L’UE SARA’ PURE VENERE, E GLI USA MARTE, MA GLI INTERESSI RESTANO COMUNI

di Luigi Troiani

Negli anni ’90, l’abbattimento del muro di Berlino e la fine del comunismo ad est, liberano gli europei dalla percezione della minaccia sovietica, ma non dal bisogno della tutela strategica statunitense.

Nonostante decenni di richieste di Washington per un maggiore impegno per la difesa, i governi dei paesi membri di quella che intanto sta diventando l’Unione Europea, non intendono destinare risorse aggiuntive agli apparati militari, salvo decidere, a cavallo del millennio, di avviare sperimentazioni di “corpi europei” come embrione della possibile armata Ue.

Mentre si accentua la conflittualità euro-statunitense nel commercio internazionale, si cristallizzano i primi dissapori politici, in particolare rispetto al futuro dell’area balcanica e post iugoslava. L’atteggiamento europeo, che verrà replicato praticamente in tutte le crisi che si susseguiranno dalla fine dell’Urss, è conservativo: l’opzione a favore dello status quo prevale su altre prospettive, anche quando in gioco compaiono democrazia e diritti umani.

Gli Stati Uniti, non più forzati a scendere a patti con Mosca, non si sentono vincolati al conservatorismo europeo, e mettono mano a quella che, dal punto di vista dei loro interessi, appare la grande occasione per la ristrutturazione di equilibri e alleanze nel vecchio continente.

Anche uno studioso ragionevole come Samuel P. Huntington sente, in quel periodo, la suggestione dell’America come unica superpotenza, benché rilevi che Washington debba continuare a fare i conti con altri poteri. Scrive in The Lonely Superpower, uscito su Foreign Affairs, nel numero di marzo del 1999:

«Adesso c’è una sola superpotenza. Ma ciò non significa che il mondo sia unipolare… La politica internazionale contemporanea… è uno strano ibrido, un sistema uni-multipolare con una superpotenza e diverse potenze maggiori…»

Gli obiettivi che gli Stati Uniti in quegli anni intendono perseguire possono essere così riassunti:

– inserire stabilmente la Russia post-sovietica, indebolita ma pur sempre potenza nucleare, nel concerto internazionale,

– accogliere i paesi europei di nuova democrazia nelle istituzioni della cooperazione intraeuropea e interatlantica nate negli anni di guerra fredda (Nato e Ue innanzitutto), anche per metterli al riparo da sempre possibili rigurgiti russi dello spirito di potenza,

– estendere all’intera Europa le istituzioni del mercato e della democrazia pluralista.

I primi due decenni del nuovo secolo documenteranno da un lato le crisi aperte dalla Russia di Putin con Georgia e Ucraina, nonché gli atteggiamenti minacciosi di Mosca verso le repubbliche baltiche; dall’altro le derive politiche di paesi come Ungheria e Polonia.

L’Ungheria, più degli altri, si farà notare per atteggiamenti decisamente non in linea né con la tradizione liberaldemocratica dell’Unione Europea, né con quella del gruppo dei Popolari europei

del quale un suo partito, Fidesz è stato membro sino a marzo 2021.

Emergeranno in particolare posizioni nazional populiste nei confronti dei richiedenti protezione internazionale, che diventeranno norma costituzionale nel giugno 2018 (favorevoli 160 parlamentari su 199). Budapest inserirà nella costituzione norme come reato di agevolazione all’immigrazione illegale, divieto di aiuto a migranti e a far campagna a loro favore, “divieto di collocare cittadini stranieri sul territorio del paese, salvo l’autorizzazione del parlamento” (norma questa che lede la correttezza dei rapporti con l’Unione Europea, esplicitando l’uscita definitiva dai meccanismi di ricollocamento di richiedenti asilo e di quote nazionali).

