LA MAPPA DEL COMPLESSO TECNOLOGICO AUTORITARIO

di Francesco Monico

Nell’epoca degli uomini, a volte, un enunciato appare – e il mondo cambia direzione. Non è un suono, ma un varco: una fenditura del linguaggio attraverso cui la storia si piega, la coscienza si sposta, e l’invisibile prende forma. È fatto di parole che non descrivono: fondano. Non spiegano: trasformano. Quando emergono, non nominano soltanto, ma rivelano la mutazione di un’epoca: il suo nuovo modo di respirare, pensare, temere. Come per “guerra fredda”, “società dello spettacolo”, “villaggio globale”, l’enunciato non definisce: fa esistere un nuovo piano di realtà.

Ogni volta che uno di questi enunciati appare, la realtà si riscrive – come se un altro secolo, silenziosamente, iniziasse. Parole che emergono come fermentazioni concettuali, segni che condensano tensioni e forze del tempo. Oggi ne è apparsa una, tra le pagine di un quotidiano nazional-popolare: La mappa del complesso tecnologico autoritario.

Questo enunciato – tecnico in apparenza, ma profondamente politico – segna l’inizio di una nuova fase dell’ipermodernità. Entriamo in un’epoca in cui la geopolitica si contrae, simultaneamente, nello spazio e nel tempo. Il mondo diventa un’unica piattaforma nello spazio, e il tempo una sequenza di decisioni istantanee.

Su questo sfondo emerge una nuova aristocrazia digitale, un’élite che supera il capitalismo industriale per evolvere in un capitalismo di rendita e di potere, somigliante in modo straniante a un sistema neofeudale: un ordine fondato non sulla produzione ma sul controllo delle infrastrutture, dei dati e dei flussi cognitivi.

Il termine “Complesso tecnologico autoritario” e la sua “mappa” si propone come metafora critica: un modo per leggere l’intreccio sempre più fitto tra tecnologia, potere e autoritarismo. Oggi esiste un sistema più veloce, ideologico e privato di qualsiasi precedente modello industriale: è una costellazione di imprese digitali, apparati statali e militari, infrastrutture di dati e intelligenze artificiali intrecciate a dispositivi normativi e finanziari. Insieme, producono un nuovo tipo di potere sovrano: non politico né economico, ma tecnologico. La “mappa” è il tentativo di rendere visibile questa rete: nodi (aziende, piattaforme, governi), relazioni (flussi di capitale, dati, alleanze, standard tecnologici). Un sistema che non governa più attraverso la partecipazione o la mediazione, ma attraverso algoritmi, automazione e sorveglianza invisibile. È la forma compiuta della post-democrazia.

Le articolazioni di questo complesso sono molteplici e interconnesse:

  • Infrastrutture di dati e IA: enormi architetture di informazione che alimentano modelli predittivi e meccanismi di sorveglianza.
  • Attori privati e ibridi: le grandi piattaforme globali, ma anche i nuovi poli tecnologici asiatici, arabi o europei, che esercitano funzioni di governo parallelo.
  • Governance invisibile: standard, protocolli e regole imposte da chi possiede la rete, più che da chi la abita. Controllo sociale: la sorveglianza non è più l’eccezione, ma la forma quotidiana del potere; una censura diffusa che agisce senza coercizione esplicita, perché integrata nella funzione.
  • Geopolitica tecnologica: la competizione tra blocchi (USA, Cina, UE) trasforma la tecnologia nel nuovo teatro del dominio, in cui l’informazione è la risorsa e l’autonomia il lusso più raro.

Parlare di mappa significa tentare di disegnare l’invisibile. Le mappe mostrano non solo chi detiene il potere, ma come le forze si distribuiscono: dove si concentrano, come si spostano, dove diventano latenti. Una mappa è sempre anche un atto politico: permette di capire le gerarchie, ma anche le fughe possibili.

La libertà oggi non vive più nello spazio né nel tempo pubblico. Vive nella latenza.
Un tempo la libertà era spaziale: era nel movimento, nella fuga, nella distanza.

