questo proposito, proporre una definizione dell’uomo contemporaneo (e, quindi, dell’antropologia contemporanea) in analogia con quella aristotelica (l’uomo animale politico), potremmo verosimilmente parlare dell’uomo quale animale “tecnologico” o “tecno-scientifico”.
Da tale impostazione per così dire “storicistica” – che privilegia la prospettiva storica della politica sia in quanto l’esperienza politica è un’esperienza storica per eccellenza, sia in quanto l’esperienza storica non si può comprendere e definire senza la politica – bisogna guardarsi, tuttavia, dal trarre due troppo facili illazioni. Anzitutto, l’idea che della politica non si possa dare un concetto valido in qualche modo universalmente (anche in senso temporale), mentre, al contrario, essa è sempre e ovunque presente, con i suoi caratteri, nei vari ambienti e contesti geostorici e, perciò, antropologico-culturali: rispetto alla politica classico-antica, a quella medievale, a quella moderna (si pensi, ancora, a Machiavelli), ebbene, quella contemporanea – stando alle tipiche periodizzazioni della civiltà occidentale – si contraddistingue, dunque, in ragione dei tratti e dei requisiti estensibili ed estesi di fatto anche ad altri contesti culturali/civili, pur nel rispetto delle specificità a questi ultimi proprie.
La seconda illazione – che esprime un problema “sensibile” per l’uomo contemporaneo – potrebbe riassumersi criticamente nella svalutazione della filosofia politica rispetto alla scienza politica, in ragione del fatto che oggi è la scienza a rappresentare il paradigma del sapere e, perciò, a definire e a configurare la politica e i suoi caratteri secondo categorie “analitiche” che si presentano, appunto, come sempre valide (si tratti di quelle struttural-funzionaliste o di quelle sistemiche e così via), anche se sempre falsificabili (falsificabilità del conoscere, che rinvia a quella del conoscente, cioè ne mette in rilievo i limiti, delineando così una vera e propria concezione dell’uomo, una antropologia, appunto).
Proprio queste due implicite obiezioni ci mettono in guardia sia contro un’interpretazione “storicistica” in senso stretto (cioè con riferimento a una precisa corrente speculativa, lo storicismo filosofico) sia, per reazione, contro un’interpretazione polemicamente anti-scientifica e ci permettono, anzi, di spiegare meglio quel rapporto tra scienza politica e filosofia politica accennato all’inizio.
Ma tenendo conto del rapporto tra scienza e arte politica (quale siamo venuti disegnando), che cosa implica o comporta per noi tale sottostante definizione antropologica su cui abbiamo impostato, pur schematicamente, tutto il discorso svolto in queste pagine, se non la constatazione, il riconoscimento e la riprova della qualificazione “tecnologica” (tecno-burocratica, per la precisione) della politica odierna?
Nel breve giro di queste definizioni credo di aver così riassunto l’attuale metamorfosi della politica che, inquilini del secolo XXI, ci troviamo a condividere. Metamorfosi all’interno della quale va letta l’odierna crisi della democrazia, cioè di quella forma di governo che, in parallelo con la globalizzazione, si è diffusa su tutto il pianeta.
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