Fieto, fieto fietillo
Chi l’ha fatto?
L’ha fatto chilo…
Così si apre, dopo le prime battute, il romanzo “Il fuoco che ti porti dentro” di Antonio Franchini candidato, fra i primi 5 selezionati, al premio Campiello 2024. Madre dalla radice sanscrita “matr” che poi diventerà “mater” in latino, ovvero colei che ordina, prepara e sopporta il dolore della nascita del frutto dell’amore.
Quando si pronuncia la parola “madre”, immediatamente, se ne percepisce tutta la sacralità che non consente di formulare liberamente altro concetto che non sia legato a pensieri quali amore, bontà e abnegazione.
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Nel romanzo in questione, assistiamo ad un capovolgimento di tali valori per lasciare spazio alla peggiore delle esternazioni riguardante un argomento così complesso quale quello generazionale di madre-figlio. Angela, la madre protagonista del romanzo, viene esaminata dal figlio, spogliata di quell’alone celestiale che avvolge ogni donna-madonna, che assolve al compito assegnato dalla natura: partorire il figlio, continuare la specie, attraverso un processo biologico, che, il più delle volte, si riduce solo a questo quando per caso o per strupro, una donna rimane incinta contro la propria volontà.
Svuotata di tutta la cultura religiosa e cattolica che investe ogni donna quale esecutrice ubbidiente a un disegno divino, essa ne subisce le conseguenze non sempre gradevoli che accompagnano il suo essere animale. Così, la madre diventa nel romanzo l’involucroricettacolo
di ogni condizione umana e le si attribuiscono effetti corporei imbarazzanti quali puzze, rinsecchimenti, defiance organici.
Con l’invecchiamento, poi, il conseguente inasprimento di
sentimenti che rivelano la sua indole egoistica, che si aggrappa alla sue ossa fragili e ai suoi organi che, in mancanza di altro, diventano i suoi primari interessi aggravando così la sua esistenza e quella di coloro che le sono accanto. Il romanzo è ambientato negli anni ‘60, quando ancora la società non era del tutto soggiogata da una cultura superficiale, tesa al superfluo e al piacere futile: gli anziani avevano un ruolo, anche se già ridotto, nell’ambito familiare.
Oggi, alla luce dei nuovi sviluppi in ambito sociale, morale ed etico, nonché tecnologico, la vita è diventata ancor più frenetica. In più, l’avvento massiccio dei social, che investono ogni campo della nostra
esistenza, contribuisce a renderci sempre più distratti e cinici nei riguardi dei più deboli e quindi degli anziani. Troppo spesso, noi affidiamo la custodia dei nostri cari a guardiani mercenari i quali
li accudiscono come se fossero bambole: li lavano, li pettinano e li vestono coi loro abiti conservati in naftalina!
La visione di una donna insoddisfatta per la sua mancata collocazione in una società che essa stessa rinnega e critica, senza esclusione di colpi, ci lascia attoniti, anche perché lo scrittore ce la racconta nel modo peggiore, facendo parlare l’interessata in stretto dialetto napoletano che, quando non scremato delle sue parti più volgari, risulta altamente spregevole.
Attraverso la descrizione della propria madre, che può essere interpretata anche come quella riferita ad una società malata ed insoddisfatta, lo scrittore non lascia dubbi sulla sua sofferenza, dovuta ad un rapporto malato che intercorre tra madre e figlio, traslato di un popolo tra sé e la società. Ma chi più della madre avrebbe potuto prestarsi quale riferimento per un’analisi impietosa del nostro essere adesso, senza apparente appello di redenzione?
Il risultato è il ritratto di una madre cattiva, egoista, con il ventre devastato da una ferita slabbrata che giustifica il marciume che le fermenta dentro, pronta a sparare su chiunque, facendo di tutta
l’erba un fascio, includendovi anche i propri figli visti come persone “altro” che, insensibili alle loro richieste di amore, appaiano come avversari e carnefici, colpevoli di un mancato rapporto affettivo. Un detto napoletano recita: una madre basta per cento figli, cento figli non bastano per una madre. I figli danno nella misura un cui una madre sa prendere da loro, per cui un figlio può dare tutto, tanto o niente, ciò dipenderà solo dalla sensibilità che alberga in ogni mamma, nonché dalla saggezza di una vita vissuta e non subita.
Oltre il racconto interessantissimo e toccante, potremmo leggervi, tra le righe, una possibilità di redenzione da parte di un figlio, che, pur
essendo deluso, vuole rivedere nel comportamento della madre quasi un pungolo per la realizzazione della propria esistenza. La mamma è sempre la mamma anche quando il dolore per la mancata esternazione di amore, la rende debitrice nei riguardi di colui il quale, in fondo, è il suo alter ego.
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