LA STORIA NASCONDE MA NON RUBA

di Beppe Attene

Eh sì, dobbiamo accettare il presupposto che nella Storia nulla vada effettivamente perduto ma che tutto continui ad agire anche di fronte a grandissime distanze di Tempo come di Spazio.

Non si tratta, si badi bene, della consolatoria proposizione New Age per cui il battito di una farfalla in Amazzonia contribuisce poi al terremoto nel Mediterraneo.

Quell’atteggiamento, per quanto rispettabile e a suo tempo anche liberatorio, tendeva ad essere fortemente giustificativo per la umana non comprensione di tante cose che avvengono nel mondo.

Diciamo che faceva il paio, per restare nella dimensione pop, con “Ma che colpa abbiamo noi?”.

Insomma, il mondo è complicato e noi non possiamo fare altro che prenderne atto e adeguarci.

Molto più complesso e faticoso è invece accettare pienamente l’idea che nel percorso dei millenni nulla di quanto fatto, o tentato o soltanto sognato, dalla specie umana vada disperso e si sciolga nel nulla.

La Storia non ruba. Al massimo accantona e mette da parte come succede in una casa avita.

Domani qualcuno sposterà un materasso o tenterà di mettere ordine in cantina e scoprirà, magari esterrefatto, che una parte delle sue azioni di quel momento si spiegano con quell’oggetto di cui non conosceva nemmeno l’esistenza.

Va qui specificato che il groviglio inscindibile dei fatti che sopravvive nel Tempo e nello Spazio funziona e agisce sia sui percorsi individuali sia su quelli collettivi che chiamiamo Storia.

Accettare, anche solo momentaneamente, questo punto di osservazione comporta un iniziale e non semplicissimo passaggio mentale.

Si tratta di riconoscere ed accettare la “natura oggettiva” della Storia distinguendola nettamente dalla ricerca storiografica che ne permette il racconto, lo studio e l’approfondimento.

Siamo, è vero, troppo condizionati dalla convinzione che la Storia la fanno gli uomini e che essa, nei suoi passaggi, verrebbe di fatto creata da chi la scrive in base alle proprie convinzioni e funzionalità.

C’è voluta la grandezza di Renzo De Felice per affermare l’obbligo della “prova accertata” per sostenere qualunque analisi storica.

In realtà, però, il riconoscimento di quella che qui chiamo “natura oggettiva” della Storia comporta inevitabilmente l’apertura di altri problematici fronti davanti a cui non è sufficiente il richiamo alla onestà dei suoi studiosi e narratori.

Non molti anni fa la Germania detta dell’Est era ancora oppressa da un regime definito comunista e certamente filorusso.

Durante una delle italiansky delegatia con cui quei regimi cercavano di giustificare ai compagni italiani il loro orrore, ci portarono in aperta campagna, di fronte a una sterminata distesa di grano.

In mezzo al grano una specie di porta simbolica: un grande masso su cui poggiava un grande tronco di cemento, come un grande albero abbattuto dal vento.

Ci invitarono a passare sotto quel tronco.

Dall’altra parte la temperatura si abbatteva immediatamente di diversi gradi.

Io e il compagno che era con me e si chiamava Massimo passammo e ripassammo diverse volte, ma ogni volta era uguale.

Da un lato caldo assoluto, dall’altro 4, 5 gradi in meno. L’autista, il poliziotto della Stasi e l’interprete ci guardavano ridacchiando mentre fumavano appoggiati al pulmino che ci aveva condotti sin lì.

Ci spiegarono che se lo aspettavano, che era normale e succedeva a tutti coloro che portavano in quel luogo apparentemente inesistente.

Quel punto segnava l’ingresso a un lager per bambini, che ne aveva contenuto circa 4000.

All’avvicinarsi delle truppe russe le SS, prima di ritirarsi verso Berlino, li avevano sterminati tutti.

Piuttosto che scappare liberandoli e sperare che almeno qualcuno si salvasse avevano preferito la “soluzione finale”.

Insomma, tutto quel male aveva segnato, con il suo inesauribile orrore, quel luogo che ora ricordava quel che era successo e ne parlava agli inconsapevoli visitatori.

Niente scompare ma tutto continua ad agire, ci dicevamo Massimo ed io, mentre ci conducevano verso i resti di quelle povere baracche che avevano ospitato lo Zenith della malvagità della nostra specie, nella sua perversa assenza di senso.

Poi forse non abbiamo più pensato alla profonda natura unitaria e compatta del mondo di cui facciamo parte.

Spesso abbiamo preferito rimuovere l’idea di quel groviglio di elementi che compone la nostra Storia e che alimenta i nostri pensieri e sentimenti.

Appariva molto più facile rifugiarci nella razionalità hegeliana che ci indicava come certo uno sbocco unitario e positivo del cammino umano nel mondo.

Era anche comoda.

Ci permetteva di dimenticare che la specie umana esiste da qualche milione di anni e che noi ragioniamo sì e no su qualche migliaio.

Ora, però, tutto ci segnala che dobbiamo deciderci ad affrontare il groviglio dei fattori storici e considerarlo la vera forza motrice del mondo, umano e non ma anche materiale e spirituale.

Oggi che la Grande Madre Russia (data per morta nel 1917) rinasce eguale dalle ceneri del comunismo che essa considera come proprie e condivide.

Oggi che qualunque trattativa economica (vero, Trump?) si rivela inutile e insignificante di fronte al valore di quella identità.

Oggi che, a distanza di 2600 anni, l’abbattimento del Regno di Giuda e la conquista di Israele ancora riappaiono come tragiche speranze, nutrite stavolta di una parte di pensiero islamico ma sempre eguali a se stesse.

Oggi che appare evidente l’incapacità di elaborazione e governo anche degli strumenti democratici in cui crediamo.

Oggi è il momento di accettare il fatto che la Storia non ruba e viaggiare senza paura nell’entanglement della Storia e dei rapporti fra gli uomini.

A questo nobile scopo dedicheremo il prossimo tempo da vivere.

E, per togliere qualunque illusione che si possa cancellare qualcosa dalla grande lavagna della nostra coscienza, chiuderò con un altro piccolo aneddoto personale.

Come ho già ricordato, molto frequenti erano i viaggi che i regimi comunisti ci offrivano per mostrarci la parte migliore di se stessi (da cui un meraviglioso film intitolato “Il compagno Don Camillo”

Nel  corso di uno di questi viaggi giunsi sino a Konisberg.    

Emozionatissimo chiesi di essere accompagnato alla panchina preferita da Immanuel Kant, dove soleva intrattenersi e intrattenere studenti, colleghi ed amici.

Pensavo che mi avrebbero condotto in un esaltante sacrario ma mi spiegarono, con comunista orgoglio, che avevano provveduto ad abbatterla e rimuoverne il ricordo.

Forse fu ipocrisia la mia, ma non trovai la concentrazione e il coraggio per spiegar loro che potevano distruggere tutte le panchine che volevano, ma il pensiero di Kant intanto correva libero per il mondo e lo cambiava per davvero.