L’atteggiamento di strisciante aggressività russa verso i vicini, nel terzo decennio compie un salto di dimensione con l’invasione dell’Ucraina del 2022. Nato, Usa e Ue forniscono una risposta decisa e compatta alla sfida russa, segnalando il rinnovarsi della solidarietà atlantica.

Eccezione significativa, l’Ungheria. Il governo di Budapest rifiuta il passaggio ai carichi di armi occidentali destinate a sostenere la resistenza ucraina. Inoltre blocca l’estensione delle sanzioni antirusse dell’Ue al settore dell’energia, anche al fine di preservare le condizioni per la costruzione sul Danubio di una centrale che genererà energia utilizzando due reattori nucleari russi.

I fatti del 2022 confermano le critiche che da molte parti erano state rivolte al disegno degli Stati Uniti, evidenziandone errori di impostazione, che possono essere riassunti come segue:

– si attribuiva alla Russia post-sovietica la capacità di distanziarsi dalla sua natura millenaria autocratica ed espansionista;

– si sopravvalutava la capacità dei Peco – paesi dell’Europa centro orientale – di assumere tutte le conseguenze della scelta di dotarsi di un regime democratico e di aderire all’Unione Europea, stante il fatto che diversi Peco venivano da culture politiche autoritarie e nazionaliste;

– si sottovalutavano le conseguenze strategiche su Ue e Nato, della difficoltà istituzionale e strutturale nella quale venivano calate le neonate istituzioni dell’Unione Europea dall’impegno di integrare velocemente e pienamente i Peco e aprire ad altri paesi candidati, come l’Ucraina, tutt’altro che pronti a uniformarsi all’acquis communautaire.

La presidenza di George W. Bush operò due opzioni che avrebbero avuto forte rilevanza nel rapporto interatlantico:

– accantonò il metodo multilaterale che suo padre aveva adottato nell’immediato periodo seguito alla caduta del socialismo nell’Europa centro orientale, ritenendo che ciò conferisse autonomia ai processi decisionali statunitensi, in particolare dopo l’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre 2001;

– tese a privilegiare i “nuovi europei”, più riconoscenti e acquiescenti ai voleri di Washington rispetto ai riottosi e critici europei d’occidente.

Washington avrebbe mostrato di ritenere l’Unione Europea troppo ripiegata su questioni interne come la politica agricola, il progetto di costituzione, gli allargamenti), e che di conseguenza non si

presentasse come partner adatto per un gioco che, improvvisamente accelerava, ad esempio con le sortite militari statunitensi in Afghanistan e Iraq.

Nell’episodio dell’intervento in Iraq, foriero di conseguenze drammatiche per Medio Oriente ed Europa incluse la nascita di Daesh e l’esplosione del terrorismo islamista in occidente, e il crescere di profughi e richiedenti asilo, l’Ue e la gran parte dei paesi membri non condivideranno il decisionismo di Bush, a sua volta critico verso l’Europa per processi decisionali ritenuti lentocratici e inconcludenti.

È incontestabile che il multilateralismo adottato da George Bush, dopo la caduta del muro, avesse generato adesioni alla ricerca del modello che attuasse la teoria del “nuovo ordine internazionale”.

Al tempo stesso aveva partorito programmi interatlantici come Phare e Bers: il primo per i necessari progetti di assistenza e ristrutturazione delle economie post comuniste (lanciato nel 1989), il secondo per gli strumenti finanziari necessari alla ricostruzione e allo sviluppo attraverso una banca dedicata (costituita a Parigi nel 1990).

Non ultimo, aveva comportato l’inclusione della Russia al tavolo delle decisioni sulla pacificazione e l’uscita dalle ristrettezze economiche alle quali si trovavano confrontate le società post comuniste. Quel patrimonio veniva disperso e ad esso si sostituiva il tentativo, non coronato di successo, di un ordine internazionale imperniato sul ruolo esclusivo ed escludente degli Stati Uniti.

