100 metri di vasca in 53 secondi. Sara Curtis, da Savigliano, ridente località della provincia di Cuneo e torinese d’adozione è la nuova record woman dei 100 stile e la stella emergente del nuoto femminile, appena diciottenne già più veloce di Federica Pellegrini, icona dello sport azzurro.
Curtis è balzata all’attenzione dei media anche per altri due motivi. Il primo: è un cervello in fuga, ha una borsa di studio all’università della Virginia per allenarsi con grandi campionesse come Gretchen Walsh e Kate Douglass. Il secondo: è finita sotto l’attacco di haters che le rimproverano la pelle scura e le origini metà italiane meta nigeriane. Sostengono i leoni da tastiera che il primato dei 100 stile di Sara è il primato nigeriano, non quello italiano.
La risposta è netta e sdegnata: “Questi signori dovrebbero sfogliarsi la Costituzione, sapere che tra i requisiti per avere la cittadinanza c’è quello di avere almeno un genitore italiano” ed essere nata da due culture diverse rappresenti un suo grande arricchimento.
Sara tra l’latro si diploma quest’anno all’Istituto Tecnico Economico di Savigliano dove frequenta una classe decisamente “multietnica”: “Siamo in nove, c’è solo una ragazza che ha entrambi i genitori italiani. Sentirmi dire che non sono italiana” conclude, “solo perché sono mulatta è ripugnante.“
Sara ad agosto si trasferirà negli Usa, all’Università della Virginia che la cerca già dal 2023.
I leoni da tastiera la hanno accusato di tradire l’Italia e di scappare negli Usa, lei però ribatte ha ribattuto che “il tricolore lo vestirò per sempre perché sono italiana. A dispetto di quello che può pensare qualche ignorante”.
Nel frattempo nel 2025 Forbes Italia la ha inserita nella lista dei 100 under 30 che stanno cambiando il nostro paese nella categoria Sports & Games.
La storia di Sara è una delle tante di atlete ed atleti di successo che non sono nati in Italia o hanno genitori non italiani o sono adottati. E ogni volta che se ne parla si scatena un dibattito sempre più volgare ed aggressivo, in un paese che nel volgere di mezzo secolo è passato dall’essere patria di migranti a meta di immigrati. Un paese “giovane” che in questi anni è invecchiato e che oggi si interroga sulla sua identità costruita sulla nazionale di calcio e la TV a partire da divari territoriali e sociali ancora oggi evidenti.
L’identità del resto è relazionale ed è vero quello che accade: il mondo per come è oggi è il mondo della contaminazione, non quello dei suprematisti bianchi, biondi e osservanti.
Nel nostro paese un adulto straniero, cittadino di un Paese che non fa parte dell’Unione Europea, deve risiedere legalmente da dieci anni in Italia per poter chiedere la cittadinanza italiana.
Tra i referendum dell’8 e 9 giugno, si vota anche per dimezzare i tempi di residenza che danno diritto a chiedere la cittadinanza italiana, tornando ai criteri introdotti nel 1865 e rimasto invariato fino al 1992. Il termine dei dieci anni è tra i più lunghi nel Mondo e complica il percorso per molti, a partire dai minori stranieri nati in Italia da genitori non italiani e che non acquisiscono automaticamente la cittadinanza salvo richiederla al compimento dei diciotto anni se ha risieduto legalmente e ininterrottamente in Italia fino a quel momento.
Abbreviare i tempi a cinque anni, senza toccare gli altri criteri, come il reddito e la conoscenza della lingua, oltre a semplificare il percorso oggi eccessivamente burocratizzato avvicinerebbe l’Italia agli standard di altri Paesi europei.
I sostenitori del ‘No’ pensano che la legge attuale sia adeguata e che l’Italia rilasci un numero troppo alto di cittadinanze rispetto ad altri Paesi.
Al di là di quello che ciascuno può pensare a proposito della fraternità e dell’umanità è curioso che un paese come il nostro nel pieno dell’inverno demografico sia ancora convinto dell’efficacia di politiche pro-natalità che non funzionano più da nessuna parte e si ostini a pensare che la migrazione da un paese povero ad uno più ricco sia un fenomeno che si può arrestare con un muro o affondando navi…
A fine aprile è uscito “La costituzione dei poveri” (Castevecchi, 2025) un dialogo sui grandi temi della modernità tra Virginio Colmegna, il “prete di strada” della periferia milanese, e Gustavo Zagrebelsky, il grande giurista” presidente emerito della Corte Costituzionale.

Il testo parla di costituzione e di giustizia sociale. Ragiona sul “senso” della modernità attraverso le sue contraddizioni, è complesso denso e allo stesso tempo è all’altezza della sua ambizione.
Un libro potente, centrato sulla relazione, sul dialogo e sull’urgenza di ricostruire i fondamentali dell’umano in tempi di radicalizzazioni e nuove povertà.
Il contesto entro cui si svolge il dialogo è quello della disuguaglianza cinque punto zero, della fragilità e del bisogno, dell’incertezza e della paura, con quello che ne consegue e ne deriva in una comunità che si trasforma sotto i colpi del nuovo sistema economico, sociale e soprattutto valoriale. In questa ottica si ragione sulla costituzione vista con gli occhi e le urgenze degli ultimi e sul messaggio evangelico che diventa universale e laico , nel transattivo di individuare una casa comune in cui riscrivere le ragioni di una convivenza e di una identità basata sull’appartenenza al genere umano più che sui confini e sulle diverse culture che animano il nostro pianeta.
Viene in mente il capolavoro di Stefano Mancuso, l’intelligenza delle piante e la grande massima di Darwin, cioè che l’evoluzione premia il più adatto, non il migliore, il più ricco o chi se lo “merita” di più. Le piante sono intelligenti perché valorizzano la diversità, secondo logiche ed ecosistemi collaborativi non competitivi. Gli uomini forse avrebbe di che ispirarsi.
“Lo straniero al quel sia impedito nel suo paese effettivo l’esercizio delle sue libertà democratiche garantite dalla Costituzione Italiana ha diritto d’asilo nel territorio della repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge”.
È il 27 dicembre 2005. Milano, via Lecco. La polizia sgombera un albergo diroccato dove 300 profughi del Corno d’Africa avevano trovato rifugio dopo le traversate in mare e il “soggiorno” nei campi libici, il girone infernale ormai ben noto. È appena passato Santo Stefano, nevica e la città è addobbata per le feste. In via Lecco con gli agenti in tenuta antisommossa e i profughi che escono dall’albergo occupato da tre mesi ci sono alcuni attivisti che protestano ed un prete che con un megafono in mano recita l’articolo 10 della Costituzione. Quella che tutela gli stranieri a cui sono negati le libertà democratiche. La costituzione dei poveri, appunto.
Che è la stessa che tutela la libertà di culto compreso il diritto di costruire luoghi in cui pregare il Dio che si preferisce. Possibilmente in luoghi che non siano scantinati o garage alla periferia della grande città.
PS:
Nel 2025 e siamo convinti che si debba stare nelle cose per come son e che cambiano. Superfluo a questo punto aggiungere altro.