La Conferenza stampa di inizio anno
GUIDO BARLOZZETTI Conduttore televisivo, critico cinematografico, esperto dei media e scrittore
E finalmente è arrivata la conferenza stampa della presidente Giorgia Meloni. Un confronto torrenziale con i giornalisti, più di tre ore, e un’occasione per capire la temperatura del governo e quella della Presidente del Consiglio.
Che immagine ci ha consegnato? Quali umori Meloni ha trasmesso di sé in questo estenuante e rituale faccia a faccia in cui ciascuno fa la sua parte?
Un preambolo sulla libertà d’informazione
L’aria che tira si capisce subito dalla risposta che dà ai rilievi del Presidente dell’Ordine dei Giornalisti, Carlo Bartoli, che ha introdotto la conferenza-stampa, in particolare sulle polemiche sulla legge che limita la pubblicazione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere e sulla diffamazione:
“Ci allarma l’approvazione di un emendamento che rischia di far calare il sipario sull’informazione in materia giudiziaria […]. Chiediamo di ripensare a fondo la riforma della diffamazione in discussione al Senato “.
Meloni ricorda che fino al 2017 “era così” e respinge l’accusa:
“rimane il diritto del giornalista a conoscere quell’atto e riportare le notizie. Quindi francamente non ci vedo un bavaglio, sempre che non si dica che fino al 2017 la stampa non sia stata imbavagliata. Mi pare una iniziativa di equilibrio tra il diritto di informare e il diritto di un cittadino prima di essere condannato e di esercitare il diritto alla difesa a far pubblicare elementi che possono ledere la sua onorabilità”.
Nella casa dei giornalisti respinge al mittente – compresa la FNSI che ha disertato l’incontro – e mostra subito la faccia di chi non si fa intimidire, una sorta di segnale mandato preventivamente:
“Non c’era alcun intendimento di scappare dalle domande dei giornalisti, raramente sono scappata da qualcosa”.
Un discorso da dominus (domina)
Biancovestita, giacca e pantaloni, anzitutto un’evidenza: è lei il pilastro di questo governo, lei con il suo ininterrotto esercizio di riportare tutto alla coerenza di un progetto, di non mollare un aspetto che sia uno della regia di questa avventura che l’ha proiettata a Palazzo Chigi. Una simil-Napoleone perfettamente seduta sul trono, Dio me l’ha data (la corona) e guai chi me la tocca.
Così, ecco un’attenzione ossessiva a chiudere qualunque fessura venga a incrinare una compattezza più volte ribadita, “siamo famosi per discussioni accese ma anche per risolverle”, la scelta dei candidati
“Abbiamo sempre risolto in passato e si figuri se non lo faremo adesso”.
Meloni non ha cedimenti e quando qualche domanda – non tante in verità – potrebbe sembrare urticante, non solo disinnesca ma rovescia oppure mette in moto uno di quei giri para-sillogistici che chiudono con una sentenza magari senza avere risposto.
È brava e preparata a quello che dovrebbe essere un fuoco di fila e, alla fine, i giornalisti, chi più chi meno, sembrano solo gli sparring partner di un campione. Solo una volta ammette di non sapere e che “m’informerò”, quando le chiedono della compatibilità istituzionale di un incontro tra Matteo Salvini e il ceo di Huawei. Meloni-dominus (domina?) insomma governa, esprime tutta la determinazione per continuare a farlo e si assume le responsabilità, questa è la linea strategica.
A chi contesta tutta una classe dirigente citando i casi della cronaca che hanno investito questo o quel ministro, risponde che
“Non c’è una questione morale. I casi vanno valutati ciascuno per suo conto, e non a monte ma a valle, una volta che si sono chiariti i fatti”.
E quando arriva la domanda inevitabile – il caso dell’onorevole con la pistola a Capodanno – è lei a sparare il colpo e a chiudere la faccenda: “La questione – dice – è che chi ha un’arma deve custodirla con responsabilità” e conferma il deferimento dell’on. Pozzolo alla commissione di garanzia e probiviri di Fratelli d’Italia.
Ordine e disciplina
Si capisce che questo stillicidio di casi sta creando un problema rispetto al quale, mentre lo ridimensiona, Meloni si consente anche una confessione:
“C’è sempre qualcuno che ti aspettavi potesse essere…, che fa errori, però non sono disposta a fare questa vita con la responsabilità che ho sulle spalle. Se le persone che sono intorno a me non capiscono questa responsabilità… che non c’è uno solo che se la assume. Su questo intendo essere rigida”.