Anche in questo caso, gli Stati Uniti sembrano non comprendere, e comunque non accettano, tempi e modi con i quali l’alleato europeo intende elaborare i futuri rapporti con i Peco e la Russia, scegliendo di metterlo di fronte a fatti compiuti.

La percezione statunitense della realtà europea e post-sovietica, nel nuovo secolo, è filtrata da una nuova cultura politica neoisolazionista e unilateralista che guarda agli Stati Uniti come una “iperpotenza” unica e inattaccabile. Ciò che James Schlesinger, repubblicano ex ministro ed ex direttore della Cia, chiama in quegli anni il “gigante benevolo”, lascia apparentemente deperire le istituzioni internazionali e multilaterali perché le reputa poco efficaci.

Ennio Caretto nel luglio 2001 così sintetizza la situazione sul Corriere della Sera:

«Bush … di fatto propone alla Russia e agli alleati di sostituire alle infrastrutture dei trattati quelle della Pax americana: lo scudo spaziale, una Unione Europea allargata ma conglobata nella Nato, sanzioni contro i cosiddetti stati fuorilegge, commerci e movimenti di capitale incondizionati. James Schlesinger, un ex ministro ed ex direttore della Cia, repubblicano, obbietta che l’America è sì un benevolo gigante, ma sta chiedendo al mondo di acconsentire a che ne sia insieme il gendarme e il giudice.»

Dette pretese confluiranno nella crisi irachena che avrà, tra gli altri perniciosi effetti, quello di convincere il presidente Putin sulla fattibilità del proprio progetto di rilancio russo, rafforzato dalla

consapevolezza della divaricazione in atto tra Usa e Ue e all’interno della Ue. Lo sciagurato intervento in Iraq oltre a produrre la divisione tra Stati Uniti e Ue, divide gli stessi europei. Da un lato leader come Tony Blair, José María Aznar, Silvio Berlusconi e la quasi totalità di quelli dei paesi di nuova adesione. Dall’altra i leader dei due “grandi” Germania e Francia, con il nucleo duro degli stati fondatori, eccezion fatta per l’Italia.

Contrariamente alla politica tradizionalmente seguita dagli Stati Uniti perché l’Europa si unisse e parlasse con unica voce, Washington gioca, contro il suo stesso interesse, a contribuire alle divisioni tra paesi del vecchio continente, e fa da apprendista stregone nel dibattito tra interventisti e non interventisti lanciando la tesi delle due Europe: la vecchia e la nuova, dove la nuova (i Peco) risulterebbe quella che condivide la visione più appropriata della politica internazionale.

Rende popolare l’espressione su “vecchia e nuova Europa”, l’aggressività verbale del segretario alla Difesa di George W. Bush, Donald Rumsfeld, l’uomo che costruisce a tavolino le ragioni che devono giustificare l’aggressione statunitense a Saddam Hussein, spedendo l’incolpevole segretario di stato Colin Powell alle Nazioni Unite a mostrare in mondovisione delle fialette, mendaci testimoni delle inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam. Ma sono tutti i neocon del partito repubblicano a giocare la carta degli europei “buoni” opposti agli altri ingrati e non più disponibili a seguire pedissequamente ogni scelta americana. 

Scrive Sandro Viola su La Repubblica, nell’ottobre 2003:

«Compio un breve sondaggio tra Budapest e Varsavia cercando di capire sino a che punto abbia ragione Donald Rumsfeld, il ministro della Difesa di Washington, quando parla di due Europe. Una “nuova” composta dai paesi ex satelliti dell’Urss ormai membri della Nato, che a maggio prossimo entreranno nell’Unione Europea. E una “vecchia”, vale a dire Francia, Germania e i loro seguaci, i paesi che la guerra in Iraq ha posto in rotta di collisione con l’America. […] dalle risposte che ricevo, la sensazione è che nell’Unione Europea ci saranno dal prossimo anno in poi due gruppi di paesi. Uno

meno sensibile e nervoso in fatto di sicurezza, dunque meno Pentagono-dipendente […] un altro gruppo invece assai più ansioso, pervaso da un sentimento di vulnerabilità, che si fida soltanto del sostegno militare americano.»

