di Michele Trecca
Faccia a faccia – incontri, letture, miti letterari
Quella sera di settembre a Rocchetta è stata festa. In tuo onore. In piazza c’erano tutti, dal sindaco in giù, sicuramente anche il parroco, il medico, il farmacista, proprio tutti, ma non solo la gente del paese, compresi quelli che fino a poco tempo prima ti consideravano strana… Non c’era la banda, ma c’erano tante voci che tutte insieme sembravano una musica. Da strega che eri, quella sera sei stata regina e, guarda un po’, proprio quando strega lo sei diventata davvero, con tanto di premio. Naturalmente c’erano i tuoi compagni radicali, in formazione ufficiale, chi dal vivo, venuto da Roma, chi in collegamento, radiofonico. C’erano i giornalisti e le tivvù. C’erano tutti, quella sera.
C’era il tuo romanzo. Mancavi tu. Per Inge Feltrinelli il tuo romanzo era un nuovo Gattopardo. Raffaele La Capria sul Corriere della Sera ti aveva affiancato ad Elsa Morante e Anna Maria Ortese. Stefano Giovanardi sulla Repubblica aveva scritto che Passaggio in ombra sarebbe stato ricordato «come una delle opere più importanti di questa confusa fine di secolo». Tirava quest’aria, quella sera di settembre del 1995, a Rocchetta Sant’Antonio in provincia di Foggia. La mia idea su Passaggio in ombra io, invece, l’ho maturata qualche anno dopo quando su Tema celeste ho visto My bed di Tracey Emin, un’installazione del 1998.
My bed
Un grande letto disfatto posizionato su una bara. Lenzuola sporche, coperte e cuscini aggrovigliati in un unico plastico e tormentoso impasto di bianco. Un’intimità sventrata, un’umanità annichilita. Appeso in un angolo del soffitto un cappio. Sul letto i materiali vari d’una vita esplosa: un giornale ripiegato con delle vecchie polaroid sopra e affianco un talloncino, un cagnolino bianco di pezza, forse una tazzina, dei floppy, una custodia per CD, pillole anticoncezionali, dei fogli accartocciati, pantofole, un portacenere, una stecca vuota di Marloboro, mozziconi di sigaretta, indumenti intimi, preservativi, un dentifricio, bottiglie di vodka e altra roba ancora ma indistinguibile su un tavolino rotondo di legno marrone che fa da comodino.
L’opera di Tracey Emin è un pezzo vero della sua vita: «Nel 1998 mi lasciai con il mio compagno e trascorsi quattro giorni a letto, a dormire, in uno stato di semi incoscienza. Quando mi svegliai, mi alzai e vidi tutto il caos che si era ammassato dentro e fuori dalle lenzuola». My Bed ha dato forma d’arte a quel caos. Lo stesso caos del marasma sentimentale di Chiara, protagonista e narratrice di Passaggio in ombra. Come Tracey Emin, rielaborandolo artisticamente, Mariateresa Di Lascia ha dato forza e valore universale a un dolore. Il dolore di una donna e di una terra. La sua terra.
Al di là delle parole
«Nella casa dove sono rimasta, dopo che tutti se ne sono andati e finalmente si è fatto silenzio, mi trascino pigra e impolverata con i miei vecchi vestiti addosso, e le scatole arrampicate sui muri scoppiano di pezze prese nei mercatini sudati del venerdì.» È lo stesso odore dell’opera della Emin, giovane anche lei come Mariateresa Di Lascia che nell’ottantotto, quando cominciò a scrivere Passaggio in ombra, aveva solo trentaquattro anni. Eppure il romanzo comincia così, con un’immagine di disfacimento che introduce la bruciante narrazione di una vecchiaia precoce, abbondantemente oltre il dato anagrafico non solo dell’autrice ma della stessa Chiara: la cui data di nascita è collocata negli anni della guerra, più o meno intorno al ‘43. Ma non è solo questione d’età. La devastazione di Chiara è totale, e quasi compiaciuta – e quindi sospetta – l’insistenza con la quale essa è evidenziata ai lettori.
C’è la malattia, per esempio, la quale inevitabilmente ci proietta in un universo simbolico che trascende il dato patologico. L’asma peraltro – verremo a sapere poche pagine più avanti – Chiara l’ha ereditata dalla nonna, come pure il nome. Essa, però, è solo l’apparenza, il male è un altro, non semplicemente per una nostra opzione interpretativa ma nella dinamica stessa del romanzo. «Bionda e delicata, la pelle sottile… ancora slanciata, malgrado le cinque gravidanze… una vera bellezza», ballerina abilissima tanto da sognare da ragazza «un destino d’artista»: Chiara, dunque, nonna paterna della protagonista, ancor giovane d’asma addirittura ci muore, apparentemente.