Una rivendicata fermezza e però anche un segnale che il livello di guardia sia stato raggiunto. Come a dire che il governo non può diventare il colabrodo di estemporaneità che andrebbero fatalmente a rifrangersi su di lei.
Stiamo in una conferenza-stampa, le parole e gli atteggiamenti sono tutto. Domande e risposte, il confine sfuggente tra la realtà delle cose e il modo di raccontarla, vale per tutti e vale anche per Meloni e la sua tetragona Linea del Piave su cui non solo resistere ma rintuzzare ogni attacco, faccia tostissima, sorrisi, qualche volta, e muso duro, spesso.
“Non sono ricattabile”
Ancora un altro passaggio manifesta un problema che lascia con l’impressione di aver bucato in qualche modo il velo che potrebbe essere fumogeno e di circostanza.
Meloni ripete “non sono ricattabile”, come già a proposito di un appunto in cui Silvio Berlusconi la definiva “supponente, prepotente, arrogante e offensiva”. Al quale aveva replicato:
“Mi pare che tra quegli appunti mancasse un punto e cioè ‘non ricattabile”
Lo fa dopo aver parlato, a proposito del caso Tommaso Verdini, di
“affaristi e lobbisti che non stanno passando un buon momento” e aver lanciato un sasso: “non escludo che diversi attacchi a sottoscritta arrivino da questa dinamica”.
E, a domanda, spiega, escludendo rivelazioni (“non faccio nomi):
“Qualcuno ha pensato di poter dare le carte, in uno stato normale questi condizionamenti non devono esserci, l’ho visto accadere. Qualcuno spera che mi spaventi, non mi spavento facilmente, preferisco andare a casa”.
Affermazioni che fanno pensare a un retroscena sul quale forse sarebbe interessante sapere qualcosa di più. Ma Meloni non va oltre quello che ha detto e lascia in una sospensione per certi versi inquietante che però, nasconde anche un gioco e una strategia di difesa.
Quando il terreno si fa scosceso e potenzialmente minato, una via d’uscita può essere infatti quella di gridare “al lupo al lupo”, di alludere a complotti e manovre, evitando ogni riferimento concreto e denunce puntuali. Una tattica discorsiva che viene confermata anche da una battuta che, accompagnata da un sorriso ironico, affiora qua e là, “la faranno pagare?”.
Un back aperto e chiuso? Ironia? Un complesso di persecuzione? La palla buttata in tribuna? Caciara?…
“Mi pare di vivere in un mondo all’incontrario”
E un’altra mossa ritorna, insistente, quando tira in ballo una sinistra accusata di essere garantista a senso unico. Meloni cita il silenzio sul caso Degni, il consigliere Corte dei Conti che ha auspicato l’esercizio provvisorio invece dell’approvazione della Finanziaria. Maltratta Giuliano Amato che le addebita di opporsi alla Corte Costituzionale e spariglia spostando l’attenzione su quello che si nasconderebbe dietro ai rilievi del Professore e cioè la nomina che dovrà avvenire entro il 2024 di quattro giudici della Corte:
“Questa idea della democrazia per cui se vince sinistra deve avere tutte le prerogative maggioranza, se vince la destra no!”.
Con una sottolineatura che è un artifizio retorico e un reiterato e abile rovesciamento di prospettiva:
“A volte mi pare di vivere in un mondo all’incontrario”.
Il familismo
E arriva anche il momento in cui tradisce un risvolto personale. Accade quando una domanda pone la questione del “familismo”: non solo ricorda che in Parlamento ci sono due coppie di sinistra, ma contrattacca e sbotta:
“L’accusa continua di familismo del mio partito comincia a stufarmi. Sono accuse che non ho sentito a sinistra, come in Sinistra Italiana. Mia sorella sono trent’anni che lavora in fratelli d’Italia. L’ho messa a capo del partito. Certo, potevo metterla a capo di una partecipata”.
Una difesa a oltranza
In tutto questo, nel merito dell’azione di governo, c’è la difesa a oltranza della linea.
Sulla nuova maggioranza che uscirà dalle elezioni europee, tiene fermo sull’ancoraggio ai Conservatori, esclude ogni accordo-Ursula e mentre chiude la porta a AFD non la sbatte affatto a Marine Le Pen:
“Io non sono una persona che ama dare patenti anche per ragioni di storia. Con Afd ritengo ci siano delle distanze insormontabili, a partire dal tema del rapporto con la Russia su cui, invece, Marine Le Pen sta facendo un ragionamento interessante. Ma ritengo di non dover distribuire patenti. Quando ci sono partiti che prendono il 25 per cento dei consensi, bisogna porsi il tema di come rispondere a quei cittadini. Per ora lavoro soprattutto al partito dei conservatori europei”.
