MANIFESTIAMO. PERCHÉ? E POI?

di Beppe Attene

La “manifestazione di piazza” ha da sempre, tra le varie forme di espressione collettiva, una sua particolare riconoscibilità e anche una specifica e particolare efficacia.

Basta pensare, per rendersene conto, ai moti milanesi del 1898 contro la legge sul grano, che il Generale Bava Beccaris stroncò ferocemente causando oltre 80 morti.

Sarà in riferimento a quella manifestazione e a quella strage che, due anni dopo, Gaetano Bresci ucciderà a Monza Umberto I.

          La riconoscibilità e la potenza della manifestazione di piazza sta nell’attribuirle un elemento di necessità, per la verità non sempre presente.

Si ritiene, in pratica, che quella scelta espressiva derivi dalla presenza di contenuti che non trovano altra maniera per manifestarsi.

Essi sarebbero talmente urgenti da spingere grandi quantità di persone a coalizzarsi temporaneamente in maniera molto visibile.

Ovviamente, se ci fossero forze politiche o culturali che rappresentano efficacemente quelle pulsioni e quelle richieste, i cittadini non farebbero ricorso a quella forma di presenza e di lotta.

          Un tipico esempio che conferma quanto sopra è la “marcia dei 40.000” dell’ottobre del 1980.

A seguire una dura fase di lotte sindacali contro una ristrutturazione della FIAT che prevedeva una forte riduzione di personale, Enrico Berlinguer, recatosi a bocca di fabbrica, aveva garantito l’appoggio suo e del PCI se la FIAT fosse stata occupata dai lavoratori.

Ma Torino respinse questo innalzamento dello scontro di classe (come veniva allora definito).

Le strade si riempirono di cittadini contrari a quanto stava per avvenire, con una forte presenza di quelle stesse tute blu che CGIL e PCI dichiaravano di voler difendere.

Tutto in un giorno cambiò.

          Un’altra riflessione va aggiunta però a questo ragionamento.

Per dirla con chiarezza, non si può ritenere che quanto matura profondamente dentro un contesto sociale sia di per sé positivo.

Torniamo a quel 10 giugno del 1940 in cui una folla entusiasta accoglie, dopo diversi mesi di neutralità, la notizia che l’Italia è entrata in guerra contro la Gran Bretagna e la Francia.

Il consenso al Duce è vastissimo ed assoluto.

Mussolini era un abilissimo semplificatore dei concetti. Tutto sommato, aveva generalmente mantenuto quel che prometteva.

Perché non essere con lui quando prospettava una facile e rapida vittoria? In fondo Hitler passeggiava già per Place de la Concorde indicandone le bellezze al fido architetto.

          Noi, certo, conosciamo il seguito.

Sappiamo che il 25 luglio del ’43 i camini romani si intasarono per la frenesia con cui gli entusiasti di ieri bruciavano le camicie nere e i fez che avevano indossato con tanto fervore.

Conosciamo la fine della storia e non riusciamo a renderci conto di come si potesse aderire con tanta convinzione e facilità all’idea della guerra. Ma ciò accadde.

Il tempo svelò i drammatici limiti del disegno mussoliniano che divennero senso comune della società italiana.

Da qui, nelle forme del possibile, quell’epopea del coraggio e della dignità che chiamiamo Resistenza e che coinvolse molte più persone dei combattenti con le armi in pugno.

          Si deve naturalmente considerare che il diffuso consenso al mussolinismo del ’39\’40 era guidato e generato anche da un forte sistema di propaganda e comunicazione.

Dovremmo però forse accettare anche l’idea che la società civile non genera nulla in modalità autoctona e che quando una sensazione o un atteggiamento prevale in maniera forte e diffusa vi è sempre stata una inseminazione iniziale.

          W la piazza, dunque e certamente!

Ma il rapporto con i contenuti che esprime va spostato su un altro piano.

Veniamo oggi scoprendo quanto profondo e diffuso sia il sentimento antiebraico del democratico popolo italiano.

