di Beppe Attene
È oramai largamente diffusa la consapevolezza che (nonostante quel che si dice in uno slogan) la Storia (o le storie) la scrivono gli sconfitti e non i vincitori.
La Sconfitta appare assai più interessante e affascinante della Vittoria.
Si deve anche aggiungere che spesso ai vincitori non fa davvero piacere che alcuni particolari della gloriosa impresa vengano rivelati o raccontati. Fa fede su questo terreno il bombardamento inglese – americano della città di Dresda, a guerra quasi conclusa e senza obiettivi militari.
Ma sul tema del “meglio non parlarne” temo che torneremo in conclusione.
Ciò che è certo è però che lo Sconfitto appare portatore di valori, passioni e racconti assai più dell’immediato Vincitore materiale.
Pensiamo per un attimo alla Guerra di Secessione che per quattro anni, mentre nasceva l’Italia unita, stravolse e insanguinò quella Nazione che ora Trump vorrebbe far diventare di nuovo grande.
Agli occhi di noi lontani osservatori restano immagini, parole e suoni in massima parte provenienti da quel Sud tragicamente sconfitto e che si estendono bel al di là della guerra.
Non siamo certamente d’accordo con la difesa dello schiavismo, ma quei perdenti appaiono più significativi e interessanti dei vincitori.
Per non parlare, poi, del perdente che diventa nei secoli vincitore.
1600 anni fa il Vescovo Cirillo guidò le masse cristiane alla cattura e all’uccisione di Ipazia di Alessandria.
Il suo corpo venne scorticato usando gusci di ostriche e cozze, come si faceva con i papiri per cancellare quel che vi era scritto.
Ma Ipazia, omaggiata anche da successive grandi opere d’arte, risplende ancora nel cielo della comunicazione e della Storia insieme al rimpianto per la distruzione della Biblioteca Alessandrina.
E ancora, ogni tanto, qualcuno morbosamente si chiede se Cirillo sia ancora considerato Santo e se la Chiesa di Roma non abbia per caso, nel frattempo, rimosso quella incongrua classificazione.
Insomma, spesso chi perde rimane più a lungo e meglio nella coscienza collettiva e nelle forme di racconto che ne derivano.
Talvolta capita persino che il vincitore si viva e temporaneamente si trasformi in sconfitto.
Così, nella narrazione shakespeariana Enrico V apostrofa da perdente i suoi soldati prima della battaglia di Azincourt.
Perderanno, ma saranno per sempre vittoriosamente orgogliosi di quella sconfitta.
Poi gli archi lunghi degli arcieri gallesi sgonfieranno la presunzione della cavalleria francese e la battaglia sarà vinta dagli inglesi.
Ma Enrico resterà vivo per sempre grazie a quel discorso da sconfitto.
Più problematica appare la situazione quando il racconto dei fatti appare affidato non alla grandezza e al rispetto per chi venne comunque sconfitto, ma al compatimento e alla leggera autocritica dei cosiddetti vincitori.
È il caso (si parva licet componete magni) del racconto recentemente avviatosi dei fatti italiani del ’92 – ’93, pomposamente sinora intitolati come “passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica”.
Di tutta evidenza tale riflessione è stata avviata dall’anniversario della morte in esilio di Bettino Craxi che ha potuto congiungersi con l’emergere del fallimento di quella infausta rivoluzione con i danni che ha provocato, e continua a provocare, all’Italia.
Sino a quando, però, l’espressione di questa consapevolezza resterà affidata a personaggi (di primo come di infimo piano) che dalla fasulla rivoluzione hanno tratto vantaggi, denaro e potere i limiti e l’ipocrisia di queste riflessioni continueranno ad inquinare ogni dibattito ed approfondimento.
Si susseguono espressioni ipocrite e devianti. Si va dal “forse ci siamo sbagliati” al “scusaci Bettino”.