La realtà, infatti, è che: «Sisina, la promessa sposa di Totone, preparò la stanza per la veglia funebre e, prima che la casa si riempisse di donne, trovò la scatola di pasticche nascosta sotto al materasso. Poiché era analfabeta, la mostrò a Giovanni Cantalupa, che faceva il maestro ed era cugino della morta. Gliela fece vedere solo un attimo, con un gesto segreto della mano, ma lui si spaventò. Le disse che erano pillole per aprire i polmoni e che le buttasse subito via. Senza parlare, Sisina le inghiottì nelle tasche profonde del grembiale».
In realtà, dunque, Chiara non è morta di asma ma – probabilmente – s’è ammazzata, soffocata dalla mentalità arcaica di un mondo biblico che non conosce l’indulgenza e perciò ha condannato senza appello la sua giovanissima figlia Giuppina, rea d’essersi fatta mettere incinta da un uomo sposato e quindi prossima a partorire un bastardo. Di una Chiara e dell’altra non è tanto il fisico ad essere fragile e sensibile quanto l’anima, l’aria che manca loro è quella sociale dell’emancipazione.
L’asma è una metafora. La verità non è nelle apparenze ma al di là delle parole. C’è una pratica antica della reticenza che è ipocrisia e viltà: l’autrice la sovverte, utilizzandola come espediente retorico per dar forza ai fatti, non per nasconderli. Spesso, al pari che in questo caso, la Di Lascia non dice ma allude. L’effetto è ugualmente esplosivo, il disvelamento pieno, pur attraverso troncamenti e allusioni che lo velano di una certa pietas.
Nella propria rappresentazione, invece, la narratrice non usa alcun filtro, tutt’altro. La regola della discrezione vale per gli altri, non per sé. Con se stessa Chiara è impudica e feroce, ha solo parole dure e nette di condanna, troppo dure – però – per essere vere. Anche quando sembra inequivocabile, anche allora la verità della Di Lascia è al di là delle parole.Passaggio in ombra non è romanzo semplicemente realistico né tanto meno autobiografico. Il dolore che da esso gronda non è solo personale o familiare.
La vicenda dei D’Auria non è un caso privato. I personaggi del romanzo sono figure, exempla: «tanto più reali quanto più integralmente interpretati». Essi conservano il dato storico ma lo trascendono perché sono volutamente inseriti dall’autrice in un piano superiore di discorso (visionario e non ideologico) che non annulla ma vivifica la loro umanità.
Il ventre e il sangue
«Tutto il ciarpame che è stata la mia vita»: già in avvio il bilancio che Chiara fa della propria esistenza è definitivo, assoluto, irrevocabile. Nelle pagine successive questo giudizio viene ribadito su un duplice piano, sociale e sessuale. Chiara è in pratica una barbona senza sangue, «inseguita di casa in casa, di strada in strada… dai mille mostri atroci della sua fantasia».
Una sera d’agosto incontra in autobus «una medusa con i capelli attorcigliati e rigidi come serpenti che le coprivano il viso». La donna – una di quelle «folli che per vivere hanno scelto la strada» – si mette ad urlare nella sua direzione: «vergognosa, e senza sapere cosa fare, mi guardai la punta delle scarpe e strinsi al corpo le buste della spesa… Un pensiero si fece strada nel disagio della mente: se solo avessi smesso di essere vigliacca, sarei stata come quella donna. Se avessi spinto me stessa oltre la soglia dell’orrore del vuoto, se avessi guardato in faccia al mito che pietrifica a un unico svelamento, niente più mi avrebbe trattenuta dalle regole del vivere comune! Allora, anch’io avrei potuto urlare contro uno sconosciuto l’anatema della mia esistenza».
Ma ancor più colpisce la conclusione di questa riflessione nella quale la narratrice definisce «ibrido» il proprio destino e se stessa «creatura di confine… prigioniera della propria vita», incapace sia di liberarsi delle cose «fino a diventare una mendicante» che del passato «fino a divenire una folle». Quest’idea di se stessa come di una persona irrisolta, ha un suggello materiale nella precoce sterilità del corpo fisiologicamente ancora giovane ma già «senza sesso né sangue». Nel marchio d’infamia di quel flusso negato in anticipo Chiara vede una rivolta della natura contro lo spreco che è stata la sua vita incapace di generarne un’altra.
Il Sud deve ritrovare la parola che ha perduto: come Chiara D’Auria il sangue.
Tarocchi, illusioni e tradimenti
Gli faceva le carte e leggeva l’oroscopo, li proteggeva e nutriva, ne ascoltava le storie e interpretava i pensieri. Perciò i suoi amici la chiamavano la strega. E a lei piaceva quest’affettuoso soprannome, affibbiatole in realtà anche per quel suo carattere spigoloso che non risparmiava verità e litigi a nessuno. A Rocchetta la conoscevano tutti quella «pazza radicale» che – sin da ragazzina – con occhi dolci e modi ribelli sbeffeggiava i sacri luoghi comuni dell’angusta mentalità di paese e sognava una vita di grandi ideali e forte sentire. Come poi è stato.