Una chiusura a sinistra, confini porosi a destra.
Sui migranti, ancora una capriola dialettica: “i risultati non sono soddisfacenti”, ma senza il grande lavoro fatto “sarebbe stato tutto molto peggiore”. E rivendica un approccio “non predatorio” che deve partire dall’Africa, dove collaborare e creare le condizioni per non partire.
“Quello che va fatto in Africa è il diritto a non emigrare prima del diritto ad emigrare. Il piano Mattei costituisce questa idea, e il mio obiettivo è che diventi un modello a cui altri Paesi possano aggregarsi: è più avanti di quanto sembri e di quanto senta dire”.
Scenario che sembra lontano.
Sul provvedimento sulle banche, un lungo giro per dimostrare che la creazione di una riserva favorirà il credito e quindi un rientro di tasse per lo Stato.
Sul Mes ripete che è il Parlamento ad averlo bocciato:
“È stato un errore sottoscrivere una modifica del trattato sapendo che non c’era una maggioranza in parlamento all’epoca per sottoscriverla”.
Strumento obsoleto:
“Forse, la mancata ratifica può diventare un’occasione per trasformarlo in qualcosa di più efficace, ed è questa la strada su cui lavorar”.
Il “forse” è significativo.
Sul nodo spinoso, anche elettoralmente di ambulanti e balneari, per i primi giustifica l’intervento con la necessità di uniformare le disposizioni, per i secondi ricorda la mappatura delle coste, base per un riordino a cui il governo provvederà.
La lettera di Mattarella:
“L’appello del Presidente non rimarrà inascoltato”.
Sarebbe stato paradossale innescare una polemica con il Quirinale.
Conferme anche sul premierato che non toccherebbe i poteri del Presidente della Repubblica:
“Si crea un buon equilibrio e si rafforza la stabilità dei governi”.
Un cavallo di battaglia intoccabile.
Sulle riforme di giustizia e pubblica amministrazione, due impegni per l’anno nuovo per togliere due pesanti limiti all’investimento straniero.
Sulla Rai. Bypassa le polemiche sulla transumanza dei conduttori e sui flop dei nuovi programmi. Delinea un quadro per l’amministratore delegato
“penso che molto si possa fare soprattutto per migliorare la qualità del servizio pubblico, per garantire maggiore pluralismo e maggiore obiettività, per limitare alcuni sprechi che abbiamo vissuto in passato”
e con un sorriso quasi sarcastico rovescia le contestazioni sull’occupazione di Viale Mazzini:
“Ho letto accuse di regime. Ma quando FdI unica opposizione ai tempi di Draghi ed era l’unico partito non rappresentato in Rai. È il Pd con il 18 per cento aveva occupato l’80 per cento dei posti in Rai. Io sto solo cercando di riequilibrare il servizio pubblico”.
Il momento peggiore? Cutro. Il migliore “Quando sto in mezzo alla gente”.
Meloni non dimentica il consenso e il godimento da bagno di folla.
È sicura di sé e non lesina battute.
Su Chiara Ferragni e sull’inciampo del pandoro, esprime un punto di vista più analogico che digitale:
“Ha più valore più chi produce un pandoro di chi lo griffa, ha più valore chi produce le eccellenze italiane che chi le mostra”.
La materialità del lavoro e della produzione, di contro alla labilità dell’immagine.
E non arretra sui rilievi negativi sull’influencer:
“Per la sinistra sembra che io abbia attaccato Che Guevara perché ho attaccato Chiara Ferragni”.
Il corpo del Potere
Nel rito interviene un momento topico di trasgressione. Sembra quasi un fuori onda, “Sto a morì, regà”, si rende conto che si è sentito e tradendo la fretta di un’incombenza improcrastinabile:
“Scusate, devo andare in bagno, torno subito”.
E corre via…
Il corpo fa valere i suoi diritti che non possono essere trascurati. Il corpo che è anche lo slang primigenio che resta sotto traccia e, quando la pressione, in questo caso fisica, riemerge.
Anche il potere deve fare i conti con fisiologia del corpo che lo rappresenta.
Non è solo un intermezzo imprevisto è, come accade in questi casi, un’infrazione rivelatrice che dice di una double face che attraversa la Protagonista e il suo modo di costruire il discorso in questa occasione e in generale: il/la (e già in questo scarto c’è una scissione su cui sarebbe il caso di approfondire) Presidente Meloni con la sua lunga esperienza di partito e ora d’istituzione e la scalpitante e naïf Giorgia.
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