Il tono è quello che uso io in cucina quando debbo farmi perdonare di avere bruciato la padella.
Lo stesso riconoscimento di Bettino Craxi come “ultimo” grande statista è generalmente condito di un succedersi di “ma e però” che in realtà nascondono un messaggio assai meno consolante e positivo.
La attribuzione della qualifica di “ultimo” colloca il giudizio storico nella stessa categoria delle espressioni che usiamo per parlare del meraviglioso Tirannosauro Rex: era potente e dominatore, ma la sua epoca era finita.
E, del resto, come potrebbero essi elaborare altrimenti le parole di Craxi in quell’Aprile del 1992 in cui nessuno si alzò a smentirlo?
“Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro.“
Nessuno si alzò, ma del resto perché avrebbero dovuto farlo?
Nella testa dei vincitori l’epoca dei Partiti storici, portatori di istanze e di appartenenze, era ormai conclusa.
Si apriva un felice periodo di individualismo sfrenato, di incoerenza personale e di libera corruzione. Meglio guardare sotto i banchi e fingere di non avere sentito.
Può darsi, però, che sia giunto il momento di ricostruire e forse riproporre i valori di quel mondo che una finta rivoluzione distrusse con una congiura mediatico – giudiziaria.
Magari potrebbe essere utile ricominciare a considerare con orgoglio le proprie scelte politiche e culturali, di qualunque segno esse siano.
L’impegno in politica potrebbe tornare ad essere consapevole e lucido, non strumentale e provvisorio.
Potrebbe anche essere utile diffondere nuovamente il rispetto per gli avversari nella dimensione politico istituzionale.
Avversari, non nemici, come correttamente Almirante ricordò entrando in Botteghe Oscure dove in quel momento tutti salutavamo per l’ultima volta Enrico Berlinguer.
Si potrebbe nuovamente imparare che non serve e non conviene insultare o sputtanare l’avversario politico.
Non soltanto quelle aggressioni potrebbero rigirarsi contro chi le ha iniziate, ma ridicolizzare colui contro cui si combatte indebolisce la qualità della vittoria (se si vince) o aggrava la responsabilità della sconfitta (se si perde).
Imparare, insomma, dai pugili che esaltano la forza del contendente. E non per bontà.
Sarebbe anche interessante imparare di nuovo che mentire o fornire dati falsi non serve a niente.
Purtroppo, ciò richiederebbe (all’opposizione come al governo) di ricominciare a studiare sistematicamente.
Si scoprirebbe però presto che è un giusto prezzo da pagare in confronto ai vantaggi che porta.
E, infine, si potrebbe anche decidere di tentar di ristabilire un rapporto fisico e quotidiano con i propri sostenitori smettendo di affidarsi ai like e alle connessioni elettroniche.
Potrebbe essere importante, in presenza di una astensione dal voto della maggioranza dei cittadini e, soprattutto del fatto che il rapporto diretto e personale viene ormai gestito e organizzato soltanto dalle forze del Male.
Quanti condizionali, quanti punti interrogativi, quanta perplessità sull’esporsi nuovamente.
Ma siamo in un’Italia nella quale viene nuovamente richiesto di non affiancare al nome di Giacomo Matteotti la parola “socialista”, considerata limitante ed offensiva per quel Martire, che socialista fu tutta la vita.
Forse sarebbe il caso che iniziassimo a lottare per riottenere l’onorabilità che ci venne un giorno strappata di dosso.
E certo non ci possiamo aspettare che siano gli autori e i registi di quella violenza a darsi da fare per farcela nuovamente riconoscere.
Commenti
Una risposta a “LA SCONFITTA E LA STORIA”
ho scritto su questo stesso giornale un articolo di segno opposto : la storia la scrivono i vincitori. Ma il suo bell’articolo con i suoi riferimenti storici mi fa concludere che, come sempre, non esiste una sola verità. Dipende da come si interpretano i fatti. Complimenti per la sua riflessione