Bush si spinge sino a far balenare l’idea che sarebbe opportuna la revisione degli equilibri di potere interni all’Unione Europea, ad esempio con la promozione sul campo della fedelissima Polonia che, stretta fra i due giganti Russia e Germania, andrebbe meglio garantita nei rapporti di forza continentali. È una posizione che ha, tra gli effetti, di peggiorare le condizioni polacche al tavolo del negoziato per l’ingresso nell’Ue sino alla provocatoria espressione del presidente francese Jacques Chirac che intima al governo polacco, in quanto nuovo venuto nella famiglia storica che ha fatto l’Unione, di cambiare atteggiamento e mettersi sull’attenti.

Al tempo stesso, mentre i nuovi membri si integrano con le democrazie dell’occidente europeo, lievita la differenziazione in termini di valori e politiche, dentro il cosiddetto emisfero occidentale.

Un valido commento su questo sviluppo viene prodotto da Dominique Moïsi nel saggio pubblicato da Foreign Affairs nel novembre 2003.  Lo studioso, nell’avvio, è esplicito:

«Esiste ancora l’Occidente? Ci siamo spostati da un mondo con due Europe e un Occidente a un mondo con un’Europa e due Occidenti?»

Moïsi richiama quante ragioni le due coste dell’Atlantico abbiano a disposizione per sentirsi diversi, ma ciò che trova inaccettabile è il modo col quale la diplomazia di Bush W. cerca di dividere gli europei, distinguendoli tra i buoni in arrivo dal freddo dell’esperienza sovietica e i cattivi recalcitranti occidentali. 

La divisione di Donald Rumsfeld tra “nuova” e “vecchia” Europa ha tormentato anche le relazioni transatlantiche. Quella categorizzazione non è solo intellettualmente falsa, ma anche politicamente offensiva. Se non altro, la nuova Europa – l’Europa dell’Unione Europea – è stata guidata dal condominio franco-germanico. La vecchia Europa, al contrario, consiste dei Balcani o della maggioranza dei luoghi dell’Europa orientale, innanzitutto e sopratutto la Russia, paesi che si stanno ancora battendo per istituzioni più democratiche. 

Dare per scontato, come alcuni americani fanno, che il livello di modernità di un paese sia determinato dal suo schierarsi con Washington è insieme fuorviante e narcisistico all’estremo.

Sempre a seguire Moïsi, un rischio tremendo poteva scaturire dal consentire alle differenze di proliferare ulteriormente:

Il caso di peggiore scenario per l’America sarebbe che l’occidente America si trasformasse in una sovradimensionata Prussia, bullizzando e rimuginando, ossessionata dalla forza militare – e l’occidente Europa in una sovradimensionata Svizzera, egoista e parrocchiale, avvolta di neutralità. Per evitare questo risultato, devono essere invocate dai leader definizioni positive e non negative dell’identità transatlantica in ambedue i continenti.»

Appena qualche mese prima, nel 2003, mentre Bush portava a compimento la guerra sbagliata e illegale contro l’Iraq di Saddam Hussein, Robert Kagan aveva pubblicato un libro smilzo dall’attraente titolo Of Paradise and Power America and Europe in the New World Order.

Nel saggio veniva esposta l’evidente incompatibilità tra Usa e Europa, motivandola con uno slogan che sarebbe presto diventato celebre, «Gli americani sono di Marte, gli europei di Venere» sulla cui ambiguità si dirà. Si noti che l’autore, oltre a conoscere la macchina della politica statunitense, era addentro alle cose Ue, avendo lavorato per un triennio a Bruxelles.

(da La diplomazia dell’arroganza, L’Ornitorinco ed.)


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