Alla politica Mariateresa consegnò il proprio entusiasmo giovanile, sacrificando ad essa quella laurea in Medicina che avrebbe dovuto conseguire a Napoli, dove invece che in Facoltà era più facile incontrarla in piazza ad urlare e raccogliere firme dietro un banchetto improvvisato a sostegno di qualche campagna referendaria. Come a Rocchetta, dove arrivava all’improvviso, saliva su un palco e gridava la propria passione politica… per poi, caso mai, andar via piangendo. Per la commozione, la rabbia o semplicemente perché si era rotto il microfono e nessuno l’aiutava. Non è leggenda, è verità.
A Roma, infine, fu parlamentare e vicesegretaria di Pannella.
Eppure, ad un certo punto, nell’Ottantotto, come ancor prima e molto più drasticamente di lei tanti altri della sua generazione, Mariateresa ha sentito che tutto questo non bastava a soddisfare il suo bisogno di identità. E si è ritirata nell’ombra a coltivare un altro sogno. Esaltante ma ancora più dispotico e tiranno della stessa politica. Soprattutto per una come lei non abituata a fare le cose a metà. Tutto o niente. Il suo romanzo doveva essere la sua vita. Perciò la scrittura l’ha subito rimandata indietro nel tempo al mondo primigenio dell’infanzia e dell’adolescenza. L’ha rimandata a Rocchetta, «il nero rospo schiacciato sulla collina», e nella clandestinità di se stessa ripercorrendo la sua vita e trovando la propria definitiva verità umana nelle illusioni principesche di un’infanzia felice benché tormentata, Mariateresa ha compiuto l’azione politica più potente della propria vita.
Passaggio in ombra come ogni romanzo è tante cose e tutte complesse ma soprattutto è la favola bella dell’età innocente e crudele della fanciullezza capace con la sua forza di rovesciare in accusa ogni offesa del mondo. Chiara è una potente immagine del Sud. Un monito. All’inizio del romanzo, l’autrice delinea un quadro devastante delle condizioni del suo alter ego narrativo. Nelle stesse pagine, però, dice «mi vestivano come un’attrice del cinema… avevo i capelli biondi e una testa leonina che si faceva guardare… principessa esule su questa terra senz’anima… forse ero nata per un grande destino».
Passaggio in ombra è il racconto di una vita lacerata, scandita in due tempi in conflitto tra loro. La narrazione stessa origina da questo contrasto. Quello di Mariateresa Di Lascia è un romanzo sul tradimento delle illusioni e delle aspettative dell’infanzia e dell’adolescenza che nell’età adulta ricadono sulle spalle della protagonista come macigni fino a schiacciarla.
Anche noi gente del Sud in un passato remoto ed anche prossimo – fino a ieri… e chissà quanti anche oggi – abbiamo creduto come Chiara d’essere avviati ad «un grande destino» quando, per esempio, hanno impiantato questo e quello a Manfredonia a Pozzuoli a Taranto a Melfi a Termini Imerese e poi ancora chissà dove… e ora – adulti – ci ritroviamo «senza età e senza sesso» e cioè senza identità, «strani animaletti dall’aria spaurita».
L’enorme e prezioso patrimonio di una felicità possibile del tutto svanito… a meno che non ritroviamo la parola perduta. Oggi più che mai. Come un giorno l’ha ritrovata Chiara grazie a Mariateresa.
La grandezza di un’opera narrativa non dipende dalla formula né dal contenuto ma dalla quota di vita che un autore riesce ad intercettare e trasfondere in essa. Misteriosamente, attraverso le infinite alchimie della lingua e dello stile. Mariateresa, la strega, non leggeva le carte solo agli amici: guardando dentro sé con quel suo modo duro di dire le cose, con quella misura aspra e forte dei sentimenti ha letto nell’anima della sua gente e della propria terra dandole voce con l’estremismo narrativo e sincopato, le enfasi e i silenzi, le forzature e le ellissi della sua «conoscenza fantastica».
Domani
Sono passati anni luce dal tuo romanzo, dal premio e da quella sera di festa, ma per noi gente del Sud ancora resta la ferita aperta di questa domanda senza risposta: «Cos’è che spezza la forza e la perverte conducendola a colpire il proprio creatore?» Non lo so, dice Chiara. Nessuno lo sa, ma noi non saremo perdonati se non riusciremo a scoprirlo. Questo è certo.
La creatività meridionale non eluda questa domanda ma la affronti a viso aperto. Il Sud deve ritrovare le proprie radici raccontandosi senza la retorica della tradizione. Ma con la dolorosa consapevolezza della propria condizione. Senza macchiette e populismo. Ma con fierezza. Senza angustie campanilistiche. Ma con sguardo aperto all’orizzonte mediterraneo. In arte, in letteratura e in ogni campo, l’arma vincente è quella della conoscenza. Che è sempre impietosa e senza veli. Anche quando è fantastica. Come in Passaggio in ombra.
(5 – continua)