Sarebbe contento l’ex prete Giovanni Preziosi se scoprisse che i suoi decenni di deliri antisemiti che portarono anche al “Manifesto della razza” del 1938 hanno lasciato tanti vivaci residui da poter riapparire tutti in pieno ed esibito fulgore.

Peccato che il 27 aprile del 1945 abbia buttata giù dalla finestra la sua compagna, oltre a se stesso.

          Non è ovviamente facile rapportarsi con questa evidenza.

Quel che succede non va confuso con la critica, anche aspra, alla politica del governo israeliano. Quando combattevamo contro la guerra del Vietnam non ci sognavamo di condannare il popolo americano, sostenendo che ucciderne uno non era reato.

Siamo di fronte a una forma di psicosi collettiva che non può essere combattuta vietandone i contenuti allo scopo, pur nobilissimo e corretto, di difendere gli ebrei italiani.

Temo, anzi, che l’antisemitismo tragga forza dalle giuste condanne che subisce.

          In quanto forma paranoica esso si nutre anche dei rifiuti che genera. Essi, soprattutto se provengono dall’alto, vengono interpretati come dimostrazione di avere ragione.

Per coloro che, pur sapendo che è una falsificazione, leggono entusiasti “I protocolli dei Savi di Sion” non vi è miglior dimostrazione dell’occulto potere ebraico se Palazzo Chigi, il Quirinale e magari anche il Vaticano condannano l’antisemitismo.

La disgustosa profanazione della statua di Giovanni Paolo II è figlia del suo essere andato in Sinagoga ad abbracciare quelli che chiamava “i nostri fratelli maggiori”.

          Cosa fare, cosa fare dunque?

In primo luogo accettare l’idea che in una situazione di forte malessere sociale, non espresso e rappresentato né dalle forze politiche né dal Governo, individuare un colpevole più colpevole di tutti è quasi inevitabile. Nulla sembra prestarsi meglio del popolo ebraico, da sempre.

          Non stancarsi, in ogni sede, di rappresentare e raccontare l’osmosi profonda tra la storia del Popolo Italiano e la presenza ebraica.

Siamo l’unica Nazione a non avere mai preteso l’espulsione degli Ebrei dal proprio territorio.

I romani consideravano la Fede Ebraica come religio licita e successivamente da quella micro – comunità sono venuti fuori molti garibaldini, tanti protagonisti del Risorgimento, tanti artisti e intellettuali che hanno dato lustro all’Italia.

E, magari, ricordarsi anche del Generale Emanuele Pugliese. Venne privato dei gradi e del lavoro dopo le Leggi Razziali. Dopo il primo e disastroso attacco inglese al porto di Taranto, Mussolini gli chiese di riorganizzarne difese.

Pugliese accettò con l’unica richiesta che gli fosse stato permesso di indossare la divisa italiana.

          E infine, ma non per ultima cosa, poiché nulla nasce dal nulla i nostri apparati di sicurezza interna dovrebbero impegnarsi a considerare la possibilità che il territorio italiano, come quello di altri Stati, sia stato pervaso da “missionari del terrorismo” coraggiosamente e intensamente impegnati a diffondere atteggiamenti e convinzioni dallo Statuto di Hamas il cui compito storico è e rimane cancellare lo Stato d’Israele.

          Ora dobbiamo tutti sperare che si giunga rapidamente a un accordo di pace.

Da quel momento in poi non scatterà comunque la resa del terrorismo islamico e noi vivremo tutti momenti assai drammatici.

Prepararsi non sarebbe male, ma anche questa è un’altra storia.


Commenti

2 risposte a “MANIFESTIAMO. PERCHÉ? E POI?”

  1. Avatar marcello paci
    marcello paci

    straordinaria riflessione!

  2. Avatar Dario Cusani
    Dario Cusani

    Io mi auguro che i “Venti di guerra” iniziati con Putin e l’invasione della Ucraina con la Pace tra ebrei e palestinesi arrivi anche per l’altro fronte di guerra e sopratutto a una NUOVA ERA di solidarietà tra i popoli per ricostruire un MONDO NUOVO senza odio ma con SOLIDARIETÀ verso i più deboli e sofferenti!!!