Il 14 gennaio 2015, al termine del semestre di presidenza italiana del consiglio dell’Unione europea, Giorgio Napolitano si dimise. Erano passati meno di due anni dalla rielezione. La notizia era attesa. Il presidente sentiva il peso dell’età. Il presidente era riuscito a tirare fuori il Paese da una situazione difficile evitando scelte avventuristiche, ma il sistema politico non era stato capace di riformarsi. Non era riuscito, cioè, a realizzare la richiesta più importante che l’anziano uomo politico aveva posto per accettare la rielezione. Napolitano appariva infastidito dai modi in cui si svolgeva la lotta politica stili e modi di porsi che non gli appartenevano. Infine gli erano piombate addosso accuse infamanti e una campagna di stampa violentissima condotta dal Fatto Quotidiano.
Nei 21 mesi della seconda presidenza di Napolitano si era formato il governo Letta. Un esecutivo di larghe intese che durò in carica 300 giorni con una navigazione tormentata, sia per le differenze tra i partiti della coalizione, che per le fibrillazioni nei partiti. Il Popolo delle libertà si scisse nella ricostituita Forza Italia e nel Nuovo centrodestra guidato da Angiolino Alfano. Il PD, dopo le dimissioni di Bersani, fu conquistato da Renzi. A complicare ulteriormente la situazione ci fu la decadenza di Berlusconi da parlamentare a seguito della legge Severino.
Il governo Letta fu costretto alle dimissioni dal suo partito, il PD. Renzi fece votare alla direzione dei Democratici un documento in cui si rivelava “la necessità e l’urgenza di aprire una fase nuova, con un nuovo esecutivo”. A sostituirlo arrivò lo stesso Renzi, favorito da un accordo con Silvio Berlusconi, chiamato “Patto del Nazareno”, sulla riforma della Costituzione e per una nuova legge elettorale. Un accordo che comprendeva anche l’elezione del nuovo presidente della Repubblica concordando che il candidato più adatto poteva essere Giuliano Amato.
Nelle settimane che precedettero il voto, fissato per il 29 gennaio, la partita del Quirinale si fuse e confuse con il rapporto tra le coalizioni e nelle dinamiche interne al PD.
Alla vigilia del voto una delegazione di Forza Italia andò da Renzi a pranzo a Palazzo Chigi. Erano convinti che la scelta su Amato fosse confermata. Renzi affermò che il suo candidato era il giudice costituzionale Sergio Mattarella. Una scelta inattesa che ricompattava il PD attorno a una personalità autorevole che politicamente significava la rottura del Patto del Nazareno.
Berlusconi chiese il rispetto degli accordi, ma il presidente del Consiglio fu irremovibile.
Il 31 gennaio il presidente della Camera Laura Boldrini proclamò il risultato del IV scrutino. Con 665 voti, poco meno di due terzi dell’assemblea, Sergio Mattarella divenne il 12° presidente della Repubblica.
Al momento dell’elezione, il 3 febbraio 2015, Sergio Mattarella aveva 73 anni e una densa vita alle spalle, in cui la politica era divenuta protagonista dopo la tragica morte del fratello Piersanti.
Il giorno dell’Epifania del 1980 il futuro presidente della Repubblica aveva 39 anni. Quarto figlio di Bernardo, esponente di spicco della DC siciliana e più volte ministro, alla politica aveva preferito la carriera universitaria. Dopo gli studi liceali a Roma (al seguito del padre) all’istituto San Leone Magno e la laurea alla facoltà di Giurisprudenza della Sapienza, Sergio era stato chiamato dell’università di Palermo per insegnare Diritto parlamentare. Incarico che conservò fino al 1983, quando andò in aspettativa perché eletto alla Camera dei deputati.
Come scrivono Giovanni Grasso e Riccardo Ferrigato (Sergio Mattarella. Il presidente degli italiani, Milano, 1995) il professore Mattarella era mite e brillante, schivo e riservato, ma amatissimo dagli studenti. Il sogno di una serena carriera universitaria si interruppe il 6 gennaio del 1980 a Palermo, una domenica, in via della Libertà, poco dopo le 12 e 30. Quella mattina un sicario della mafia uccise il fratello Piersanti.
Fortemente sostenuto da Ciriaco De Mita che in quegli anni guidava la DC, si candidò alle politiche del 1983. Centoventimila preferenze lo portarono a Montecitorio. Quindi fu nominato commissario del partito in Sicilia. Con determinazione azzerò i vertici legati a Lima e Ciancimino e favorì un profondo rinnovamento.
Rieletto nel 1987 come esponente della sinistra DC, fu nominato ministro per i Rapporti con il Parlamento nel governo Goria e confermato nell’incarico nel 1988 con quello De Mita. Nel luglio del 1989, con la formazione del VI governo Andreotti, Sergio Mattarella divenne ministro della Pubblica istruzione.