Era la libertà che stava negli interstizi del territorio. La libertà di Butch Cassidy and the Sundance Kid – quella del movimento, del margine, dell’intervallo – trova nel film di George Roy Hill (1969) la sua elegia definitiva. Nel western classico la distanza era ancora uno spazio di possibilità: bastava un cavallo, una collina, un fiume, e la legge restava indietro. La frontiera era la promessa di una fuga, l’orizzonte aperto. Ma nel film con Paul Newman e Robert Redford, quella promessa è già finita. La modernità tecnologica ha compiuto la sua rivoluzione: il telegrafo e la ferrovia hanno annullato lo spazio e contratto il tempo.

L’informazione corre più veloce dei cavalli; il comando precede il movimento. Quando la banda di Pinkerton insegue i due fuorilegge, è il telegrafo a guidarla, coordinando uomini e treni e segnalando ogni via di fuga. In una sequenza emblematica Butch e Sundance osservano, impotenti, il moltiplicarsi delle forze che li braccano. Non manca il coraggio, ma il tempo: la velocità del messaggio li ha già condannati. La distanza, un tempo alleata, si è dissolta. Il film – ironico, malinconico, intriso di quella luce dorata che precede il tramonto – segna la fine della libertà spaziale. I due eroi, incapaci ormai di scomparire nel paesaggio, fuggono fino all’ultimo: nella celebre scena finale, assediati in un villaggio boliviano, escono allo scoperto sparando.

Il fermo immagine sospende il tempo e li consegna all’eternità. Il film è l’immagine simbolica della modernità che muore: l’ultimo respiro della libertà come latenza nello spazio, prima che la comunicazione istantanea e la sorveglianza totale rendano impossibile ogni fuga. Con il telegrafo, la geografia diventa rete, e la rete diventa legge. Da allora, l’uomo non fugge più nello spazio – fugge nel tempo, o meglio, nella ricerca di un tempo che non esiste più. Poi la libertà è diventata temporale: viveva nel tempo della riflessione, della discussione, del giudizio.

Esisteva un tempo della condanna e un tempo dell’assoluzione; tra l’azione e la reazione, c’era la possibilità di pensare. Il giudizio si consuma nella velocità del flusso, secondo l’etica della funzione: ciò che funziona è giusto, ciò che rallenta è colpevole. Abbiamo perso la latenza, quello spazio-tempo intermedio che permetteva alla libertà di respirare. È la fine del moderno, epoca in cui il pensare ancora sostava, e l’inizio dell’ipermoderno, in cui ogni cosa è già misurata prima d’essere pensata. Qui la tecnica non è più strumento, ma modo dell’essere, potenza che tutto riduce a calcolo, a funzione, a protocollo operativo.

Il mondo non si offre più come orizzonte di senso, ma come campo di esecuzione, dove l’essere stesso è tradotto in procedura. Nell’ipermoderno, la verità non si dà come disvelamento, ma come prestazione: ciò che è vero è ciò che funziona, ciò che risponde in tempo reale, ciò che aderisce al comando della misura. È l’età della tecnica misurante, che non solo quantifica il reale, ma ne determina la possibilità di esistere.

L’uomo, divenuto funzione tra le funzioni, perde la sua distanza riflessiva, e con essa la libertà che nasceva dal differimento. Così l’ipermoderno non è il superamento del moderno, ma la sua saturazione: il punto in cui la razionalità strumentale si compie, e nel compiersi si chiude su se stessa, lasciando dietro di sé un tempo privo di pausa, un pensiero privo di silenzio, un mondo senza più latenza. Là dove la modernità cercava emancipazione nella ragione e nella distanza, l’ipermodernità comprime tutto nella “mappa del complesso tecnologico autoritario”: un sistema dell’istantaneo, della trasparenza obbligata e del controllo in tempo reale. La libertà, oggi, si rifugia nell’invisibile, nel ritardo, nell’ombra.

Il concetto di complesso tecnologico autoritario non è ancora un sistema teorico, ma un’intuizione che intercetta il nostro tempo. Il compito, ora, è mappare la mappa: capire che cosa vi si muove – infrastrutture, algoritmi, economie, linguaggi – e con quale logica. La domanda non è più se la tecnologia sia autoritaria, ma come e dove lo diventa. E se, nell’epoca dell’istantaneo, sia ancora possibile una libertà che viva nel differimento, nella lentezza, nel pensiero. Perché forse la vera resistenza, oggi, non è opporsi, ma ritardare: rallentare il ritmo del potere, restituire al tempo la sua profondità. È da lì, da quella latenza, che può ancora nascere una forma di libertà possibile.


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