L’AMERICA DI TRUMP

Dati, cause e pretesti dell’ascesa del tycoon

di Guido S. Mondino

“Tale è la genesi del fascismo: lo vedi se accendi la luce, scompare quando la spegni. Sai che è pericoloso, ma pare lontano. All’improvviso ti rendi conto che ci sei dentro fino al collo senza esserti nemmeno accorto del cappio sospeso”. Questo mi diceva, prendendomi da parte quando ero un ragazzino, mio nonno che era stato vicesindaco di un comune di Val Maira nel cuneese, picchiato dai fascisti nel 1944 perché ritenuto complice dei partigiani. 

La metafora sulla genesi del fascismo si applica perfettamente all’America di oggi: polizia di frontiera (ICE) trasformata in squadrismo legittimato da decreti antimmigrazione intrisi di razzismo e suprematismo; militarizzazione delle città governate dal partito di opposizione con il puro intento di intimidire e minacciare; epurazioni di dirigenti nei ministeri della Giustizia, Sanità, Difesa, Istruzione e Interni; tentativo di eliminare l’indipendenza della banca centrale, la Federal Reserve; giudici, studi legali e avversari politici inquisiti come nemici; annullamento dei fondi a università, ricerca, meteorologia e scienze in generale; testate “democratiche” imbavagliate, escluse dalle conferenze stampa della Casa Bianca e citate in giudizio; legge finanziaria favorevole ai ricchi e svantaggiosa per i poveri, con programmi di sostegno sociale e sanitario azzerati; soppressione di aiuti al terzo mondo (USAID) che potrà causare fino a 14 milioni di morti (ricerca The Lancet) nei prossimi sei anni; dazi arbitrari imposti per “rabbia nazionalista” nei confronti del disavanzo commerciale, o per vendetta personale (Canada e Svizzera), oppure per ricattare un Paese terzo (Brasile); propaganda menzognera in politica interna ed estera, e sostegno a progetti disumani come il trasformare Gaza nella “Riviera del Medioriente”; e ancora: negazione del cambiamento climatico, attacco e demonizzazione dell’Europa, odio conclamato verso gli avversari politici, strumentalizzazione dell’uccisione di Charlie Kirk per attaccare la sinistra mondiale. Una ferocia e crudeltà brutali senza precedenti. Perlomeno a Washington. 

L’assassinio di Charlie Kirk si inserisce in questo contesto. Dacché Trump è al potere, quello dell’influencer di estrema destra non è il primo delitto politico. Da gennaio a oggi si contano, da una parte e dall’altra, ben 150 attacchi per motivi politici, la maggior parte dei quali poco noti ai media internazionali mentre, di sicuro, tutti ricordano l’omicidio di Melissa Hortman, membro democratico del Parlamento del Minnesota. 

Ma Trump cerca continuamente lo scontro, creando scintille ovunque al solo fine di appiccare l’incendio delle rivolte per arrivare, in ultima analisi, a invocare l’Insurrection Act del 1807 (legge marziale), completando così la trasformazione degli Usa da democrazia a dittatura. Manovra chiaramente enunciata nel Project 2025 – e ribadita nelle farneticazioni di the Donald davanti ai vertici militari riuniti in Virginia qualche giorno fa – e invisibile solo a chi non vuol vedere. A quel punto si sveglierà l’intera America che tiene in cantina le armi, come consentito dal secondo emendamento della Costituzione. 

Finché Trump userà il suo linguaggio incendiario, picconando le istituzioni democratiche e dividendo la società civile, la spirale della violenza non potrà che aumentare il proprio vortice. Esasperando nazionalismo e polarizzazione, l’inquilino (o futuro proprietario?) della Casa Bianca fa assomigliare sempre più la politica americana a quella tedesca e italiana della prima metà del ventesimo secolo. Assieme alla sua cricca di improvvisati Segretari (ministri), da R.F. Kennedy Junior (negazionista dell’utilità dei vaccini) a Kristi Noem, passando per Pete Hegseth e Kash Patel, The Donald timona il vascello degli Stati Uniti verso un funesto quanto prevedibile naufragio. Il rischio di vedere la più antica e grande democrazia del pianeta ridotta a un ammasso di relitti, il cui costo sarà la vita di molti esseri umani, potrebbe ormai essere solo questione di tempo.  