Il 27 luglio 1990, Mattarella si dimise insieme agli altri ministri della sinistra democristiana (Mino Martinazzoli, Riccardo Misasi, Carlo Fracanzani e Calogero Mannino) per protestare contro la fiducia posta dal governo sul disegno di legge Mammì sul riassetto del sistema radiotelevisivo. I cinque ministri ritenevano che il provvedimento, imponendo il duopolio televisivo, favoriva ingiustamente la Fininvest di Silvio Berlusconi.
Nelle elezioni del 1992 Mattarella fu rieletto alla Camera. Spettò a lui di essere il relatore delle leggi elettorali della Camera e del Senato che dovevano recepire gli esiti del referendum del 1993. Ne venne fuori una normativa mista: maggioritaria per il 75%, proporzionale per il restante del 25% dei seggi. Giovanni Sartori la definì – con una punta d’ironia – Mattarellum, e fu utilizzata per le elezioni politiche del 1994, 1996 e del 2001.
Nel 1994, dopo la dissoluzione della DC fu tra i fondatori Partito Popolare Italiano. Nel nuovo Parlamento fu eletto capogruppo dei deputati Democratici e popolari e fece parte fece della commissione parlamentare per le riforme costituzionali.
Il governo D’Alema fu per Mattarella un ulteriore salto di qualità.
Nominato vicepresidente del consiglio ebbe la delega sui Servizi di sicurezza. In quell’incarico elaborò una proposta di riforma che puntava a rafforzare il controllo politico e, in questo ambito, una preminenza del presidente del Consiglio rispetto ai responsabili di Difesa e Interni. Il modello proposto da Mattarella divenne la base della riforma del 2007.
Nei successivi governi D’Alema II e Amato II (dicembre 1999 – giugno 2001) Mattarella ebbe la responsabilità della Difesa. Un ruolo importante che gli consentì di tessere una rete di rapporti internazionali e di realizzare alcune importanti riforme. La prima fu quella delle Forze armate che, di fatto, aboliva il servizio militare obbligatorio.
Nel 2001 Mattarella fu rieletto alla Camera dei deputati nelle liste della Margherita, non in Sicilia, ma in Trentino. Legislatura di opposizione passata a riflettere e lavorare sulle riforme istituzionali. Nel 2006 fu candidato nella lista dell’Ulivo e venne eletto deputato per la settima volta. Nel 2007 fu tra gli estensori del manifesto fondativo dei valori del Partito democratico. Con lo scioglimento anticipato della XV legislatura, il 28 aprile 2008, non si ricandidò.
Lasciato il Parlamento, il 22 aprile 2009 Mattarella fu eletto dalla Camera dei deputati componente del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, di cui è poi diventato vicepresidente. Il 5 ottobre 2011 il Parlamento in seduta comune lo elesse – non senza polemiche da parte del centrodestra – giudice della Corte costituzionale alla quarta votazione con 572 voti, uno più del quorum richiesto.
L’esordio del 12° presidente della Repubblica sarà ricordato con l’immagine dell’arbitro. Davanti al Parlamento in seduta in comune Sergio Mattarella, affermò: Nel linguaggio corrente si è soliti tradurre il compito del capo dello Stato nel ruolo di un arbitro, del garante della Costituzione. È un’immagine efficace. All’arbitro compete la puntuale applicazione delle regole. L’arbitro deve essere – e sarà – imparziale. I giocatori lo aiutino con la loro correttezza. Un arbitro equidistante che si impegna a non fare strappi e a non partecipare alla lotta politica. Un cambio di passo rispetto alla presidenza Napolitano, a patto che le forze politiche rispettino le regole e il galateo costituzionale.
Un discorso sobrio, didascalico in cui spiegava cosa significava per lui “garantire la Costituzione” e quale era il “volto” della Repubblica per il comune cittadino.
Anni difficili, confusi, in cui è esplosa la sbornia populista ed è divenuta palese la disgregazione dell’ordine mondiale. Tuttavia, è evidente che Mattarella abbia tenuto fede agli impegni presi nel discorso d’insediamento dimostrandosi un arbitro affidabile che ha dato un volto credibile alla Presidenza della Repubblica e garantito il regolare funzionamento della nostra Costituzione.
Mattarella ha conquistato la stima degli italiani, la fiducia delle istituzioni europee e delle cancellerie internazionali. Consolidando, in una stagione complicata, la credibilità del nostro Paese. Lo ha fatto con uno stile misurato e un tratto antico in un tempo in cui l’ostentazione e la sciatteria sembravano aver preso il sopravvento. La sua azione lo ha reso uno dei migliori presidenti della Repubblica.