Eppure non è Trump l’origine della disfunzione democratica: è solo la manifestazione più visibile. È il riflesso di una profonda frattura socio-politica generata da quattro concause: (i) macchine partitiche dedite alla divisione per distrarre l’attenzione dal decadimento politico (senza distinzione tra Democratici e Repubblicani); (ii) istituzioni con interessi economici anteposti a quelli delle comunità; (iii) ecosistema dei media che hanno a lungo “intrattenuto” invece di informare, tramutando questioni serie in spettacolo e abdicando al contradditorio democratico; (iv) architettura finanziaria costruita a beneficio di pochissimi ma a spese dei più. 

L’emergere di una figura autocratica come Trump – seppur contradditoria nel suo “populismo da miliardario noto per ambiguità e disonestà nella vita personale come in quella professionale” – non è, dunque, una coincidenza di astrusi fattori, ma il risultato di un vuoto di intenti, di principi e di valori sociopolitici, apertosi mentre il benessere si erodeva sotto i piedi delle famiglie a reddito medio-basso. Allorché nelle urne elettorali echeggia la sensazione dei “soliti, consolidati interessi”, è facile diventare preda di una figura che si vanta di rappresentare la gente reale.

In sintesi, la comparsa del demagogo era pressocché inevitabile, non tanto perché Trump fosse ineludibile come persona, quanto per il terreno arato affinché qualcuno come lui vi mettesse le radici. The Donald ha riempito un vuoto fatto di rabbia, confusione e appiattimento delle speranze, uno spazio facile da occupare con promesse di chiarezza, forza, restauro e grandezza. Vere o false che fossero. Del resto anche le dittature nazi-fasciste del secolo scorso nacquero sui malesseri sociali e desiderio di rivincita, o grandezza nazionalista, da parte delle masse. E in Russia, ove la democrazia non c’è mai stata, neppure la dittatura di Putin sfugge alla logica della promessa imperiale, l’illusione con cui nutrire il popolo drogato dall’ideologia. 

Al Mago-in-Chief, semmai, va riconosciuta l’abilità dell’illusionista: Trump non ha bisogno di verità ma di “volume”, non di politica ma di spettacolo, non di risolvere i problemi della gente quanto di arricchire sé stesso e la sua cerchia. Con l’illusionismo politico, The Donald ha normalizzato la crudeltà, sdoganando l’ignoranza come forza, barattando ciarlataneria per verità e offuscando la linea che divide il governare dallo spettacolo. Raramente offre soluzioni concrete, ma sempre trova capri espiatori. Si professa imbattibile su cose che mai potranno essere provate: “Con me Presidente, Putin non avrebbe mai osato invadere l’Ucraina”, senza mai realizzare alcuna promessa: “Farò finire le guerre di Gaza e Ucraina in un giorno”, né dar seguito ai proclami populisti: “Pubblicherò tutto il dossier Epstein”.

I vari intoppi – ma chiamiamoli con il loro nome, fallimenti – secondo lui sono dovuti a incontrollabili fattori esterni, in realtà tanto assurdi quanto prevedibili. Trump si eleva non per virtù proprie ma spingendo gli altri verso il basso, sospinto da invidia e sete di vendetta. Non unisce ma divide con precisione chirurgica, modificando fatti, narrazioni e alterando ogni verità con menzogne via via crescenti e ingarbugliate. L’obiettivo è che la “sua personale realtà” diventi quella collettiva: un’immaginaria dimensione tramutata in “realtà forzata” nella quale ogni verità, sia essa economica, politica, sociale o scientifica, viene traviata e privata di ogni base concreta.

Nella visione di The Donald, più la nazione affonda in una crisi cognitiva e più essa dipenderà dall’illusione della sua forza e “presunta” (ma mai provata) capacità creare una nuova, grande America. Né più né meno come Mussolini, dei cui discorsi mio nonno parlava con incontenibile pena.